1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).
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