Dal 28 ottobre al 1 novembre si tiene a Torino-Valdocco il convegno internazionale di studi dedicato a “Don Michele Rua, primo successore di don Bosco”, alla vigilia del centenario della morte del beato, avvenuta il 6 aprile 1910, e dell’anno speciale che il Rettor maggiore salesiano ha indetto nella sua memoria (31 gennaio 2010 – 31 gennaio 2011).
Al convegno, organizzato dall’Associazione cultori di storia salesiana e dall’Istituto storico salesiano, partecipano un centinaio di studiosi provenienti da trentatré nazioni.
Pubblichiamo la sintesi della prima relazione, tenuta dal postulatore generale delle Cause dei santi della famiglia salesiana.
”Don Michele Rua, fedele discepolo di don Bosco” è espressione che ricorre come un leitmotiv nelle biografie del beato.
Di fronte a simili stereotipi, il dovere dello storico è quello di un’indagine rigorosa, che illustri la verità e le approssimazioni del caso.
È ciò che mi propongo di fare, avviando un confronto tra la Positio sulle virtù di don Bosco e quella di don Rua.
In effetti, ritengo che sia questa la via più sicura – perché la più ricca di documentazione, generalmente affidabile – per affrontare la questione.
La causa di canonizzazione di don Bosco Il 1° aprile 1934 – domenica di Pasqua e solenne chiusura del Giubileo straordinario della redenzione – il Papa Pio XI proclamava santo il sacerdote torinese Giovanni Bosco (1815-1888).
Giungeva così al termine la sua causa di beatificazione e di canonizzazione, iniziata a Torino il 4 giugno 1890.
La prima fase – cioè il “processo ordinario”, così chiamato perché condotto sotto la responsabilità del vescovo ordinario del luogo – venne chiusa il 1° giugno 1897.
Dieci anni dopo, il 24 luglio 1907, iniziò a Roma il “processo apostolico” sotto la responsabilità diretta della Santa Sede – precisamente della Sacra Congregazione dei Riti.
Questa seconda fase durò vent’anni, fino all’8 febbraio 1927, e conobbe esiti alterni.
Basti dire che al termine di una sessione preparatoria – precisamente quella del 20 luglio 1926 – sembrò ad alcuni che la causa non potesse più procedere.
Ma l’interessamento autorevole di Pio XI – che da giovane prete aveva conosciuto personalmente don Bosco (“Noi siamo con profonda compiacenza tra i più antichi amici personali del venerabile don Bosco”: così aveva detto il neoeletto Pontefice nell’allocuzione rivolta ai giovani collegiali salesiani l’8 giugno 1922) e ne aveva conservato un ricordo altissimo – fece ripetere la medesima sessione pochi mesi più tardi, il 14 dicembre 1926.
L’esito positivo di questa nuova sessione spianò la strada agli adempimenti ulteriori, in primo luogo alla cosiddetta congregazione generale coram sanctissimo – cioè davanti al Papa – l’8 febbraio 1927, e finalmente alla promulgazione del decreto sull’eroicità della vita e delle virtù del venerabile Giovanni Bosco (20 febbraio 1927).
Così, dopo il riconoscimento dei quattro miracoli allora prescritti – due per la beatificazione e due per la canonizzazione – il Papa Pio XI poté procedere il 2 giugno 1929 alla beatificazione di don Bosco, e poi alla sua canonizzazione, precisamente il 1° aprile 1934.
Soprattutto il “processo apostolico” – i cui atti confluiscono nella Positio super virtutibus – intende illustrare al meglio, pur con i limiti delle ricerche umane, il peculiare modello di santità incarnato da quella persona, di cui si discute.
Così il confronto tra le rispettive Positiones – di don Bosco e di don Rua – consente di verificare le tangenze e le distanze dei due modelli.
Secondo la procedura allora vigente – sostanzialmente modificata dai successivi interventi pontifici, fino alla costituzione Divinus perfectionis Magister di Giovanni Paolo II (1983) – il processo apostolico era condotto con il metodo delle “obiezioni” – le cosiddette animadversiones proposte dall’ufficio del Promotore della Fede, cioè dal “pubblico ministero” della Sacra Congregazione, volgarmente chiamato “avvocato del diavolo”) e delle “risposte” (le responsiones preparate dall’avvocato [difensore] designato dalla Postulazione).
Le obiezioni alla santità di don Bosco, che emergono dalla lettura della Positio, sono abbastanza note.
Si tratta soprattutto della sua “astuzia”, orientata, secondo l'”avvocato del diavolo”, a un’ardente passione di successo personale e di guadagno economico.
Vi entra anche, per gli stessi motivi, l’accusa di un certo “plagio” nei confronti dei ragazzi, con rilievi pesanti riguardo al mancato esercizio della prudenza, specialmente nei racconti di sogni e di premonizioni terrificanti; di “non trasparenza” – per usare il vocabolario di oggi – nella ricerca e nella gestione d’elemosine e d’eredità; di scarsa sobrietà nella mensa; e, finalmente, di disubbidienza pressoché sistematica all’arcivescovo di Torino, Lorenzo Gastaldi.
La causa di canonizzazione di don Michele Rua La prima fase della causa di beatificazione e di canonizzazione del servo di Dio Michele Rua, cioè il cosiddetto “processo ordinario”, si svolse a Torino dal 2 maggio 1922 al 20 novembre 1928.
In duecentoventisei sessioni furono ascoltati ventidue testimoni, tra cui due testi ex officio – così detti perché convocati direttamente dal tribunale, al di là della lista dei testimoni presentata all’inizio del processo.
Otto anni dopo, il 10 novembre 1936 – quando la canonizzazione di don Bosco era ormai avvenuta da più di due anni – iniziò la seconda fase della causa, cioè il “processo apostolico”.
Ma il periodo bellico rallentò sensibilmente l’andamento della causa: così il decreto sull’eroicità delle virtù fu promulgato soltanto il 21 aprile 1953.
Trascorsero ancora diciassette anni per il riconoscimento dei due miracoli prescritti per la beatificazione – il relativo Decreto è del 19 novembre 1970 – e finalmente il 29 ottobre 1972 il venerabile Michele Rua fu solennemente beatificato a Roma, nella basilica di San Pietro, dal Papa Paolo VI.
La procedura introdotta da Giovanni Paolo II nel 1983 – tuttora vigente – richiede un altro miracolo, e non due, per la canonizzazione.
Tuttavia, benché la Postulazione abbia raccolto un lungo elenco di “grazie” attribuite all’intercessione di don Rua, al momento presente nessuna d’esse si configura in maniera tale da consentire l’apertura di un processo sul miracolo.
Quando questo processo sarà celebrato – a tale scopo è necessario promuovere nel popolo di Dio la conoscenza del beato, diffonderne il culto e raccomandarne l’intercessione – e se il giudizio degli organismi giudicanti sarà positivo, il Papa potrà procedere alla canonizzazione di don Michele Rua.
Lo studio del “processo apostolico” e l’esame della Positio super virtutibus di don Rua sono decisivi per il confronto – che qui ci interessa – tra il modello di santità rappresentato da don Bosco e quello incarnato da don Rua.
In verità, questo studio e questo esame sono già stati compiuti da storici e biografi del calibro di Agostino Auffray, Eugenio Ceria e Joseph Aubry, e sono stati ricondotti in sintesi efficace da Francis Desramaut nelle pagine conclusive della sua recentissima Vita di don Michele Rua primo successore di don Bosco, pubblicata in francese, di prossima edizione in lingua italiana.
Volendo riferirci a quest’ultima sintesi, appare evidente che la prudenza, la temperanza e la povertà sono le virtù che caratterizzano maggiormente il profilo spirituale di don Rua tracciato nella Positio.
Ovviamente nessuna delle tre virtù rimane fine a se stessa.
Tutte e tre concorrono a delineare la carità eroica di don Rua – sia la carità verso Dio, sia la carità verso il prossimo, con particolare riferimento ai giovani poveri e abbandonati.
Resta il fatto che l’itinerario di santità percorso da Michele Rua trascorre attraverso queste tre virtù in maniera del tutto privilegiata.
Così noi le prenderemo ordinatamente in esame, riferendoci sempre al testo della Positio e alla sintesi proposta da Desramaut.
Anzitutto – scrive il padre Desramaut – don Rua era souverainement prudent, tanto che la prudenza è sottolineata con un’enfasi speciale anche nel decreto sull’eroicità delle virtù.
Di fatto, nella Positio si legge che don Rua praticò puntualmente la prudenza, e così, con l’aiuto di Dio, egli fece crescere dovunque la società salesiana; promosse nei confratelli la pietà e lo zelo per le anime; moltiplicò le spedizioni missionarie; approvò e sostenne i salesiani che desideravano dedicarsi all’apostolato dei lebbrosi; fece in modo che nei collegi si coltivassero la pietà, lo studio e la disciplina; e con grande energia – mai disgiunta dall’amorevolezza – non trascurò nulla, secondo gli insegnamenti del fondatore, che potesse contribuire alla maggior gloria di Dio.
Come si vede, la prudenza appare la sigla distintiva dell’immensa opera di governo e di animazione pastorale svolta dal beato Michele Rua.
Quanto alla temperanza, egli riempì di contenuti pratici – con una ricchezza straordinaria – il programma consegnato da don Bosco ai suoi figli: “Lavoro e temperanza”.
In particolare, la temperanza si traduceva per lui nel “culto della regola”.
Si dice che don Bosco ripetesse: “Don Rua è la regola vivente”.
Sorvegliava attentamente se stesso per concedere al corpo solo ciò che era strettamente necessario.
Mai si concesse la siesta pomeridiana.
Ogni giorno, dopo il pranzo, partecipava alla ricreazione con i confratelli, secondo le indicazioni della regola, mentre alla sera, dopo le preghiere, manteneva il religioso silenzio.
Così pure osservava e faceva osservare tutte le prescrizioni, anche le più piccole, della sacra liturgia.
Era temperante pure nel cibo.
Non lo si vide mai assumere alcun alimento fuori dai pasti, e alla sua mensa di rettor maggiore non tollerava alcun privilegio.
Per il sonno, al termine della sua estenuante giornata, si stendeva per cinque o sei ore su un divano trasformato in letto.
Insomma, aveva imparato fin da ragazzo a “non ascoltarsi mai”, non certo per il gusto della mortificazione in se stessa, ma per rendere il corpo più docile al servizio della carità.
Riguardo infine alla povertà, don Rua ne fece la sua compagna prediletta.
Non aveva che due talari, una per l’estate e una per l’inverno, tutt’e due usate fino a logorarne la stoffa, ma sempre perfettamente ordinate.
Per ventidue anni abitò la camera che era stata di don Bosco, e non permise mai che qualche cosa ne fosse cambiata.
Forse la sua lettera circolare più ispirata è quella del 31 gennaio 1907, dedicata appunto al tema della povertà, da lui definita “il primo dei consigli evangelici”.
“La povertà, in se stessa, non è una virtù”, si legge nella medesima lettera.
“La povertà diventa virtù solo quando è volontariamente abbracciata per amor di Dio, come fanno coloro che si danno alla vita religiosa.
Tuttavia anche allora la povertà non cessa di essere amara; anche ai religiosi la pratica della povertà impone dei gravi sacrifici, come noi stessi ne abbiamo fatto mille volte l’esperienza.
Non è perciò da stupire se la povertà sia sempre il punto più delicato della vita religiosa, se ella sia come la pietra di paragone per distinguere una comunità fiorente da una rilassata, un religioso zelante da uno negligente…
Di qui la necessità per parte dei superiori di parlarne sovente e per parte di tutti i membri della famiglia salesiana di mantenerne vivo l’amore e intiera la pratica”.
Più avanti, illustrando la motivazione carismatica della povertà salesiana, don Rua aggiunge: “Chiunque non vivesse secondo il voto di povertà, chi nel vitto, nel vestito, nell’alloggio, nei viaggi, nelle agiatezze della vita valicasse i limiti che c’impone il nostro stato, dovrebbe sentir rimorso d’aver sottratto alla congregazione quel denaro che era stato destinato a dar pane agli orfani, favorire qualche vocazione, estendere il regno di Gesù Cristo.
Pensi che ne dovrà rendere conto al tribunale di Dio”.
Confronto tra due profili spirituali Può destare qualche sorpresa e perplessità la conclusione più evidente a cui approda il confronto tra le due Positiones, cioè il fatto che le stesse virtù maggiormente invocate per delineare la santità di don Rua sono quelle costantemente impugnate per contestare la santità di don Bosco.
È vero infatti che proprio la prudenza, la temperanza e la povertà sono i “cavalli di battaglia” delle animadversiones raccolte nella Positio del fondatore.
Si può vedere, al riguardo, come abbiano resistito tenacemente – fino alla Novissima positio super virtutibus, stampata per la congregazione generale coram sanctissimo dell’8 febbraio 1927 – le obiezioni alla prudenza di don Bosco – oltre che alla sua obbedienza – specialmente a causa della vicenda con monsignor Gastaldi; e le obiezioni alla sua povertà, soprattutto a causa di una certa transazione di beni dei Servi di Maria.
La risposta a queste e alle altre obiezioni giunse finalmente – oltre che dagli avvocati difensori – dall’autorità suprema del Papa.
Al termine della medesima congregazione generale dell’8 febbraio 1927, che chiuse il processo apostolico, Pio XI ebbe a dire: “Il venerabile don Bosco appartiene alla magnifica categoria di uomini scelti in tutta l’umanità, a questi colossi di grandezza benefica, e la sua figura facilmente si ricompone, se all’analisi minuta, rigorosa delle sue virtù, quale venne fatta nelle precedenti discussioni lunghe e reiterate, succede la sintesi che, riunendone le sparse linee, la restituisce bella e grande: una magnifica figura, che l’immensa, insondabile umiltà, non riusciva a nascondere”.
E qualche anno dopo, nell’omelia della canonizzazione, il Santo Padre avrebbe solennemente definito quella “magnifica figura” come l'”apostolo della gioventù, interamente dedito alla gloria di Dio e alla salute delle anime”, distintosi per arditezza di concetti e modernità di mezzi in ordine all’educazione completa dell’uomo.
Educazione che – secondo il pensiero del Papa, in polemica non troppo velata con la cultura fascista del tempo – non doveva limitarsi soltanto a corroborare il corpo, ma doveva mirare a tutto il suo essere, e a promuovere la formazione delle scienze, senza però trascurare mai le verità divine e soprannaturali.
Il riconoscimento delle virtù di don Bosco non poteva essere più pieno né più autorevole.
D’altra parte, la pratica delle medesime virtù aveva in lui quel tanto d’inedito e di “ardimentoso” – per riecheggiare il linguaggio di Pio XI – che può spiegare, almeno in parte, le animadversiones citate.
Ebbene, la ricezione assai differente della santità di don Rua rispetto a quella del fondatore – come attesta con sufficiente chiarezza il confronto tra le due Positiones – dimostra che egli non fu la “copia” di don Bosco.
Se lo stereotipo del “fedele discepolo” dovesse significare questo, sarebbe certamente da rigettare.
In ogni caso, è da preferire l’espressione adottata dal Rettor maggiore nella sua lettera del 24 giugno 2009, con la quale egli indice un anno dedicato alla memoria del beato Michele Rua nel primo centenario della sua scomparsa: qui infatti don Chávez parla di don Rua come di un “discepolo fedele di Gesù sui passi di don Bosco”.
In realtà, assai più che una semplice “copia” del fondatore, il primo successore di don Bosco appare – anche nella vita spirituale e nell’itinerario della santità salesiana – come colui che “ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume”.
Conservando intatta la propria irripetibile personalità – che era ben diversa da quella di don Bosco – egli ha approfondito e sistematizzato in un progetto di vita personale e comunitaria il cammino di perfezione di san Giovanni Bosco, percorrendo una via propria, originale.
In questo senso va interpretata l’affermazione di Angelo Amadei – che cita a sua volta don Paolo Albera – là dove si legge che don Rua “riuscì a riprodurre in se stesso nel modo più perfetto il modello” del fondatore.
Per questo motivo, infine, il beato Michele Rua rappresenta la “chiave di lettura” migliore – e quasi obbligatoria – per comprendere a fondo il modello di santità realizzato da san Giovanni Bosco.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)
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