“In-finitum”

Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)

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