Gli sarebbero bastate “una casetta e una chiesuola” dove stare fino alla morte servendo Dio.
Così, felice in terra e sereno nell’anima, avrebbe compiuto i suoi giorni ricco di pace e di fede, più che di fama e di beni terreni.
La Provvidenza, però, volle assai più per il gesuita Matteo Ricci, umanista rinascimentale, uomo illustre di scienza e di lettere, missionario illuminato, “il saggio d’Occidente”: non solo trascorse ventotto fecondi anni, dal 1582 al 1610, nella Cina imperiale lontana e misteriosa, ma nel segno dell’armonia portò in quelle terre, modellate dal pensiero di Confucio e da culti antichissimi, la Buona Novella del Vangelo.
Accolto con rispetto e amicizia, si fece cinese ut Christo Sinas lucrifacere.
E in quell’impero così vasto e da lui così ammirato e rispettato, venne sepolto, “come il chicco di grano nascosto nel seno della terra per portare frutto abbondante”, scriveva, guardando al Celeste impero d’allora e alla Repubblica popolare di oggi, Giovanni Paolo II.
Una divina dinamica della missione che Giovanni XXIII, additando proprio padre Matteo come esempio nella lettera Princeps pastorum, semplicemente citando il Vangelo di Giovanni pone sotto la logica talvolta imperscrutabile del Buon Dio, poiché “chi semina non è lo stesso che raccoglie”.
È una vera avventura umana e spirituale quella di Matteo Ricci: per il secolo in cui si svolse, i luoghi che l’accolsero – Macerata, Roma, Coimbra, Goa, Macao, la Cina continentale fin verso Pechino – per la modernità dell’approccio missionario diventato modello di autentica, eppure vigile, inculturazione del Vangelo.
Un “apostolato originale e profetico”, ricorda Benedetto XVI, il cui stile fu improntato, come ancora rileva il Papa, dall’amicizia, dal rispetto e dalla stima reciproca.
Vi sono aspetti anche spettacolari, in questa vita esemplare, che visivamente possono avvincere: la scoperta della Roma pontificia; il fascino del viaggio e dell’ignoto; l’approccio a un Paese vastissimo e sconosciuto; gli usi, i costumi e le scienze così diversi, che pazientemente Ricci cerca di avvicinare e di integrare ai valori dell’Occidente e del cristianesimo.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Fare un “docufilm” su di lui può essere, per questi motivi, anche una brillante operazione di cinema e il regista d’origine kossovara Gjon Kolndrekaj ha colto con lungimiranza questi aspetti in Matteo Ricci, un gesuita nel Regno del Drago presentato in Vaticano.
Forte di una solida consulenza editoriale, religiosa e storica ha cercato di fornire più informazioni possibili, con una scelta forse arbitraria e dando un ritmo anche troppo affannato alle citazioni e alle immagini, come per trasmettere l’ansia missionaria e conoscitiva della quale Matteo fu investito.
Si coglie, però, anche la limitazione economica che deve avere imposto alla produzione di fare “di necessità virtù”: nella prima parte Matteo in costume entra e esce da troppe scale e saloni; poi da turista del XVI secolo percorre, trasognato, una Roma assai moderna; del suo lungo viaggio è detto e mostrato poco; infine del suo soggiorno in Cina cogliamo solo l’abito e la fluente barba bianca.
I mezzi della tecnologia e del cinema oggi possono invece fare meraviglie.
Basta seguire alcuni splendidi documentari inglesi e americani: assicurano, alternando il passato ricostruito da validi esperti al presente raccontato da illustri ospiti, un perfetto scorrere dei tempi, senza mancare un’informazione, un dettaglio, una curiosità, che diventano spettacolo.
Aiuterà probabilmente il libro che sarà stampato a supporto del film in dvd: insieme prepareranno ai grandi festeggiamenti del prossimo anno per il quarto centenario della morte di padre Matteo, oggi così caro alla diocesi di Macerata, alla Chiesa e alla Cina.
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