Paideia e università

Pubblichiamo parte della prolusione tenuta dal cardinale patriarca di Venezia per il “Dies Academicus 2009-2010” della Pontificia Università Salesiana celebrato a Roma il 27 ottobre.
Sul sito www.angeloscola.it si può leggere il testo integrale.
Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi – a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni.
Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa.
Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato.
Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico.
Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche.
La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto.
E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso.
Infatti è proprio l’atto “il particolare momento in cui la persona si rivela”.
Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'”antropologia adeguata”.
Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”:  “Possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza.
Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica”.
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza.
Uno dei tratti propri dell'”esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni.
Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale.
Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile.
In quanto “luogo di pratica e di esperienza”, secondo la felice definizione di M.
Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”.
Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.
Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa.
Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà.
Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.
In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi.
Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica.
Domanda sempre uno scambio tra l'”io” – l’educatore che propone e si propone – e il “tu” – l’educando che viene introdotto alla realtà totale.
E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti.
Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi.
Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente “altro”  e  quindi integralmente  “li- bero”.
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa:  l’amore.
L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti.
Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini.
E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità.
San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione:  “Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(…) Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave”.
Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr.
Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito.
Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli.
Non dico:  se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo (…), predestinandoci a essere suoi figli adottivi”.
Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito.
A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica.
“L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo”.
Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte).
Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente.
Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza:  l’amore, la nascita, la morte.
È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.
In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze.
Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.
Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime – sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose – ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca.
La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso.
Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità – pensiamo al bìos, o alla “formazione dell’universo” – possiede solo un’utilità strumentale.
Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano.
Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità:  teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica).
Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall’università.
Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate.
Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione.
Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.
A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.
Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne.
Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio.
Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo:  Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente – oltre la morte stessa? Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman:  “Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(…) L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie.
Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri.
Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito”.
Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo.
Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà.
La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio.
L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare – lavoro, affetti, riposo – e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io – unità duale propria di ogni essere creato, contingente:  anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *