La Chiesa deve parlare forte intervista a Mons.
Giancarlo Maria Bregantini a cura di Ida Nucera Viviamo un tempo difficile, caratterizzato da un progressivo sfi lacciamento della morale, scalzata da narcisismo, corruzione e arroganza, in totale sprezzo del bene comune.
Anche la politica ha perduto l’anima, cioè l’etica.
I cattolici cercano con difficoltà alternative possibili.
Per il credente diventa sempre più faticoso “stare sulla stessa barca”, come più volte evidenziato dal dibattito aperto su queste stesse colonne.
Il momento sollecita un confronto franco con pastori aperti al dialogo.
Abbiamo dunque incontrato monsignor Giancarlo Maria Bregantini, trentino di Denno, dal 1994 vescovo di Locri, profondo conoscitore del Sud, con tutte le problematiche legate all’arretratezza e alla ‘ndrangheta, ma anche con le sue grandi potenzialità, per le quali si è sempre battuto affi nché potessero esprimersi in pienezza.
Dal 2007 è arcivescovo metropolita di Campobasso Bojano.
Monsignore, molti cristiani sono indignati perché ritengono la Chiesa poco profetica su temi cruciali.
Attendono una condanna chiara di certi atteggiamenti immorali, invocano parole certe su quanto lontana dal Vangelo sia la classe dirigente.
Possiamo continuare a far finta di nulla? Possiamo chiuderci in sacrestia e attendere che tutto passi? Riguardo alla situazione generale della Chiesa, oggi, mi piace rivisitare tre verbi che spesso ripeto ai preti della nostra diocesi.
Frutto di anni di fatica interiore e pastorale, di lacrime ma anche di tante speranze e di tante gioie, vissute con la gente.
Perché la Chiesa non è solo la gerarchia: è soprattutto quella parte del popolo di Dio che vive, spera e lotta tutti i giorni.
Compio ogni sforzo perché il mio cuore sia sempre più attaccato ad essa.
E la “gerarchia” stessa non è mai fi nalizzata a sé stessa, ma opera sempre per la gente, nel vissuto quotidiano e sofferto della storia, così come la disegna il Signore per noi, di pietra in pietra.
Dicevo che ho imparato tre verbi: mai vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma analizzare.
Un giorno un Provinciale di una Famiglia religiosa di consacrati mi disse, quasi scusandosi: «Ma la santità non si può imporre!».
È vero, risposi di getto, ma si deve proporre, sempre più.
La Chiesa oggi sente la sua pesantezza, ma guai se smette di proporre la santità come meta.
Se si lascia infiacchire dalla propria stanchezza.
Don Milani, con chiarezza, nel suo fiorito linguaggio fiorentino, amava dire: «Sfottere crudelmente non chi cammina in basso, ma chi mira in basso!».
Tutti siamo fragili, tutti peccatori.
Ma questo non ci deve per nulla esimere dal puntare in alto.
Anzi, proprio perché la fragilità è evidente, ancor più limpida deve essere la proposta e alta la meta.
Ecco allora la necessità di rifl ettere sul comportamento della Chiesa nel nostro tempo.
Ma siano analisi, e non giudizi.
Perché c’è una differenza grande.
E dove sta la differenza? Nel tono della voce.
In famiglia, in ufficio, in politica: tutto sta nel tono della voce.
Se esprimi un giudizio, il tuo tono sarà duro, aspro, diretto.
Se invece analizzi, vedi e individui subito ciò che non va, perché il tuo occhio è limpido, come il catino dell’acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.
Il tono della tua voce si fa testimonianza, coinvolgimento, passo sofferto e condiviso.
Anche il male lo porti con te e non te ne tiri fuori, perché non sei diverso da loro.
Occorre sfuggire al soffuso ma comodo manicheismo che talvolta avvinghia certi preti bravi o certi cristiani impegnati.
La fatica di un vescovo è la fatica del pastore, che non ritma i suoi passi sul passo delle sue forze, ma sul passo fragile delle «pecore madri, che egli conduce pian piano e porta sul petto gli agnellini» (Isaia 40,11), cercando sempre la pecorella che si è smarrita.
E se la pone sulle spalle, condividendo la gioia con i suoi amici, in una comunità dove soprattutto il lontano si fa vicino, per il sangue di Gesù sulla croce.
Quella croce che ha fatto dei due un solo popolo nuovo.
Ripeto: solo chi non mira in alto va crudelmente sfottuto.
Ed è ciò che oggi si deve fare di fronte alla perdita del bene comune, alla mancanza di etica.
Solo con la chiarezza del profeta si può dire di «no», ad esempio, a un personaggio politico locale, che pretenda di fare da padrino nella cresima di un amico.
Con amarezza ma con chiarezza, perché egli non regola la sua vita politica con coerenza.
Non sarà giudizio, ma analisi lucida, poiché hai orientato la tua vita, prima di ogni altra, secondo ideali evangelici che cerchi di vivere con coerenza.
La Chiesa oggi deve parlare di più con voce profetica.
Troppo tace, troppo lascia correre.
Su certe questioni si dimostra inflessibile, mentre su altre è acquiescente.
Ma questa difficoltà nasce dalla carenza di proposta evangelica.
Questo è il problema.
E il nostro dolore diffuso.
A quali principi dovrebbero essere improntati i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica? C’è sempre attenzione all’ultimo, al povero, alla giustizia? Noi vescovi della regione ecclesiastica Abruzzo-Molise abbiamo emesso un decalogo, evangelicamente ben inquadrato, che indica i sentieri del bene comune, con precisione e passione pastorale.
In sintesi richiama il potere al servizio orientato verso le categorie più deboli.
Vede la politica come crescita di responsabilità e democrazia, nel rispetto delle altrui posizioni e nella coerenza delle scelte.
Ribadisce il rifiuto e la denuncia di comportamenti immorali e disonesti e auspica l’impegno per favorire la cultura della legalità, la preparazione degli amministratori e una selezione della classe dirigente che premi il merito, la competenza e rifugga da simpatie, legami personali o familistici, ripicche o vendette.
Tutto questo si fonda sul Vangelo e sulla Bibbia.
Eppure, quando l’ho presentato, c’è stato chi mi ha accusato di fare politica.
Ciò accade spesso quando la Chiesa diviene chiara, profetica e incisiva.
Molti la vorrebbero invece muta e silenziosa, quasi complice di uno stile di vita che favorisce i ricchi e penalizza i poveri.
Ma che direbbe quel Gesù che afferma che ogni cosa fatta al più piccolo dei fratelli è fatta a lui stesso? Che rimprovera Erode per essere come una volpe? Che paga le tasse? Che contesta, con il suo silenzio, anche Pilato? È sempre lui la misura.
Oggi uno dei punti più dolenti è il respingimento degli stranieri, condannati a sevizie certe nei lager della Libia.
Molte persone, laici e cattolici impegnati nell’apostolato sociale, si sono dichiarate pronti alla disobbedienza civile di fronte a leggi che permettono tutto ciò.
Ritiene sia una scelta coerente con il Vangelo? Il respingimento degli stranieri è un peccato grave.
È uno dei più tristi segni della nostra acquiescente debolezza come cristiani.
E dico grazie alle voci ecclesiastiche (non molte, per la verità) che li hanno condannati con chiarezza.
Memori di un Gesù che disse: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).
È triste sentire certi politici che, ogni volta che la Chiesa dice la sua, la deridono con sciocchi pretesti.
Credo che chi matura forme di disobbedienza civile non faccia altro che seguire gli esempi dei grandi santi.
Come Tommaso Moro, patrono dei politici, che morendo, sul palco della sua decapitazione, affermò con luminosa chiarezza evangelica: «Ho sempre servito Dio e il re.
Ma ho servito Dio prima del re».
La testimonianza riguarda non solo il clero, ma anche il laicato cattolico.
La fedeltà a una scelta costa la fatica di una strada in salita, soprattutto in alcuni luoghi che lei ben conosce, e può presentare un conto salato se si disturbano i potenti e i prepotenti… La testimonianza è indispensabile.
Nasce da un modo di leggere la Parola e la storia.
Fedeli a Dio e alla gente.
Ai laici, chiedo un forte amore per la propria terra, dettato da un cuore materno.
È infatti soprattutto con un cuore femminile, anche nella vita consacrata, che si coltiva questo amore.
Solo così la terra diviene un giardino.
La devi amare, curare, e servire, con rispetto e dedizione, fino in fondo.
In fedeltà da sposo e non da amante.
«I piccoli “sì” preparano il cuore ai grandi “sì” cioè al bene; come i piccoli “no” al male allenano ai grandi “no” al male», diceva san Tommaso Moro.
È fondamentale la coerenza nelle piccole cose, la chiarezza interiore coltivata giorno per giorno, che fa leggere la vita con occhi trasparenti.
Altro elemento importante nella testimonianza è la gratuità.
Siamo amati gratuitamente da un Padre che ci dona il suo sole; e lo dona sia a chi è giusto sia agli ingiusti.
Lo stile gratuito rovescia il concetto meritocratico che diventa, sottilmente, la più falsa giustifi cazione della scala sociale iniqua.
Solo nella gratuità si diviene fratelli.
L’allontanamento di tanti dalla pratica religiosa, tra cui la confessione, dipende da molte cause.
Lei ha detto che la testimonianza è la prima forma di identità.
Testimoniare Cristo morto e risorto è come spandere un profumo, ma, a volte, questo si è come dissolto e non attrae più… La testimonianza resta il vero profumo, che la Chiesa nel giovedì santo immette nell’olio del Crisma, segno stesso del Cristo.
Crisma, Cristo, cristiano: stessa radice, stesso itinerario di speranza e di coerenza.
Ma qui tutti sentiamo di essere fragili.
Abbiamo bisogno di mete alte, di testimoni credibili.
E qui si gioca la fatica educativa con i nostri ragazzi, che restano il banco di prova della nostra coerenza.
Perché sono i primi ad accorgersi se in noi, preti o educatori, c’è realmente quel profumo di santità e di bellezza.
È dunque necessario che questa testimonianza sia resa ben visibile, con gesti credibili e alternativi.
Perché la Chiesa non deve essere né succube a questo sistema di potere né anarchica, ma alternativa.
Deve cioè avanzare proposte alte, con passo più avanzato, con presenze forti presso chi è escluso o è vittima della crisi che ci travolge.
Ma questa via alternativa non è praticabile, se non attuiamo prima una serie di strumenti di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due: un gruppo biblico in ogni parrocchia e un circolo culturale in ogni quartiere.
Occorre costruire una fede che sa leggere dentro i fatti, che si avvalga del discernimento maturo dei laici e parroci che usano la Parola come luce che illumina i nostri passi.
Da soli non si può essere profeti.
E se è vero (come dicevo ai ragazzi della Locride) che tu solo puoi farcela, devi ricordarti però che non puoi farcela da solo.
Sempre più spesso al Sud il territorio diventa discarica di veleni, che incrementano l’incidenza tra la popolazione locale di alcuni tumori e alterazioni genetiche.
È possibile fermare questo obbrobrio? Su questo punto si gioca la verifica del nuovo rapporto con la terragiardino.
Ai ragazzi traduco così questo concetto: senza il cielo, la terra si fa fango; con il cielo, diviene giardino.
Come dicevo prima, tocca a noi far amare questa terra in forza della bellezza del cielo.
«Novissima considera, ut videas bona», dicevano i medioevali, cioè guarda lontano, per poter vedere bene qui, già da ora.
Questo è il compito attuale della Chiesa: additare questo cielo, che brilla già dentro di noi; farlo rilucere, intessendolo d’amore, in un intreccio sereno tra intelligenza e cuore.
Allora il Signore ci porrà alla sua destra, perché quel cielo ci avrà portato a servire con umiltà e gratuità i piccoli, i poveri, i soli, i disoccupati, gli stranieri, in un profumo di testimonianza luminosa e coinvolgente.
in “il nostro tempo” del 2 agosto 2009
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