Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presidente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale.
Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Senato nel marzo e nell’aprile del 1861.
Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Roma e a interpellare direttamente Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza.
Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».
Come scrive Roberto Pertici in un libro edito dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia.
Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità.
Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica.
Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà.
Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto.
Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour.
Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui sono riprodotti i dibattiti parlamentari (da quello sulla ratifica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisione del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di alcuni grandi predecessori dell’autore, da Francesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Carlo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani.
Torniamo all’Italia del dopo Cavour.
La legge delle guarentigie, approvata dal Parlamento italiano dopo la presa di Roma, ebbe il merito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni.
Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovrano senza territorio.
Il papa sarebbe stato trattato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambasciatori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palazzi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia.
La Grande guerra, come ricorda Pertici, convinse la Chiesa che la formula era terribilmente scomoda, se non addirittura pericolosa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la persuase che era inutile attendere la morte naturale del regno blasfemo dei Savoia.
Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi.
Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato conquistò prerogative e privilegi che erano l’esatto opposto del grande disegno delineato da Cavour.
La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Provvidenza ».
Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Lateranensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine del regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione.
Rinvio il lettore alle pagine del libro in cui Pertici descrive un incontro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsignor Mariano Rampolla, nipote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comunisti (Ambrogio Donini ed Emilio Sereni).
Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di apprendere che il Pci non aveva alcuna intenzione di rimettere in discussione il Trattato del 1929.
Ma apprese anche con preoccupazione «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario».
La linea della Chiesa da quel momento fu netta.
Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa costruzione e la sorte dell’uno avrebbe inevitabilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt .
Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana.
Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percorso parlamentare nella seconda metà degli anni Sessanta.
La Santa Sede sostenne che il divorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato.
Aveva ragione giuridicamente ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allora presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mussolini e salvate grazie a un accordo con i comunisti, politicamente perché «tutte le nazioni civili hanno il divorzio».
L’approvazione della legge e la sua conferma dopo il referendum del maggio 1974 ebbero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era ormai inevitabile.
Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni.
Pertici ne descrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti.
Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’offerta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il principio del pluralismo religioso.
Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rapporti di forza tra coloro che lo hanno firmato.
Oggi la Chiesa si serve della debolezza della politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle linee della propria politica.
Questa affermazione, beninteso, è mia, non di Pertici, che è in “Corriere della Sera” del 18 settembre 2009
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