XVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Re 4,42-44 In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia.
Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente».
Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».
Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente.
Poi-ché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».
Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’inter-vento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.
Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a o-vest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi do-ve abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio.
Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.
La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v.
38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguiva-no.
La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti.
L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v.
43a).
Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v.
43b).
Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessa-rio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avan-zare» (v.
44).
Seconda lettura: Efesini 4,1-6 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore.
Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento.
È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».
Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina.
La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.
Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamen-to pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.
All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sop-portazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità.
Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.
Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo.
Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità.
Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.
L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati am-messi quando hanno accolto la chiamata di Dio.
L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza.
Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo.
Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.
Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità.
In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.
Vangelo: Giovanni 6,1-15 In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi.
Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli.
Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Rispose Gesù: «Fateli sedere».
C’era molta erba in quel luogo.
Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto».
Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».
Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Esegesi Con una indicazione generica di tempo (v.
1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa.
Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v.
2: «…
e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto.
Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni.
Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltipli-cazione dei pani.
Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).
Il monte (v.
3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea.
Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù.
L’inte-resse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).
Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corri-sponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Ge-sù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15).
C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.
L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’e-vangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.
Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla.
A differen-za dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v.
5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.
Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente.
Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.
L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è pro-pria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).
Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della pri-mavera in Palestina.
Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua.
Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.
Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo euchari-stéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona.
Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.
Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni.
I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.
L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, co-me avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).
Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’en-tusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia.
Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusia-smo messianico della folla è di carattere politico (6,15).
La folla vuole rapire Gesù per far-lo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.
Meditazione «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v.
9).
Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…
Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo.
Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è.
O almeno, non c’è per tutti.
La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete.
Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa).
Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.
Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona.
Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù ver-so altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.
Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù.
Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15).
Detto altrimenti, ‘si arrangino’! Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condi-visi principi morali e spirituali.
Non lo fa nemmeno per prendere tempo.
O meglio, il di-scorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr.
vv.
22-59).
Ma, ap-punto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare.
E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v.
10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare.
Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana.
Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù.
La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione.
E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente.
E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr.
vv.
11-13).
Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr.
1Sam 17).
Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena.
Lui de-sidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita.
Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Sofferenza Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito ne-cessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).
Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentir-ne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente sa-ziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio.
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp.
564-566).
Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro «Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua ma-terialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Offerta la mondo Noi cittadini e cittadine del mondo, gente del cammino, gente che cerca, eredi del legato di antiche tradizioni, vogliamo proclamare: – che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia; che la natura è la nostra madre e il nostro focolare, e che dev’essere amata e preservata; – che la pace dev’essere costruita con sforzo, con la giustizia, col perdono e la generosità; – che la diversità di culture è una grande ricchezza e non un ostacolo; – che il mondo ci si presenta come un tesoro se lo viviamo in profondità, e le religioni vogliono essere dei cammini verso tale profondità; – che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso nell’apertura al Mistero inafferrabile; – che fare comunità ci aiuta in questa esperienza; – che le religioni possono essere un punto di accesso alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo, ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato; – che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose vogliamo dialogare tra di noi; – che vogliamo condividere con tutti la lotta per fare un mondo migliore, per risolvere i gravi problemi dell’umanità: la fame e la povertà, la guerra e la violenza, la distruzione dell’ambiente naturale, la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita, la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza; – e che vogliamo condividere con tutti i frutti della nostra ricerca delle aspirazioni più alte dell’essere umano, nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è e col proposito di poter vivere tutti insieme una vita degna di essere vissuta.
(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).
Rese grazie per insegnarci a rendere grazie Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui.
E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui.
Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6).
[…] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi.
Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr.
Lc 24,44-45).
I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20).
[…] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie.
Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale.
[…] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti.
«Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr.
Mc 6,43).
Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere.
Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale.
Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp.
195-198).
Preghiera Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà.
Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre.
Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di es-sere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza.
Tu mi ripeti, Gesù, che pro-prio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

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