“Prima che i popoli dimentichino i crimini, i massacri, le rovine, la desolazione, chi è chiamato a stabilire il nuovo edificio sociale bene si accerti che la metafisica razzista non fu che odio, menzogna, avidità.
Soggiacendo a essa, intere collettività caddero nell’errore e nel peccato”.
Per questo, e altri motivi, sosteneva Adriano Olivetti (Ivrea, 1901- Aigle, 1960) in uno scritto del 1946, “la libertà vive soltanto in una società compiutamente cristiana”.
Lo scritto – con altri testi – figura in appendice alla biografia, oggi rinnovata e ampliata da Valerio Ochetto, che anni fa ne curò una prima versione: Adriano Olivetti, (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 356, euro 12) dedicata all’imprenditore eporediese.
Era figlio del più noto Camillo (1868-1943), il fondatore dello storico gruppo industriale che partendo dalla produzione di macchine da scrivere sarebbe giunto a posizioni di assoluta preminenza internazionale nel settore informatico e nell’automazione da ufficio.
Imprenditore, intellettuale, politico, ma soprattutto uomo pratico e di pensiero a un tempo, Adriano Olivetti era dotato d’inventiva fervida e di passione per la giustizia, qualità cementate da un profondo spirito di servizio alla persona e al bene comune.
Nel 1946 egli stava fissando i punti preparatori alla realizzazione del nascituro Movimento Comunità, la sua personale repubblica di Utopia, basata sull’ideale di un’armonia possibile, e comunque sempre da perseguire, tra impresa, territorio e società umana.
Di fatto, nel 1945, aveva scritto L’ordine politico delle Comunità: la base teorica per una concezione federalista di Stato ove per l’appunto le comunità – entità territoriali culturalmente ben definite e in grado di esprimersi autonomamente sul piano economico – garantissero un armonico sviluppo sociale nell’industria come nell’agricoltura, salvaguardando i diritti umani e promuovendo forme di democrazia partecipativa.
La guerra era appena finita e Olivetti, che da antifascista militante aveva vissuto e sofferto in prima persona per la tragedia e per la rovina dell’Italia, avvertiva i rischi di una ricostruzione limitata alla sola dimensione superficiale e materiale.
Dopo un primo periodo d’interesse per le istanze mussoliniane si era opposto con forza al regime, talvolta in termini molto concreti come quando aveva partecipato con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini alla liberazione di Filippo Turati.
Durante il conflitto era stato ricercato per attività sovversiva e si era dovuto rifugiare in Svizzera.
Ora che le armi tacevano si faceva la conta dei danni; non solo quelli materiali.
La devastazione bellica infatti era penetrata nelle fibre del tessuto sociale e non aveva risparmiato le coscienze.
Solo uno spirito autenticamente cristiano, “che è amore, verità, carità”, avrebbe potuto – nei vinti come nei vincitori – essere, un domani, forza animatrice di una civiltà più umana.
Nella visione di Olivetti “la società della Comunità, essenzialmente cristiana, per affermarsi compiutamente” avrebbe quindi dovuto apportare “una frattura definitiva al sistema basato su un duplice assurdo economico e morale: l’economia dei profitti e il regime feudale nell’industria e nell’agricoltura.
(La rivoluzione Francese – diceva Olivetti – proclamò l’uguaglianza, la fraternità, la libertà.
Ma essendole sfuggita quella trasformazione sociale che le imponeva la proclamata fratellanza, non seppe condurre né a vera libertà, né a vera a eguaglianza)”.
E quindi l’imprenditore d’Ivrea sottolineava con lungimiranza come “nemmeno la trasformazione sociale da sola potrebbe creare la libertà se all’egoismo dei pochi si sostituisse l’egoismo dei molti e se la struttura creata per eliminare la dominazione dell’uomo sull’uomo portasse a una dominazione dello Stato sulla persona” (p.
324).
Il primato della morale in economia come in politica doveva essere un punto fermo.
La democrazia basata esclusivamente sulla maggioranza e sul consenso dei molti qualora parta da presupposti egoistici, e vada covando interessi di parte, non può che produrre oppressione e ingiustizia.
La stessa Europa, per Olivetti, non avrebbe potuto accettare una comune legge morale diversa da quella cristiana dichiarandosi certo che “gli uomini politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell’Evangelo, sono destinati ad avere in se stessi dei valori inesauribili e insostituibili” (p.
325).
In realtà l’idea di Comunità in Olivetti aveva radici antiche, ma si era evoluta e precisata proprio negli anni della dittatura e della guerra.
Nato in un contesto familiare dai caratteri culturali ben definiti, con il padre Camillo, ebreo, e socialista, e la madre Luisa Revel, valdese, Adriano Olivetti si era laureato nel 1924 in ingegneria chimica.
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti dove aveva studiato pratica aziendale, entrò nella fabbrica familiare.
Prima come semplice operaio, per volontà del padre Camillo (1926); quindi nel 1933 divenne direttore della Società Olivetti e infine presidente, nel 1938.
L’esperienza del Movimento di Comunità nel canavese ebbe concreto inizio a partire dal 1952, quando gradualmente gli amministratori comunitari assunsero la guida di cinque comuni.
Poi, nelle elezioni del 1956, il Movimento Comunità risultò presente in settanta comuni canavesani, in quarantadue dei quali in posizione di maggioranza.
Tre componenti essenzialmente informavano questa realtà: il pensiero socialista e libertario, l’ideale cristiano e la visione personalistica di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
L’esperienza di Comunità, com’è noto, sopravvisse di pochi anni al suo fondatore.
Detto questo resta il complesso profilo di un uomo la cui storia – come scrive Ochetto – coincide con quella di discipline e di prospettive culturali che oggi in Italia sono esperienza comune, ma all’indomani della seconda guerra mondiale apparivano stramberie – o “americanate”, come le chiamava Benedetto Croce.
“Stramberie” che Olivetti “lottò per introdurre: la sociologia contemporanea, il management, l’urbanistica, la pianificazione territoriale” (p.
9).
Un dato non va sottovalutato e riguarda la dimensione interiore dell’uomo.
“Nel 1949 – ricorda Ochetto – Adriano si fa battezzare nella Chiesa cattolica”.
Olivetti si sarebbe poi sposato in seconde nozze, avendo ottenuto lo scioglimento da una prima unione matrimoniale contratta col solo rito civile.
Si potrebbe pensare quindi che dietro a questa scelta vi fosse un motivo strumentale: la possibilità di risposarsi, questa volta in chiesa, con la moglie credente.
In realtà la conversione era determinata dalla convinzione maturata della “superiorità teologica della Chiesa cattolica”.
La scelta di Adriano Olivetti veniva da lontano, come ebbe a dire un giorno a un conoscente: “Dopo la morte di mia Madre venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva dall’entrare nella Chiesa che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l’unica universale e quindi eterna: la Chiesa Cattolica” (p.
240).
(©L’Osservatore Romano – 24 settembre 2009)
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