Le più belle vacanze del cinefilo

Tempo di vacanze, finalmente.
Tempo di mare e di giornate all’aria aperta.
Ma, anziché continuare a godere egoisticamente di cotanto idillio, immaginiamo, per qualche minuto, di trovarci nei panni dell’unico personaggio che al contrario non può che risentire, alla lunga, d’una tale riconciliazione bucolica – il cinefilo incallito – e di seguirlo nel filo un po’ frustrato dei suoi pensieri.
Sono il cinefilo modello.
L’astinenza da quel minimo di tecnologia che mi consente di dedicarmi alla mia passione, mi spinge ad arrovellarmi – anche qui, sotto l’ombrellone – attorno a un crogiolo di titoli e di nomi famosi.
Finché non mi passa per la testa che, per assomigliare un pochino di più agli altri villeggianti, ed evitare quindi di destare in loro preoccupazione, potrei trasformare il mio rovello in un passatempo.
Sì, insomma, in una specie di sudoku del grande schermo.
Scopo del mio giochino sarà allora trovare dieci film che parlano di vacanze.
Non è così facile come sembra, soprattutto se decido di prendere in considerazione soltanto grandi film.
Niente “cine-ombrelloni”, insomma, come li chiamano adesso.
Eh sì, perché se non si contano nemmeno i film che parlano di viaggi – soprattutto nell’ambito del cinema americano, essendo il concetto stesso di viaggio una fondamentale matrice storica e culturale degli Stati Uniti – non è così scontato trovare film importanti che abbiano come tema centrale proprio le vacanze.
L’unica regola sarà la semplice associazione di idee.
Il primo film che mi viene in mente, quindi, non può che contenere le vacanze già nel titolo:  più che Roman Holiday (“Vacanze romane”, 1953) lontano dal meritarsi di entrare nella mia top ten malgrado una Audrey Hepburn indimenticabile, direi Les vacances de M.
Hulot di Jacques Tati (1953); il grande comico francese nei panni del suo alter ego preferito trova nelle spiaggie assolate e nelle pensioncine affollate terreno fertile per aggiungere un fondamentale tassello alla sua commedia umana, riempiendo come al solito lo schermo di dettagli esilaranti e spesso quasi impercettibili, in una sfida lanciata allo sguardo dello spettatore che ricorda proprio i giochi enigmistici da fare sotto l’ombrellone.
Sempre nell’ambito del cinema francese mi sovviene lo splendido Une partie de campagne (“Una gita in campagna”, 1946) di Jean Renoir, cronaca agrodolce di una giornata all’aria aperta che la giovane protagonista, anni dopo, si ritroverà a dover rimpiangere; sulla tela di un montaggio libero di seguire gli stati d’animo dei personaggi, Renoir confeziona uno dei suoi film visivamente più belli e anarchici, probabilmente con un occhio alla sensibilità impressionista di suo padre Pierre-Auguste.
Scorrendo la lista degli altri grandi nomi del cinema d’autore, faccio fatica a trovare un omologo, finché non approdo al primo film che sarebbe dovuto venirmi in mente:  Tokyo monogatari (“Viaggio a Tokyo”, 1953) di Yasujiro Ozu; il maestro giapponese affronta ancora una volta il suo tema prediletto, le dolorose distanze generazionali, con la storia di una coppia di anziani coniugi che vanno a passare qualche giorno dai loro figli in città, salvo ricevere da questi una fredda accoglienza.
L’associazione stavolta è semplice:  anche se pochi lo sanno, infatti, il film di Ozu è quasi un remake di una pellicola americana ormai completamente dimenticata:  Make way for tomorrow (“Cupo tramonto”, 1937) di Leo McCarey, un regista specializzato in trame che si sviluppano sul delicato crinale fra dramma e commedia, e che qui dà il meglio di sé con una storia tanto commovente quanto lungi da ogni tentazione ricattatoria:  una coppia avanti con gli anni, costretta per motivi economici a lasciare la propria casa, si ritrova a passare un giorno a New York, e a rivivere i luoghi e i momenti della propria giovinezza come in un secondo viaggio di nozze.
Un giorno a New York…
è una frase che mi dice qualcosa:  sì, certo, l’omonimo titolo del film d’esordio di Stanley Donen (On the Town, 1949), l’opera con cui il regista rivoluzionò il musical portandolo sulle strade, per di più in esterni reali, attraverso la cronaca d’una giornata di libera uscita di tre marinai.
Non un capolavoro assoluto, ma comunque un film che ha fatto la storia del cinema.
E siamo già a metà strada.
Ma le vacanze come momento di bilancio della propria vita, e come occasione, spesso mancata, di riallacciare rapporti familiari, in fondo è anche alla base di un film apparentemente più scanzonato – almeno fino all’epilogo – come Il sorpasso di Dino Risi (1962); raro esempio di vicenda on the road italiana all’ombra del boom economico e di un’euforia collettiva spesso superficiale.
Sempre nell’Italia di quegli anni si svolge un altro film per il resto diversissimo:  L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960); l’ennesimo giallo decostruito del regista dell’incomunicabilità, in cui il mistero circa la scomparsa di una donna durante una vacanza fa da contrappunto al disorientamento esistenziale dei due protagonisti superstiti.
Anche in un bellissimo quanto misconosciuto film americano, Husbands di John Cassavetes (“Mariti”, 1970) , la vicenda si innesca con la scomparsa di un amico, sviluppandosi poi fra viaggi, ricordi, bevute e rimpianti, il tutto sorretto dalla recitazione come al solito semimprovvisata imposta dal regista-attore.
(©L’Osservatore Romano – 31 luglio 2009) La mia memoria comincia a pescare sempre più disordinatamente; sto quasi per gettare la spugna, quando comincio a riflettere sul fatto che i film che parlano di vacanze in fondo sono anche quelli in cui il protagonista rimane in città mentre gli altri vanno a divertirsi.  Dopo questa illuminante constatazione, mi viene subito in mente The Seven Year Itch (“Quando la moglie è in vacanza”, 1955); forse non il miglior Billy Wilder, però.
Allora opto per un film che a pensarci bene ha quasi lo stesso soggetto, anche se declinato nei toni cupi e angosciosi del noir anni quaranta:  The Woman in the Window (“La donna del ritratto, 1944) firmato da Fritz Lang durante la sua lunghissima trasferta hollywoodiana; lasciato solo da moglie e figli, un uomo viene tentato da una donna misteriosa.
Ma i suoi sogni di rispolverare la giovinezza perduta si trasformeranno presto in un incubo:  ancora una volta il maestro tedesco affronta il tema della doppiezza dell’individuo, tema caro ai suoi trascorsi espressionisti.
E siamo a nove.
A un solo passo dalla vittoria, quindi, ripenso mentalmente alla mia lista di film.
Mi accorgo di aver inserito soltanto titoli che risalgono a molti anni fa.
Sì, d’accordo, probabilmente il cinema non è più quello di una volta.
Tuttavia vorrei terminare con un messaggio di speranza, inserendo anche un titolo molto più recente, magari pure italiano.
E allora, rimanendo sul tema delle vacanze vissute da chi rimane a casa, penso a un piccolo film dello scorso anno, lontano di certo dal poter reggere il confronto con quelli citati finora, ma che in quanto a sincerità e poesia non ha nulla da invidiargli:  Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio (2008), esordiente alla regia dopo una lunga carriera nelle retrovie del nostro cinema, e anche protagonista assieme a uno stuolo di memorabili vecchine ansiose di compagnia.

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