Testrimoni del nostro tempo: Padre Pio

Ricordo di padre Pio Il frate e il sindaco socialista di Giuseppe Tamburrano Presidente della Fondazione Nenni La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo.
Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate.
Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli.
Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava.
Mi voleva bene: chissà perché.
Forse perché sentiva in me il laico cristiano.
È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l’ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei “signori” io, caporione della squadra dei figli dei “cafoni”, andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio – ricordo sant’Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore: io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese – o a esercitarmi per le mie esibizioni canore: ricordo l’Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all’organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l’atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre.
Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori.
Ma la passione politica lo infiammò più dell’agone forense.
Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell’ottobre 1920.
Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari – tante donne! – che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari.
Il destino di mio padre fu segnato: l’emarginazione sociale e civile e la miseria dell’esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa.
E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l’ago da ricamo lavorare per le sue “amiche” dell’establishment fascista.
E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta: “Giusè, va’ a trovare zia Annina”, si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla: subiva, viveva triste, assente.
Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista.
“Tu lo vedi ora spento.
Avresti dovuto vederlo qualche anno fa: sembrava un leone con l’abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari” mi diceva mia madre.
Ebbene quest’uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza.
E non gli chiese mai: perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009  Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo Epistolario (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro Padre Pio sotto inchiesta.
L’autobiografia segreta (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel Diario di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina.
“Il cireneo di tutti” (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, Padre Pio da Pietrelcina, croficisso senza croce (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, Padre Pio.
Le stigmatisé (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo Un tormentato settennio (1918-1925) nella vita di padre Pio da Pietrelcina di Giuseppe Saldutto (Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); Alla scuola spirituale di padre Pio da Pietrelcina di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); Il Calvario di padre Pio, i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); I casi di morale di padre Pio di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), Don Luigi Orione e padre Pio da Pietrelcina.
Nel decennio della tormenta.
1923-1933.
Fatti e documenti, di Flavio Peloso (Milano, 1999); Il beato Pio da Pietrelcina di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); Il divenire inquieto di un desiderio di santità.
Padre Pio da Pietrelcina:  saggio psicologico di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); L’itinerario di fede di padre Pio da Pietrelcina nell’Epistolario di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); Nella comunione dei santi.
Santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina di Luca Lucchini (Città del Vaticano, 2005) e L’epistolario di padre Pio.
Una lettura mistagogica di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, Oltre la sapienza di parola.
Paolo di Tarso e Pio da Pietrelcina:  linee didattiche cristiane tra antichità e novità (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, Träger der Wundmale Christi (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri Le stigmate di padre Pio da Pietrelcina:  testimonianze, relazioni (San Giovanni Rotondo, 1985); La trasverberazione di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1985); Atti del convegno di studio sulle stigmate del servo di Dio padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, Il Papa e il frate (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, La terza lettera di monsignor Wojtyla a padre Pio, pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, Molti hanno scritto di lui.
Bibliografia di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1986).
(francesco castelli)
Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo di Giuseppe Saldutto(Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); , i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), , di Flavio Peloso (Milano, 1999); di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); di Luca Lucchini(Città del Vaticano, 2005) e di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, , pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1986).
() (©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Le date 1887.
Il 25 maggio a Pietrelcina (Benevento) nasce Francesco Forgione.
1891.
Iniziano le vessazioni diaboliche.
1892.
All’età di cinque anni percepisce il desiderio di consacrarsi a Dio e l’anno successivo gli appare il Sacro Cuore di Gesù.
1899.
Riceve il sacramento della cresima e si accosta per la prima volta all’Eucaristia.
1903.
Entra tra i cappuccini, nel noviziato di Morcone (Benevento).
Prende il nome di fra Pio da Pietrelcina.
1907.
Emette la professione dei voti solenni.
A circa 20 anni comincia il dono dei “rapimenti”.
1910.
Il 10 agosto viene ordinato sacerdote nel duomo di Benevento dall’arcivescovo Paolo Schinosi.
Inizia il fenomeno delle stimmate.
1912.
Il fenomeno della stimmatizzazione invisibile si ripete dal giovedì sera fino al sabato.
1915.
Su richiesta di padre Agostino da San Marco in Lamis, confessa di aver subito quasi ogni settimana, da più anni, la “coronazione di spine” e la “flagellazione”.
1918.
Il 30 maggio si offre vittima per i peccatori perché la guerra finisca.
Tra il 5 e il 7 agosto vive il fenomeno della transverberazione.
Il 20 settembre Gesù Crocifisso gli appare sofferente e gli dice: “Ti associo alla mia Passione”, poi lo stimmatizza.
1919.
Primi esami medici delle stimmate.
1920.
Il 18 aprile Agostino Gemelli visita padre Pio per pochi minuti.
Dopo un brevissimo colloquio, Gemelli invia al Sant’Uffizio una valutazione non positiva sull’origine del fenomeno delle stimmate pur elogiando la vita religiosa del frate.
1921.
Dal 14 al 21 giugno si svolge la prima visita apostolica del Sant’Uffizio da parte del vescovo di Volterra, Raffaello Carlo Rossi.
Nella relazione presenta un profilo estremamente positivo del cappuccino e della sua fedeltà al Signore.
1922.
I cardinali del Sant’Uffizio scrivono al ministro generale dei cappuccini dichiarando di rimanere in osservazione su padre Pio; di evitare ogni “singolarità e rumore”; che “per nessun motivo egli mostri le così dette stimmate”; che interrompa con padre Benedetto da San Marco in Lamis “ogni comunicazione anche epistolare”; che i superiori dell’ordine si preparino a trasferire padre Pio quando il clima popolare lo consentirà.
In questo periodo giungono al Sant’Uffizio nuove accuse dal clero locale poi rivelatesi infondate.
1923.
Il Sant’Uffizio afferma che non consta la soprannaturalità dei fatti attribuiti a padre Pio ed esorta i fedeli a conformarsi a queste dichiarazioni.
Gli viene proibito di celebrare la messa in pubblico.
Sommossa popolare di tremila persone davanti al convento.
Al frate viene concessa la facoltà di celebrare in chiesa.
1923-1926.
Al Sant’Uffizio giungono costantemente numerose accuse del clero locale provocando timori e sospetti.
1931.
Il 23 maggio il Sant’Uffizio comunica la proibizione per padre Pio di celebrare in pubblico e il ritiro della facoltà di confessare.
1933.
Il 16 luglio viene autorizzato a celebrare di nuovo in pubblico e gradualmente gli viene restituita la facoltà di confessare.
1947.
Inizia la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza.
1948.
In aprile don Karol Wojtyla incontra padre Pio e si confessa da lui.
1956.
Il 2 luglio inizia la costruzione della chiesa di San Giovanni Rotondo.
1959.
Mentre la statua della Madonna di Fátima fa tappa a San Giovanni Rotondo, padre Pio guarisce da una pleurite.
1960.
Dal 30 luglio al 17 settembre si svolge la visita apostolica di monsignor Carlo Maccari.
1961.
Nuove disposizioni del Sant’Uffizio, anche sulla durata della messa di padre Pio.
1962.
Monsignor Wojtyla, vescovo ausiliare di Cracovia, scrive a padre Pio chiedendo e ottenendo la guarigione del medico Wanda Póltawska.
1963.
Nuovi contatti epistolari tra Wojtyla e padre Pio.
Il vescovo chiede preghiere per se stesso e per la sua delicata situazione pastorale.
1964.
Il cardinale Ottaviani, a capo del Sant’Uffizio, comunica la volontà di Paolo VI che “Padre Pio svolga il suo ministero in piena libertà”.
1968.
La salute di padre Pio declina.
Le stimmate iniziano a chiudersi senza lasciare alcun segno.
1968.
Il 23 settembre padre Pio muore.
1983.
Il 20 marzo si apre il processo cognizionale sulla vita e le virtù del servo di Dio Pio da Pietrelcina.
1997.
Il 20 marzo Padre Pio è dichiarato venerabile.
1999.
2 giugno viene proclamato beato.
2002.
Il 16 giugno Giovanni Paolo II proclama padre Pio santo e ne istituisce la memoria liturgica obbligatoria.
(francesco castelli) La salvezza dei «fratelli» al centro della spiritualità sacerdotale di padre Pio Tra il dolore e la bellezza di Cristo di Francesco Castelli Il 2008 è stato un anno di eccezionale importanza per la conoscenza di padre Pio da Pietrelcina.
La pubblicazione di due documenti ha svelato aspetti umani e mistici del cappuccino inediti e di profondo significato.
Nel febbraio 2008 è avvenuta la scoperta di una nuova lettera, la terza, del vescovo vicario capitolare a Cracovia Karol Wojtyla al cappuccino, nella quale il futuro Pontefice chiedeva a padre Pio di pregare questa volta anche per lui e per la propria difficile situazione pastorale.
Poi, è seguita la pubblicazione degli atti della prima visita apostolica del Sant’Uffizio, compiuta nel giugno 1921, per otto giorni, lunghi e intensi, dal vescovo di Volterra Raffaello Carlo Rossi, futuro cardinale.
Un confronto netto e serrato, ma anche equilibrato, durante il quale padre Pio fu chiamato a rispondere su tutti gli aspetti della sua vita, da quelli più semplici della quotidianità fino alle pieghe più intime della sua vita interiore e mistica.
Le risposte del frate, ben 142, trascritte e inviate sub secreto al Sant’Uffizio, offrono oggi un elemento fondamentale per conoscere la spiritualità sacerdotale di questo grande santo del xx secolo: il racconto preciso e dettagliato della stimmatizzazione e con esso della missione a lui affidata dal Signore.
Che cosa accadde dunque quella mattina del 20 settembre 1918, quando padre Pio, dopo aver celebrato la messa, si ritirò in preghiera? Quale missione fu affidata al giovane sacerdote di San Giovanni Rotondo? Padre Pio, com’è noto, era stato sempre restio nel parlare di quel giorno e di quello speciale incontro.
“Un misterioso personaggio”, così diceva, gli era apparso e gli aveva impresso i segni della passione.
Ora, invece, la pubblicazione degli atti dell’inchiesta ha svelato il contenuto e le stesse parole di quell’incontro.
È lo stesso padre Pio a riferirne, sotto giuramento, a monsignor Rossi, a tre anni di distanza dai fatti.
La mattina di quel 20 settembre “vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi (sic) della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti.
Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua passione.
M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli.
In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui che cosa potevo fare.
Udii questa voce: “Ti associo alla mia passione”.
E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue.
Prima nulla avevo”.
In padre Pio, dunque, l’affidamento della missione di “occuparsi della salvezza dei fratelli” era stato indissolubilmente legato con l’annuncio delle sofferenze in unione a Cristo: “Ti associo alla mia passione”.
Da quel giorno – come in parte già avveniva – quel “Ti associo alla mia passione” era divenuto la ragione della sua vita e del suo amore.
Era cresciuto in lui uno speciale amore per i suoi fratelli.
Era come un fuoco che gli bruciava nel petto.
Proprio parlando di ciò al suo padre spirituale ebbe a dire: “Per i fratelli (…) quante volte, per non dir sempre, mi tocca dire a Dio giudice, con Mosè: o perdona a questo popolo o cancellami dal libro della vita.
Che brutta cosa è vivere di cuore! Bisogna morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere”.
Padre Pio si trovò, così, per tutta la vita, ad ascoltare un numero straripante di confessioni, ad avere una personale esperienza della consistenza del male causato dal peccato, della distruzione che esso provoca nel cuore dell’uomo, della necessità che esso sia smaltito, “smaltito con l’amore”.
Per questo “Ti associo alla mia passione” divenne un elemento caratterizzante la sua fisionomia spirituale di sacerdote nel quale percepì l’indole esigente delle purificazioni di Dio e la fecondità dell’amore sofferente che egli, come sacerdote, poteva offrire al Signore.
Da allora non si allontanò né spiritualmente né fisicamente dal confessionale.
Monsignor Rossi apprese che padre Pio vi rimaneva fino a sedici ore al giorno.
Domandare il perdono al Signore, aiutare i fratelli nella conversione spirituale divenne – con puntuale fedeltà verso l’invito di quel 20 settembre 1918 – l’imperativo della sua esistenza.
La sua domanda di perdono per i fratelli, gli ricordava “Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce”.
Nascevano così in lui la gratitudine per l’amore sofferente del Signore – e questo spiegava la sua preghiera continua, notte e giorno, senza cessare – e poi la gioia di associarsi alla sua passione.
Per questo scriveva: “Sì, io amo la croce, la croce sola: l’amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù: (…) Deh, padre mio, compatitemi se tengo questo linguaggio; Gesù solo può comprendere che pena sia per me, allorché mi si prepara davanti la scena dolorosa del Calvario”.
Sacrifici subiti, incomprensioni, ostilità: tutto accolse pur di essere fedele al quel dono oneroso di domandare perdono per gli altri e di ottenere la gioia dell’amicizia con Dio per i suoi fratelli.
Altre sofferenze non andò a cercarle.
Anzi, a fronte di una richiesta del visitatore che gli domandava quali mortificazioni al di fuori di quelle prescritte facesse per fugare ogni dubbio, gli rispose.
“Non ne fo: prendo quelle che manda il Signore”.
“Ti associo alla mia passione” divenne così per il sacerdote padre Pio un modo tutto nuovo con il quale capire le parole del Signore: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Giovanni, 12, 32).
Anch’egli, da quando venne stimmatizzato, iniziò ad attirare molti non a sé, ma al Signore e al suo amore.
A molti, a moltissimi ottenne guarigioni fisiche ma a molti di più quelle dell’anima.
“Sono pronto a tutto – diceva – purché Gesù sia contento e mi salvi le anime dei fratelli, specie quelle che egli mi ha affidate” (18 dicembre 1920).
Da allora tanti divennero suoi figli spirituali, numerose furono le grazie, numerosissime le conversioni.
I molti che facevano ricorso a lui, andavano via soddisfatti, spiritualmente aiutati e umanamente soccorsi.
Proprio con la sua disponibilità d’amore ad associarsi alle sofferenze del Signore, padre Pio verificò visibilmente nella conversione e crescita spirituale dei suoi figli che con “Gesù entra gioia nella tribolazione”.
Così egli mostrò che “non c’è amore senza sofferenza” – “l’amore si conosce nel dolore”, scriveva – e che con l’amore sofferente egli poteva, in un mondo in cui la menzogna è potente, dare pubblica testimonianza di fedeltà all’amore e proprio così alla vera gioia.
In tale maniera il frate di Pietrelcina divenne un vero sacerdote del Signore.
Offerente della Vittima divina e vittima egli stesso, colpiva i suoi discepoli e visitatori proprio per il personale e spirituale coinvolgimento durante la messa, piena realizzazione della sua spiritualità sacerdotale.
Sono molte le testimonianze di quanti lo ricordano in modo indelebile sull’altare.
Giovanni Paolo II, menzionando la sua personale esperienza nel vederlo celebrare, ebbe a scrivere espressioni vive e forti: “Ho partecipato alla santa messa (di padre Pio), che fu lunga e durante la quale si vide la sua faccia che soffriva profondamente.
Vidi le sue mani che celebravano l’Eucaristia; i luoghi delle stigmate erano coperti con una fascia nera.
Tale evento è rimasto in me come un’esperienza indimenticabile.
Si aveva la consapevolezza che qui sull’altare, a San Giovanni Rotondo, si compiva il sacrificio di Cristo stesso, il sacrificio incruento e, nello stesso tempo, le ferite sanguinose sulle mani ci facevano pensare a tutto quel sacrificio, a Gesù crocifisso.
Questo ricordo dura fino a oggi e, in qualche modo, fino a oggi ho davanti agli occhi quello che allora vidi io stesso”.
La qualità liturgica della celebrazione di padre Pio che colpiva tutti, perfino il futuro Papa, manifestava un vero cammino interiore di graduale assimilazione a Cristo, nel dolore e nella gioia, nella morte e nella risurrezione, nell’ubbidienza e nella libertà vera.
In definitiva, in lui il “sì” alla croce e alle sofferenze permesse dal Signore divenne la via ordinaria della sua gioia e di una più profonda amicizia con Cristo come suo sacerdote.
I suoi figli spirituali dicevano e dicono di aver continuato negli anni a vedere nel suo viso qualcosa di angelico e straordinariamente sereno, nonostante la sofferenza da lui vissuta nel corpo attraverso le stimmate, e, spiritualmente, per la conversione dei peccatori.
Gioia e dolore, sofferenza e beatitudine furono e rimasero così in lui due tratti costitutivi del volto spirituale di sacerdote, proprio come Gesù che per la sua bellezza paradossale è “il più bello dei figli dell’uomo” (Salmo, 44, 3) e allo stesso tempo colui che “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore” (Isaia, 53, 2).
Proprio parlando della paradossale bellezza di Gesù, il cardinale Joseph Ratzinger scrisse: “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine, la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.
Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza”.
Proprio di tale bellezza il sacerdote padre Pio ha dato testimonianza alla Chiesa e al mondo facendo della paradossale bellezza di Gesù la sua spiritualità sacerdotale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)  Dall’accoglienza alla comunione di Mario Ponzi San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali.
Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell’antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente.
Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e “tutto è pronto per mostrare al Papa l’anima vera del Gargano” confida a “L’Osservatore Romano” monsignor Domenico Umberto D’Ambrosio, in procinto di fare – subito dopo la visita del Papa – il suo ingresso nell’arcidiocesi  di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile.
 Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.
Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima:  la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano.
 Come  state  vivendo  questa vigilia?  Effettivamente è un momento particolare.
Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni.
Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l’anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce.
Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI.
Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui.
Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo:  è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi.
Un evento di grazia che si rinnova, dunque.
La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli.
Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.
E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate? Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell’intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità.
Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c’è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso.
Ecco io mi auguro che quest’esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.
Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti? Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa.
È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare.
La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle.
A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all’altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.
Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come “Città della pace e dell’accoglienza”.
Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene.
Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze.
In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima.
Ma non è questo il problema che mi preoccupa.
La domanda che ci poniamo infatti è un’altra:  cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell’incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.
Certamente si sarà fatto un’idea di cosa fare per risanare questa frattura.
Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell’accoglienza.
Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell’accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c’è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede.
Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa.
Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto “giovani, famiglia e missione”, affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte.
Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione.
Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via.
Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.
Allargando un po’ lo sguardo all’intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest’area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica? La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato.
La situazione sociale presenta diverse sfaccettature.
Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde.
La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi.
È una condanna che ci portiamo dietro da sempre.
E se non fosse per quei bagliori riflessi dell’industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un’equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l’ondata emigratoria.
Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni.
Per loro non c’è spazio in casa, non ci sono opportunità.
Dunque bisogna emigrare.
Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti.
Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un’etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria.
Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa.
Noi come Chiesa, con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è.
Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie.
Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti  sembrano  essere  invece le uniche risposte alla crisi.
E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo.
Questo crea grande sofferenza.
Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.
Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più? In questo periodo stiamo dedicando un’attenzione particolare alla famiglia.
Assistiamo ad un’impennata dei divorzi.
È un problema che ci assilla.
C’è un allentamento dei costumi che porta all’abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione.
I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio.
C’è poi una certa recrudescenza della pratica dell’aborto.
Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori.
Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi.
C’è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull’aiuto di laici esemplari che  sappiano  offrire  modelli  da  imitare.
Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all’incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)

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