XV Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Hanno annunciato “Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza”.
(At 4,29) Hanno annunciato che un sapone fa primavera, hanno proclamato che un tipo di benzina t’assicura il coraggio e formidabile potenza.
Hanno gridato per le piazze e sui tetti le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.
Ma hanno taciuto il Verbo e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola: la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.
Hanno annunciato che la pace è fatta di tante uova di cioccolata, e della tredicesima, e di molte banconote, di frigoriferi colmi d’ogni bene, e di appartamenti in città con bagni di maiolica.
Ma la violenza è esplosa per le strade e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti che celano nella coda mitra e bombe molotov.
O uomini e donne del nostro tempo, noi manchiamo di vero annuncio, perché manchiamo di conoscenza contemplativa.
Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio perché abbiamo smarrito il silenzio, anzi ne abbiamo paura.
E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti a colpi di radioline e transistor.
Ma invano noi edifichiamo la città se non è il Signore a costruirla con noi.
Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia invano attendiamo la pace da noi e dai nostri fratelli.
(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).
Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca.
Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo.
Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi.
Ne manda dunque due.
«Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9).
Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà.
Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti.
[…] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi.
In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero.
[…] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).
Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio.
Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14).
Così l’olio serve a confortare nella sofferenza.
Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.
(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).
Il mio sì Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato.
Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato.
Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome.
Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro.
Io ho la mia missione.
In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo.
Egli non ha creato me inutilmente.
Io farò del bene, farò il suo lavoro.
Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
(John Henry Newman).
Portatrici dell’amore di Cristo Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.
Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche co-operatrici di Cristo, le portatrici del suo amore.
Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo.
Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace.
Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed.
San Paolo).
Una Chiesa missionaria «Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di con-dividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46).
«La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).
Preghiera Signore Gesù Cristo, parola del Padre a te ci rivolgiamo.
Custodisci i nostri propositi, ravviva il nostro servizio ecclesiale, sorreggi le nostre fatiche, guida i nostri passi nella ricerca delle vie più adatte per annunciare il tuo vangelo.
La nostra povertà è grande, noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te: incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.
Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo, vivi e regni in noi nella tua Chiesa, per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(Paolo VI).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Amos 7,12-15 In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un man-driano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere.
Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena con-sapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.
Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.
vv.
12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa.
Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.
Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi.
Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svol-ge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese.
Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa.
Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vive-re; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.
vv.
14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica.
Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina.
Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.
È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf.
Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.
Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v.
14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini.
Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame.
Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.
Seconda lettura: Efesini 1,3-14 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosid-dette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.
Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera.
È una benedizione, secondo la prassi litur-gica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.
Il v.
3 – la formula di benedizione — è introduttivo.
Il verbo benedire (euloghein) è ripetu-to due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio).
Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.
La prima parte – vv.
4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio: 1.
l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv.
4-6a) 2.
la grazia della redenzione (vv.
6b-7) 3.
la conoscenza del piano salvifico (vv.
8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio.
Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvez-za, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia.
«Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.
La seconda parte – vv.
11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi: 1.
il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv.
11-12).
2.
il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appro-priazione della salvezza (v.
13).
3.
il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti.
Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v.
14).
È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifi-ca di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.
Vangelo: Marco 6,7-13 In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì.
Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascol-tassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Esegesi La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù.
Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplica-zione dei pani (cap.
6).
Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.
Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v.
12 si limita a un generico invito alla conversione.
L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.
v.
7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco.
Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf.
i discepoli del Battista e Paolo).
Il «potere sugli spiriti im-mondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorci-smo (9,18).
vv.
8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi.
Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.
Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fidu-cia in Dio.
Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quoti-diane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.
vv.
10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione.
Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele.
Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di acco-gliere il messaggio evangelico.
L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambia-mento del cuore, della mentalità: una conversione.
Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».
vv.
12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco.
Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i mala-ti, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.
Meditazione Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci nar-ra l’invio dei Dodici in missione.
La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e in-tensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evan-gelizzazione.
Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.
In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14).
Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi.
Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione.
«E prese (lett.
cominciò) a mandarli…» (v.
7).
Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici.
È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione sa-ranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v.
30).
Quando chiama (al v.
7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr.
3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per.
Così che la missione fa intrinsecamente parte della voca-zione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione.
Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio.
E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale.
Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15).
Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due».
Certa-mente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr.
At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr.
Dt 19,15).
Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare.
Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo.
Per questo è impor-tante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzi-tutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama.
Due persone formano già una piccola comunità (cfr.
Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco.
Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12).
E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…
Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come de-vono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un de-terminato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé.
I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male.
Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indi-spensabile.
Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, co-munque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore).
In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.
Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’.
Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quoti-diana della vita.
La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture.
«Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.
Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza.
«Se in qual-che luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero.
» (v.
11).
Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottoli-neato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione.
Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio.
Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato.
Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

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