Da questo libro emerge tutta la paradossalità di una situazione nella quale l’uomo cui veniva imputata la caduta dei punti di riferimento oggettivi e perfino etici su cui si reggeva il vecchio mondo, a sua volta attaccava le nuove teorie dei quanti perché negatrici di qualsiasi possibilità di spiegare oggettivamente la realtà.
Ed è stupenda l’immagine che ci ha lasciato un altro testimone dell’epoca, Otto Stern, allorché ci ricorda il congresso Solvay del 1927, che praticamente si svolgeva, invece che nell’aula dei congressi, nella sala da pranzo dell’albergo in cui erano ospitati gli scienziati: Einstein esponeva a colazione le sue obiezioni alla teoria quantistica, Bohr prendeva appunti e a cena traeva le sue controindicazioni che sottoponeva a Einstein.
È l’immagine di un mondo di uomini non comuni che durante i pasti conversavano come vecchi amici, solo che invece di parlare di calcio o di donne discutevano di orbite di elettroni e di particelle sub-atomiche, il che sfata alcuni luoghi comuni sulla tetraggine dell’uomo di scienza in generale e conferma quanti, tra i quali lo stesso Pais, notavano ammirati l’esuberanza e la vitalità di Einstein.
Lo scienziato di Ulm dunque viene ricordato in questo libro come uno studioso ossessionato dall’idea di non poter controbattere in modo definitivo alla teoria dei quanti, soprattutto al principio di indeterminazione.
Ironia del destino, Einstein appare come uomo d’ordine rispetto ad un manipolo di giovani scavezzacollo che non accettavano più quest’ordine.
Il teorico della relatività non ne fece mai una questione personale, ma per lui l’incertezza conoscitiva coinvolgeva elementi più profondi della psiche umana, soprattutto il bisogno di credere in una realtà oggettiva frutto di una creazione, ed ecco il perché della frase prima citata.
“Il Signore è sottile, ma non malizioso”: voleva dire che, se si vuole, si possono trovare le tracce della creazione e delle sue leggi nell’universo.
La teoria dell’indeterminazione metteva in crisi questa convinzione.
Non è un caso che nel 1950, passeggiando proprio con Pais, Einstein se ne uscisse con un’altra delle sue celebri frasi: “È veramente convinto che la Luna esista solo se la si guarda?”.
Il suo interlocutore e biografo infatti aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di maestri che si rifacevano alla fisica quantistica, e il premio Nobel voleva stuzzicarlo, lasciando trapelare però come i quanti fossero una ferita sempre aperta in lui.
I quanti, quindi, mettevano in dubbio la realtà e il progetto che si celava in essa.
Dio divenne quindi un elemento in grado di rafforzare l’attacco di Einstein all’iper-relativismo di Bohr, Heisenberg e compagni.
Ma nessuno ha mai chiarito quale Dio avesse in mente Einstein, neanche il libro di cui stiamo parlando, scritto da un testimone diretto con cui lo scienziato aveva dimestichezza.
Pais è convinto che questo Dio non fosse un Dio-persona come nelle grandi religioni monoteistiche: “Se aveva un Dio, era il Dio di Spinoza”.
Tutto chiaro, allora? Apparentemente.
Perché poi emergono, anche da questo lavoro, elementi che fanno pensare ad una questione più complessa e mai risolta integralmente neanche nella mente dello stesso Einstein.
Intanto vi è un’ammissione dello stesso biografo, che spiegando l’atteggiamento dello scienziato nei confronti delle sue teorie chiarisce che egli le interpretava “come transizioni ordinate in cui egli si sentiva chiamato a svolgere il ruolo di strumento del Signore”.
In poche parole, la forza cui pensava il premio Nobel sarà stato pure il Dio di Baruch Spinoza, però nelle stesse parole di Pais – e in quelle di Einstein – si intravede qualcosa di diverso dal Dio-causalità necessaria, e quindi non libero creatore teorizzato dal filosofo olandese.
L’elemento personale della divinità viene messo in dubbio dal biografo sulla scorta di una affermazione del grande scienziato: “Ora comprendo che il paradiso religioso della giovinezza, così presto perduto, fu un primo tentativo di liberarmi dalle catene del “puramente personale””.
La frase riguarda la reazione di Einstein al periodo in cui visse, attorno agli undici anni, una fase intensamente religiosa, che terminò abbastanza presto.
Il termine del fervore non vuol dire però l’abbandono di tutta la religiosità, e quella stessa frase che abbiamo citata, può essere interpretata come rinuncia a una interpretazione eccessivamente individualistica del mondo.
Pais insiste: la “fedeltà alle proprie radici non comportava connotazioni religiose”.
Ma più avanti deve citare Einstein: “Una persona religiosa è devota nel senso che non ha dubbi circa il significato e la grandezza di quegli obiettivi e di quei fini che trascendono la singola persona e che non necessitano né sono suscettibili di un fondamento razionale (…).
Non è possibile alcun contrasto (tra scienza e religione), la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”.
di Marco Testi (©L’Osservatore Romano – 5 luglio 2009) Subtle is the Lord recitava il titolo dell’edizione originale, 1982, del volume di Abraham Pais sulla scienza e la vita di Albert Einstein, come spiegato nel sottotitolo, la cui citazione non appaia gratuita: nell’edizione italiana – la terza dopo quelle del 1986 e del 1991 – La scienza e la vita di Albert Einstein (Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pagine 561, euro 22) diviene il titolo vero e proprio.
Sparisce quindi quel riferimento alla “sottigliezza” del Signore, contenuta in una celebre battuta del grande fisico: “Il Signore è sottile, ma non malizioso” riportata in questo stesso volume nella traduzione di Gianfranco Belloni e Tullio Cannello, che ne è anche il curatore.
Una battuta, quella di Einstein, polemica contro la nuova teoria dei quanti e soprattutto contro il principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, che poteva essere interpretato come l’impossibilità di descrivere in modo completamente oggettivo un esperimento, in quanto chi osserva modifica l’esperimento stesso: il che voleva significare l’ammissione della impossibilità di dare un ordine al mondo, e soprattutto di pensare a una realtà come esterna a noi: chi guarda è parte dell’universo osservato, e non ha quindi alcuna patente di oggettività.
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