Il cielo tra fisica e metafisica

“Una volta mi ero trovato in un monastero in cui si pregava per una badessa ormai agli estremi.
Un giorno fu esposto un annuncio che diceva:  “Ci si deve attendere il peggio”.
Il peggio, sembrava dire, sarebbe stato che ella andasse in cielo”.
Con questo aneddoto segnato da un’ironia bonaria ma non per questo meno pungente, il benedettino Jean Leclercq, importante studioso di san Bernardo e della letteratura cristiana medievale, evocava un simbolo tanto esaltato da tutte le civiltà ma anche un po’ esorcizzato proprio per la sua “trascendenza” rispetto all’orizzonte terreno ove abbiamo ben piantati piedi e radici.
In modo analogo il celebre asserto finale della Critica della ragion pratica kantiana – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma:  il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” – è nei nostri giorni gaudenti decisamente accantonato.
Il cielo, infatti, è nascosto spesso da una coltre di smog e la legge morale è subito tacitata dalla sguaiatezza e dalla superficialità.
Eppure da quando l’uomo ha conquistato la stazione eretta e ha levato il capo verso l’alto, il cielo ha continuato ad attirare.
Ricordo una bella ballata di uno scrittore a me molto caro per amicizia, Luigi Santucci:  in essa una tartaruga ribaltata dal calcio di un passante, dopo il primo smarrimento, si lasciava conquistare dalla nuova contemplazione degli spazi celesti che prima le era vietata.
Nel suo Diario Anna Frank scriveva:  “Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai a essere felice”.
E a lei faceva eco Etty Hillesum quando nel suo intenso diario composto nel lager di Auschwitz annotava al 14 luglio 1942:  “Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera”.
Nell’immensità cosmica celeste, però, da secoli puntano il loro sguardo anche gli strumenti delle rilevazioni astrofisiche e non solo l’occhio vivido del poeta o del credente.
E anche la visione scientifica non è priva di fremiti e di emozioni, al punto tale che in passato s’intrecciavano – persino nello stesso Galileo – senza imbarazzi astronomia e astrologia.
Lo stesso scienziato moderno, configgendo i suoi telescopi più sofisticati in quelle distese sterminate, non di rado adotta categorie, linguaggi, schemi interpretativi di matrice simbolica per formulare le sue teorie.
Per questo la mostra “Astrum 2009”, collocata nell’Anno internazionale dell’astronomia e nel quarto centenario dell’invenzione del telescopio, si presenta attraverso una serie di strumenti e di testi non riducibili a meri mezzi di ricerca attorno a quelle che sono ancor oggi classificate come “meccaniche celesti”, ma capaci anche di evocare quell’infinito che ci avvolge e ci sconvolge, ci attira e ci impaura.
Noi che non siamo scienziati, percorrendo l’affascinante itinerario espositivo della mostra, siamo invitati a non perdere mai questa straordinaria dualità che è in noi.
Certo, siamo uomini che rilevano i “fenomeni”, la “scena” come si è soliti dire oggi, ma al tempo stesso non esitiamo a investigare anche sul “fondamento” della realtà.
Fisica e metafisica, certo, corrono su livelli diversi:  sono i due famosi non-overlapping-magisteria, cioè i due percorsi conoscitivi non sovrapponibili della scienza e della filosofia o teologia o poesia, come diceva lo scienziato americano Stephen Gould.
Eppure questi due percorsi non si respingono, anzi, nella nostra conoscenza si guardano, dialogano e si ascoltano reciprocamente.
Il cielo, così, è il “continente universale, lo spacio immenso, l’eterea regione per la quale tutto discorre e si muove”, come scriveva Giordano Bruno in uno dei suoi Dialoghi italiani, quello “de l’infinito universo e mondi”, ma è anche la suprema metafora della trascendenza, dell’oltre e dell’altro rispetto al qui e al noi immanente.  La stessa Bibbia rivela questa duplicità.
Innanzitutto, infatti, essa ci offre una precisa cosmologia, ovviamente modellata sulla scienza arcaica, fiorita in Mesopotamia, in Egitto e in Persia, e non priva di una sua analisi sofisticata.
Il cielo, così, è tratteggiato come una gigantesca cupola luminosa detta in ebraico raqia’, cioè firmamento, sostenuta da colonne cosmiche le cui fondazioni penetrano, oltre la superficie terrestre orizzontale, nell’abisso caotico e infernale, antipodo del cielo.
Una cupola sopra la quale freme l’oceano celeste, il cui flusso d’acqua, regolato da grandi serrande, può disseminare sulla terra la pioggia benefica o il diluvio devastatore.
È per questo che appare, fin dalla prima, famosa pagina biblica della creazione del cielo e della terra (capitolo 1 della Genesi), la distinzione tra le “acque superiori” celesti e quelle “inferiori” dello sterminato bacino del mare.
Dal colossale serbatoio celeste scendono, dunque, acqua, grandine, brina, neve, venti, nubi e tempeste:  “Dal Signore degli eserciti sarai visitata – canta Isaia (29, 6) – con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamme di fuoco divoratore”.
Il mirabile Salmo dei sette tuoni, il 29, è tutto scandito dal risuonare della parola onomatopeica ebraica qôl che significa sia “tuono” sia “voce” (divina).
Le immagini per raffigurare la cupola celeste si moltiplicheranno:  essa è simile a un rotolo dispiegato, dice Isaia (34, 4), che ricorre anche all’idea di un velo o di una tenda da beduini distesa dal Creatore con un gesto possente (40, 22); è una specie di basamento per un palazzo reale divino dal quale – è lo stesso testo isaiano ad affermarlo in modo pittoresco – Dio “siede e di lassù gli abitanti del mondo sembrano cavallette”.
Sulla maestosa volta del cielo sono appesi “i grandi luminari”, cioè il Sole e la Luna, veri e propri orologi cosmici e liturgici per le stagioni, per il calendario delle feste e per il ritmo circadiano; su quella volta sono fissate le stelle e le costellazioni – l’Orsa, Orione e le Pleiadi sono citate ad esempio in Giobbe 9, 9 – e i pianeti, Venere, “Lucifero”, è evocato da Isaia (14, 12), mentre Saturno, “Chiion”, da Amos (5, 26).
È significativo osservare che, mentre nell’antico Vicino Oriente il Sole, la Luna e gli astri sono divinità, per la Bibbia essi sono “laicamente” semplici creature comandate dal Creatore nel loro lavoro e nelle loro orbite:  “Sorge il Sole, tramonta il Sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà” (Qohelet, 1, 5); Dio “ha assegnato al Sole una tenda:  esce come uno sposo dalla stanza nuziale, si esalta come un eroe che corre sulla sua strada; sorge da un estremo del cielo, la sua orbita raggiunge l’altro estremo:  al suo calore non v’è riparo!” (Salmi, 19, 5-7).
Tuttavia non c’è soluzione di continuità quando si passa dalla rilevazione sperimentale “scientifica” alla celebrazione del valore simbolico che astri e spazi cosmici contengono.
Scegliamo solo un paio di esempi, desunti dal Salterio.
Pensiamo al salmo 19 che introduce una sorprendente “narrazione” che il cielo personificato e il ritmo temporale ci rivolgono, senza ricorrere a parole; eppure si tratta di una voce potente e planetaria.
Ecco il canto del salmista:  “I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette la notizia, senza linguaggio e senza parole, senza che si oda la loro voce.
Eppure per tutta la Terra si espande il loro annunzio, sino ai confini del mondo va il loro messaggio” (vv.
2-5).
“Dio ha dato un tal linguaggio alla sua creazione che, parlando di se stessa, essa non può non parlare di Lui, Dio”, commentava Karl Barth.  La lezione teologica del cielo può essere altre volte inquietante ed esaltante al tempo stesso.
È il caso di quel gioiello assoluto che è il salmo 8.
Nel “silenzio eterno degli spazi infiniti”, quella “canna pensante” che è l’uomo – per usare la famosa espressione di Pascal – è solo un granello microscopico.
Ancor più insignificante è la sua entità di fronte a un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti.
Eppure è proprio questo Dio che si china sull’uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell’orizzonte cosmico.
Ascoltiamo il corpus centrale dell’inno nella versione poetica di David Maria Turoldo:  “Quando il cielo contemplo e la Luna / e le stelle che accendi nell’alto, / io mi chiedo davanti al creato:  / cosa è l’uomo perché lo ricordi? / Cosa è mai questo figlio dell’uomo / che tu abbia di lui tale cura? / Inferiore di poco a un dio, / coronato di forza e di gloria! / Tu l’hai posto Signore al creato, / a lui tutte le cose affidasti:  / ogni specie di greggi e d’armenti, / e animali e fiere dei campi, / le creature dell’aria e del mare/ e i viventi di tutte le acque” (vv.
4-9).
L’intreccio tra meteorologia e simbologia teologica è adottato in modo folgorante anche da Gesù quando protesta perché i suoi interlocutori sanno usare il cielo solo come campo di previsioni climatiche, pur legittime, e non lo considerano anche come segno di intuizioni epocali trascendenti:  “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite:  “Viene la pioggia”, e così accade.
E quando soffia lo scirocco, dite:  “Farà caldo”, e così accade.
Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Luca, 12, 54-56).
È forse un po’ anche per questo che spesso spiritualità cristiana e scienza si sono abbracciate, a partire da personaggi come Isidoro, vescovo di Siviglia (VI-VII secolo), che nei suoi Etymologiarum sive originum libri xx distingueva tra astronomia e astrologia, ma intrecciava filologia e allegoria.
O come il teologo raffinato Beda il Venerabile (VIII secolo) che era già allora convinto della sfericità della Terra (“come una palla da gioco”), che tentava di calcolare l’età del nostro pianeta rispetto al cosmo e che si cimentava nella cronologia (De temporum ratione).
L’elenco potrebbe continuare a lungo seguendo un qualsiasi manuale di storia dell’astronomia:  il monaco benedettino Abelardo di Bath (XII secolo), traduttore di testi scientifici arabo-indiani, l’arcidiacono catanese Enrico Aristippo (XII secolo), divulgatore dell’Almagesto di Tolomeo, per non parlare dei grandi Cusano, Copernico, Clavius, anch’essi religiosi.
Curiosa è la passione astronomica di alcuni Papi, a partire dal celebre Silvestro ii (Gerberto d’Aurillac), costruttore di astrolabi e sfere armillari e scienziato poliedrico, passando attraverso Gregorio XIII, l’artefice dell’omonimo calendario, per giungere a Pio x che sapeva approntare orologi solari, senza dimenticare la gloriosa Specola Vaticana, fondata nel 1789, esaltata dalle ricerche astrofisiche del gesuita Angelo Secchi, il primo classificatore delle stelle sulla base dei loro spettri.
Questa istituzione è all’origine della citata mostra “Astrum 2009” che si inaugura giovedì nei Musei Vaticani.
Le stelle, quindi, s’accendono non solo per consegnare la loro luce agli astronomi ma anche per far brillare gli occhi dell’anima, nella fede e nella poesia, tant’è vero che nell’Apocalisse Cristo non esita a presentarsi come “la stella radiosa dell’alba” (22, 16).
C’è il rischio, però, che il clamore, l’eccitazione e la distrazione ci impediscano di contemplare il cielo sia come realtà sia come simbolo.
Diceva il filosofo cinese Han Fei (III secolo prima dell’era cristiana):  “Nell’acqua di uno stagno si specchia il cielo.
Ma se vi getti un sasso, l’immagine si romperà in cerchi concentrici e il cielo sparirà”.
(©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *