Serve un nuovo inizio per la musica sacra

Temi tradizionali e utilizzo di nuovi linguaggi.
Un connubio per alcuni impossibile, dai più poco frequentato, per tutti quelli che si occupano d’arte sempre più necessario e attuale.
L’argomento diventa spinoso quando si vuole affiancare un soggetto spirituale – in particolare tornando all’antica pratica dell’oratorio – con la grammatica dei moderni linguaggi musicali.
Il Pontificio Consiglio della Cultura si impegna in questo senso ai massimi livelli, coinvolgendosi direttamente con il suo presidente, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che si è assunto l’onere di sintetizzare il testo biblico dell’Apocalisse per l’oratorio Apokàlypsis del compositore Marcello Panni eseguito per la prima volta il 10 luglio a Spoleto nell’ambito del 52° Festival dei due mondi.
Il tentativo sembra quello di mantenere viva la funzione di riferimento delle grandi narrazioni scritturistiche,  aprendo al tempo stesso un nuovo dialogo con la musica contemporanea.  L’intervista all’arcivescovo Gianfranco Ravasi In che modo avete affrontato il problema con il compositore? Il punto di riferimento emblematico del connubio tra un testo classico e la modernità è il Mosè e Aronne di Schönberg, che è stato concepito un po’ come un oratorio.
Da lì siamo partiti per sposare l’antico al nuovo in una maniera il più possibile armonica.
Con il compositore non abbiamo avuto un rapporto continuo – avrebbe richiesto un tempo enorme, purtroppo non disponibile – ma siamo partiti dalla definizione della qualità del testo, contro ogni tentativo di equivoco.
In qualche modo abbiamo prima di tutto circoscritto il campo.
Ci faccia un esempio pratico.
L’equivoco sempre in agguato quando si parla dell’Apocalisse è considerarla l’oroscopo della fine del mondo, un passo tragico e catastrofico.
Pensiamo ad Apocalypse now di Francis Ford Coppola:  una rappresentazione della distruzione, anche simbolica.
Basti ricordare la danza degli elicotteri che nel film è una sorta di recupero di alcune componenti della marcia dei cavalieri del testo biblico.
Superare questo equivoco significa evitare di produrre un’opera, magari monumentale, ma che non tenga conto di tutte le componenti dell’Apocalisse, dove certo troviamo un accento fortissimo sul male del mondo che inquina e incrina la storia,  ma  anche  un  messaggio  finale di speranza.
In realtà essa, così come è scritta, è un’opera sghemba:  ha venti capitoli sostanzialmente tragici e gli ultimi due luminosissimi.
Sono la vera  meta  del  libro di solito dimenticata.
Quindi non un’adesione diretta tra ogni verso e la musica, non un’esegesi del testo attraverso il suono, ma un lavoro sulla forma.
Il lavoro che ho fatto sul testo tende a preservarlo nella sua sostanza, senza garantirne l’integrità.
Non abbiamo privilegiato l’elemento di speranza penalizzando quello catastrofico, ma gli equilibri fanno sì che ci sia una attesa, non della catastrofe, ma dell’epistrophè, della conversione.
In questo senso la forma è proprio quella dell’Apocalisse in senso stretto, che già per sua natura è drammatica e musicale.
Su queste basi  ho  tentato  di  conservare l’autenticità  del  testo,  cercando  di  evitare il rischio della didascalia.
Dal punto  di  vista  musicale  usare  la banda, con un grande organico, consente di non perdere la dimensione escatologica, nel senso tradizionale del termine.
Che  rapporto c’è tra testo e musica in questo lavoro? Si dà molta importanza alla parola.
C’è sia il cantato, affidato al coro, sia il parlato, da solo o in forma di melologo.
Il testo quindi fiorisce in musica e non è utilizzato come un pretesto.
Come ha scelto le parti da musicare? Ho fatto una selezione divisa in sette quadri – anche per salvaguardare la mistica delle cifre – con un prologo e un glorioso epilogo.
È inoltre prevista una scansione in due parti, per costruire un intervallo pensato come momento di meditazione.
Che rapporto c’è tra il testo originale e la sua riduzione? Il testo c’è in tutte le sue parti, ma non integralmente.
Viene riprodotta cioè la dinamica letteraria dell’Apocalisse.
Non è  un  estratto,  ma  un   condensato che  mantiene  la  struttura dell’originale.
In che senso? Pensiamo alle lettere di apertura, un elemento indispensabile per capire che si tratta di un testo indirizzato alle Chiese.
Il momento delle lettere viene mantenuto, ma se ne privilegiano solo due:  quelle indirizzate alla Chiesa di Efeso e a quella di Laodicea, i due testi di maggiore impatto.
Efeso è la Chiesa più importante, il nodo attorno al quale le altre sei si raccordano, quello rivolto alla Chiesa di Laodicea è un impressionante atto di accusa, di eccezionale modernità.
Poi c’è l’uso dei trittici di settenari, con il gioco del sette e del tre.
La forma poetica viene conservata così come i sette sigilli, le sette coppe o le sette trombe, ma si è cercato di evitare una deriva didascalica e di resistere alla tentazione di introdurre tutti i simboli citati.
L’importante è che permanga la struttura e l’idea simbolica, così come rimangono la grande scena finale del dramma della storia – Babilonia scaraventata nel Mediterraneo – e l’affresco finale della Gerusalemme celeste.
L’Apocalisse è un testo fortemente musicale, che presenta continuamente suoni di trombe e cori.
Come è stato affrontato questo aspetto? I cori più importanti sono stati conservati, ma proposti in latino per sottolinearne la natura liturgica.
Non bisogna infatti dimenticare che una delle interpretazioni dell’Apocalisse è che fosse un testo proprio a uso liturgico.
La voce recitante, invece, consente di presentare un testo articolato capace di rendere l’idea generale della narrazione biblica da cui deriva.
Da un punto di vista estetico – come dicevo – il richiamo è al Mosè e Aronne di Schönberg, dove Aronne canta rappresentando il sacerdote pomposo e anche un po’ il fascino dell’idolatria, mentre Mosè usa il parlato, perché non rappresenta la parola che seduce, ma quella che conquista l’anima e costringe a un’opzione.
In questa  luce  le voci, una maschile e una femminile, hanno proprio la funzione di recuperare la nudità della parola.
Quella che in Schönberg è la contrapposizione tra Mosè e Aronne qui è riprodotta nel rapporto tra coro e voci recitanti.
A eccezione del fatto che il coro cantando non cerca come Aronne di ammaliare, ma rappresenta la liturgia che salva.
Ma perché il coro finale è in greco e non in latino? Quando il testo arriva al suo apice ritorna alla lingua misterica, quella originale del testo, il greco appunto.
Quindi per le ultime frasi, quelle decisive del libro, è stata utilizzata la pronuncia bizantina, cioè quella della liturgia.
Qualcuno però potrebbe non ritrovarsi con la lingua studiata a scuola.
La pronuncia che si insegna ora è infatti una convenzione prevalentemente rinascimentale, mentre quella itacistica che ho usato è bizantina e molto simile a quella del greco che si parla oggi.
Qual è il suo ruolo nell’esecuzione? Quello di strappare la performance al rischio che sia solo un concerto.
L’idea è quella di conservare il senso di meditazione del testo originale.
Il mio intervento non è stato quello del conferenziere che all’inizio spiega cosa si sta per ascoltare, ma si è basato sul modello dell’esecuzione delle passioni nella liturgia protestante.
In quel caso il pastore teneva un sermone prima dell’inizio della musica, un’altra predica era prevista a metà, dove adesso si ricorre spesso a un intervallo, strutturalmente assurdo trattandosi di una passione.
Io ho proposto proprio questo schema, per conservare l’aspetto sacrale in una dimensione esistenziale.
È aperta da tempo la grande questione dell’adeguamento agli stilemi contemporanei della musica liturgica e di quella sacra.
La prima si muove più lentamente, ma per quanto riguarda la musica di argomento sacro è realistico pensare che questa iniziativa segni l’inizio di un rinnovato rapporto tra Chiesa e compositori di oggi? Il tentativo di riaprire un canale di comunicazione in questo senso è in pratica l’unica ragione per cui ho accettato di essere coinvolto personalmente in questo progetto.
L’oratorio fa parte di una strategia più ampia che tende a riallacciare un dialogo con l’arte contemporanea, in tutte le sue sfaccettature.
Si è partiti con l’idea di considerare prima di tutto il rapporto con le arti visive, per esempio stringendo un legame con la Biennale di Venezia nella quale saremo presenti nel 2011.
Abbiamo infatti notato che anche gli artisti che si muovono seguendo la nuova grammatica dei linguaggi contemporanei sentono sempre di più il bisogno di tornare a grandi temi.
Un esempio è quello di Bill Viola, che insiste nei suoi video su dolore, vita, morte, acqua, purificazione.
Dopo avere lavorato sulle arti visive ora bisogna aprire il dialogo sulla musica.
Cominciamo da questo esperimento.
Perché Marcello Panni? È un compositore estremamente competente, che scrive una musica avanzata e capace di comunicare direttamente anche a un pubblico non abituato a certe forme espressive.
Io non esiterei a utilizzare linguaggi anche estremi, alla Cage, ma forse non è ancora il momento.
(©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)

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