XXIX Domenica del tempo ordinario (anno B).

Comunità alternativa «La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa.
Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, espri-ma la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazio-ne e dal perdono reciproco».
(Card.
C.M.
Martini) Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date Ti offro, Signore, il mio servizio lo affronto serenamente con il Tuo aiuto, per la Tua gloria, come collaborazione all’opera creatrice del Padre per il benessere di tutti.
Cristo, insegnami a pensare al mio servizio, non soltanto come una fatica, ma come occasione per servire amando il mio prossimo e così incontrare Te, che mi hai redento e vegli su di me.
Spirito Santo, aiutami a rendere l’ambiente del servizio più umano e cristiano perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.
(Card.
Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vi-vere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero suc-cesso, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti ca-pita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraf-fatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande de-gli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un es-sere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a co-noscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisio-ni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il ser-vizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Non sapevano che cosa chiedevano Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo prega-rono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signo-re e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere.
Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprat-tutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo.
Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Si-mone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr.
Mc 3,16-17), perché avevano u-dito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul Signore (cfr.
Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli altri discepoli e, cosa più essenziale, sentiva-no di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto.
Perciò crede-vano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto per-ché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr.
Gv 13,23).
[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse sce-gliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vi-ta futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande.
Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11).
Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere.
Ma il maestro celeste, in-dicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa.
Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38).
[…] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo inse-gna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp.
336-338).
Preghiera Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quel-lo che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte e-terna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.
Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti!  Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 53,10-11 Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la vo-lontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la lu-ce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Il presente brano dell’A.T.
è stato scelto come prima lettura in considerazione del Van-gelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a diffe-renza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente.
Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddet-to Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.).
Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.
Il v.
2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui dilet-to».
In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.
—Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v.
3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.
— I vv.
10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due di-mensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v.
110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri.
I due versi costituiscono un prezioso commento o spiega-zione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non ab-biamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza.
Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti.
Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3).
Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espia-zione (yom hakippourim).
La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il som-mo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veni-va accordato a tutto il popolo.
Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v.
14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione.
Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla so-stanza di quello che decidiamo di credere.
— «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze…» (v.
15).
A questo punto la Lett.
agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fon-damentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi.
Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.
— «Accostiamoci…al trono della grazia» (v.
16).
Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf.
Rm 3,25: «hilasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presen-te come re assiso sul trono.
La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia.
Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.
Vangelo: Marco 10,35-45 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Gio-vanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?».
Gli rispo-sero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete.
Pote-te bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel bat-tesimo in cui io sono battezzato?».
Gli risposero: «Lo pos-siamo».
E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.
Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.
Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i go-vernanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.
Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.
Anche il Figlio del-l’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per ser-vire e dare la propria vita in riscatto per molti».] Esegesi Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno.
Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv.
35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, asso-ciando ad essa la sorte dei suoi discepoli.
«Nella tua gloria» (v.
37).
Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme.
Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re).
Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.
— Il calice, il battesimo (v.
38).
In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf.
Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36).
Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle on-de della sofferenza (cf.
Le 12,50).
Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferen-za.
— «Per coloro per i quali è stato preparato» (v.
40).
Alla risposta affermativa dei due disce-poli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita inizia-tiva del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla so-vrana volontà di Dio.
— «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v.
45).
Gesù prende spunto dalla «indigna-zione» umana degli altri discepoli (v.
41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale.
Egli contesta radicalmente il modello di auto-rità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo.
Queste due immagini, però, non sono generiche.
Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini.
Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo.
Accet-tando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del pec-cato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.
Meditazione Tra le resistenze che il discepolo incontra nel suo cammino di sequela del Signore Gesù, una in particolare emerge con forza nei capitoli centrali del racconto di Marco: è la resi-stenza alla logica della diakonia, logica che anima in profondità la via di Gesù e attraverso la quale il Figlio rivela la sua obbedienza al Padre e il suo amore senza limiti per gli uomi-ni.
Per ben due volte Gesù deve ritornare sul tema del servizio per educare i discepoli ri-luttanti a questa prospettiva e affascinati maggiormente dalla ricerca e dalla conquista di un primo posto da cui poter emergere e dominare sugli altri (cfr.
Mc 9,33.35 e 10,42-45).
E questo intervento di Gesù sul servizio, che mira a correggere la tentazione in cui i discepoli si lasciano facilmente coinvolgere avviene significativamente dopo il secondo e il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione (cfr.
Mc 9,30-32 e 10 32-34); il discepolo fati-ca ad accogliere questa parola dura, fatica ad andare al di là di un paradosso che tuttavia apre lo sguardo sul mistero del dono del Figlio dell’uomo, sul mistero di Colui che «non e venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
In fondo il discepolo rimane estraneo alla stessa Scrittura che già aveva tratteggiato il volto di questo umile Servo che attraversa l’esperienza della sofferenza e del disprezzo per apri-re agli uomini il cammino della vita.
Questo «uomo dei dolori», come dice il Deutero-Isaia (prima lettura), la cui esistenza assurda e segnata dalla sofferenza sembra una contraddi-zione di una umanità amata da Dio è in realtà il cammino che Dio stesso sceglie per rivela-re tutta la sua solidarietà con l’uomo; anzi attraverso questa umiliante via crucis questo mi-sterioso servo, in cui «si compie la volontà del Signore», diventa offerta «in sacrificio di ri-parazione».
Ecco perché il Deutero-Isaia, con quello sguardo profetico che va al di là di una drammatica vicenda di dolore, può annunciare: «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza…
il giusto mio servo giustificherà molti, egli si ad-dosserà le loro iniquità» (Is 53,11).
Non è forse questo il cammino che Gesù prospetta ai di-scepoli nel secondo annuncio della passione? Ma il cuore del discepolo è altrove; non può accogliere questa parola, chiuso nella sua incomprensione e nella sua paura.
Ecco perché Marco nota: «Camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti» (10,32).
Proprio in questo contesto di ‘lontananza’ tra Gesù e i discepoli, che pur stanno cammi-nando con lui, si colloca la sorprendente domanda dei figli di Zebedeo.
Essa rivela quale è la logica che stanno inseguendo questi due discepoli: essi vogliono (è la pretesa del potere) che Gesù favorisca la loro sete di carriera: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (10,37).
Dunque, con una disinvoltura che irrita gli altri dieci discepoli, Giacomo e Giovanni domandano di avere i primi posti, di essere i primi ministri nel regno istaurato dal Messia glorioso.
Nella loro richiesta emerge ancora una volta il rifiuto alla sequela della croce: vi è la paura di guardare in faccia quella realtà u-manamente scandalosa e incomprensibile che segna il passaggio attraverso cui Gesù rea-lizza il dono della sua vita.
E proprio su questo passaggio Gesù insiste nella sua risposta ai discepoli: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete e nel battesimo in cui io sono battezza-to anche voi sarete battezzati…» (10,39).
Prendere parte alla gloria di questo Messia umilia-to è possibile solo condividendo come lui l’esperienza della pasqua, rimanendo come lui solidale all’uomo peccatore nell’obbedienza al Padre che ha scelto questa via per rivelare la sua misericordia e per liberare l’uomo dalla morte.
E con forza, le due immagini del calice che deve essere bevuto (immagine che ritorna al Getsèmani: cfr.
Mc 14,36) e delle acque in cui è necessario immergersi esprimono sia il cammino di umiliazione e di morte che Gesù sta percorrendo, sia la piena condivisione della realtà umana che il Figlio di Dio si assume totalmente in comunione con il volere del Padre.
Questa è la tensione che anima la via di Gesù e questo è ciò che deve importare al discepolo, scelto «per stare con lui» (Mc 3,15).
Tutto il resto è libera azione del Padre: sarà lui a scegliere chi far sedere alla destra e alla sinistra di questo Messia umanamente poco glorioso: «Con lui crocefissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra» (15,27).
Ciò che Gesù dice ai figli di Zebedeo, si trasforma in una parola rivolta a tutta la comu-nità.
In fondo, la tentazione di questi due discepoli è la tentazione di tutta la comunità dei discepoli.
La logica del potere (espressa da questa smaccata richiesta) fa scattare una ten-sione tra gli altri, i quali «avendo sentito, cominciarono ad indignarsi» (10,41); una indi-gnazione che, purtroppo, maschera lo stesso desiderio di un primo posto.
Nella comunità dei discepoli (la Chiesa) c’è il rischio che si instauri la stessa logica di dominio che caratte-rizza le relazioni in prospettiva ‘mondana’ (siano esse politiche, economiche, sociali e an-che religiose).
La comunità dei discepoli non ha altre vie da seguire se non quella di Gesù.
E qui Gesù ripropone nuovamente il suo cammino e il suo esser in mezzo ai discepoli at-traverso l’icona del servo: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servi-re e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
La comunità dei discepoli si trova sempre di fronte a queste due possibilità: o seguire la logica del mondo o seguire con umil-tà il cammino della diakonia, il cammino del dono di sé, la via di Gesù (quel Messia che po-co dopo entrerà in Gerusalemme a dorso di un puledro d’asina: cfr.
Mc 11,1-10).
La prima strada è chiara («voi sapete…»): è quella percorsa da chi domina, da chi esercita un potere, illudendosi di avere così l’autorità e il diritto di farsi chiamare capo.
Ma è una via di op-pressione e non di reale dono e servizio, poiché non libera, non fa maturare e crescere l’al-tro (non è una reale auctoritas).
Il cammino di Gesù permette di realizzare autenticamente il desiderio che il discepolo, e ogni uomo custodisce nel cuore: ‘esser grande’ cioè realizza-re pienamente la propria umanità.
La via che Gesù propone è l’anti-potere per eccellenza: «Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (10,44).
Colui che è senza ruolo e senza prestigio, lo schiavo, colui che ha il coraggio di mettersi ai piedi dei fratelli e di di-minuire perché l’altro possa crescere, colui che veramente serve i fratelli donando sé stesso e la sua vita, questi è veramente grande, è il primo, esercita una reale autorità.
E in questa prospettiva l’autorità nella comunità dei discepoli diventa luogo di rivelazione in cui deve trasparire maggiormente la logica della Croce e solo in questa logica l’autorità trova giusti-ficazione.
La parola di Gesù non può essere ridotta ad un vaga esortazione all’umiltà; essa è, di fatto, criterio di discernimento per lo stile di ogni comunità cristiana, della Chiesa di ogni tempo.
Relazioni tra discepoli, strutture e ministeri, stili di vita e di annuncio, tutto nella comunità deve confrontarsi con questa parola.
Perché Gesù lo dice chiaramente: «Tra voi non è così…» (10,43).
Tra i discepoli non ci può essere spazio per la logica del potere; la vita di una comunità cristiana deve essere l’alternativa vivificante a questo cammino di morte a cui conduce la sete del potere, il luogo in cui al centro c’è la vita e la persona di Gesù (è la misteriosa forza dei due sacramenti che fanno la Chiesa, il battesimo e l’eucaristia), il luogo in cui si rivela il dono che conduce alla salvezza.
Questo è il cuore della sequela che ogni discepolo deve vivere e, in primo luogo, colui che tra i fratelli è chiamato ad esser servo della comunione.

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