La scomparsa di Ralf Gustav Dahrendorf merita la grande attenzione che ha suscitato, ma è necessario che del tempo scorra per consentire alla meditazione di avere la meglio sull’emozione.
È invece possibile dire subito alcune delle ragioni per le quali è opportuno che il pensiero torni con pazienza sul lascito di questo grande tedesco del Novecento.
Ralf Gustav Dahrendorf è stato uno dei migliori interpreti della eredità di Max Weber.
Interprete e non ripetitore o semplice continuatore.
A differenza di tanti altri, e innanzitutto di Marx e dei vari marxismi, Dahrendorf, sulle orme di Weber, ha rifiutato e contestato con successo ogni spiegazione monofattoriale dell’agire umano, della vicenda sociale, dei processi storici (ciò sin dalla sua prima opera, del 1957, Classi e conflitto di classe nella società industriale, in Italia presso Laterza).
Egli ha inteso combattere strenuamente l’ideologia, ogni ideologia, con la scienza e nella scienza.
Perciò tra le sue pagine troviamo ricerche e studi rilevanti per il dibattito sociologico, per quello economico, per quello filosofico, per quello storico, per quello politologico.
Per questa stessa ragione troviamo nella ricerca di Dahrendorf una vigilanza metodologica ed epistemologica costante.
Questo spirito lo ha reso sempre disponibile alla critica, critica che non mancherà neppure d’ora in avanti, ma che testimonierà anche della grandezza scientifica ed etica di questo autore che ha cercato di evitare i fumosi nascondigli dell’ideologia.
Allo stesso tempo, merita notare che una tale vastità di interessi e una tale complessità di prospettive non l’ha reso un eclettico, e neppure un pensatore da “terze vie”.
In uno dei grandi eventi della storia culturale europea del Novecento, il confronto tra “razionalisti critici” e “francofortesi” svoltosi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso (si veda Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi), Dahrendorf – pur mantenendo equilibrio e autonomia – è chiaramente tra i primi (capofila Popper, mentre tra i secondi, capofila Adorno, compare tra gli altri Habermas).
Attento alle ragioni altrui, Dahrendorf ci lascia un lungo e ricco magistero che funge per noi da baluardo contro ogni deriva totalitaria, anche apparentemente “dotta” o “dialettica”.
Ricorrendo a un suo schema, Dahrendorf ha costantemente usato delle ragioni offerteci da Kant contro i pericoli della ben viva eredità hegeliana.
Se facciamo appena un passo indietro e sull’opera di Dahrendorf guadagnamo una prospettiva più larga, scorgiamo subito una seconda ragione per la quale essa merita schietto e paziente interesse.
L’opera (e la vita stessa) di Dahrendorf si svolge principalmente – ma non esclusivamente – a cavallo del Canale della Manica.
Tedesco, Dahrendorf studia, insegna e si affianca nella ricerca alla comunità scientifica britannica e più in generale anglosassone (per qualche verso qualcosa di simile era avvenuto con Popper, e avverrà ancora con Niklas Luhmann).
Dahrendorf ha cioè saputo riconoscere la varietà per lo meno duplice della cultura europea e della modernità europea.
Come pochi altri ha conosciuto e ha saputo relativizzare l’eredità del razionalismo francese e dell’idealismo tedesco.
Non ha ridotto a questa sola corrente la propria comprensione dell’illuminismo e della modernità, ma, prima ancora di preferirla, ha riconosciuto pari dignità all’altra variante dell’illuminismo e della modernità europea, quella critica, ben più diffusa a Nord e a Sud della Manica (un Sud – l'”Europa continentale” – che spesso tende a spacciarsi come l’intero dell’Europa e della sua cultura invece di rassegnarsi a esserne solo una parte).
In questo senso, Dahrendorf è stato un “europeo”, forse – credo – un grande “europeo”, certamente un vero europeo.
In terzo luogo, nella sua lunga vita – era nato ad Amburgo nel 1929 – Dahrendorf è stato uomo di pensiero, ma anche uomo di azione e di amministrazione (di istituzioni politiche e di istituzioni scientifiche).
Da parlamentare, o da membro della Commissione europea, da componente di qualificatissime commissioni internazionali o da guida di prestigiose istituzioni accademiche, Dahrendorf ha fatto politica nella accezione più piena del termine, da liberale (più nel senso inglese che in quello franco-tedesco del termine).
Mai è stato “intellettuale organico”, mai “indipendente” nelle fila di qualche partito, mai ha pensato l’agire come una applicazione della ideologia.
In questo senso potrebbe essere d’aiuto avvicinare il suo profilo a quello di don Luigi Sturzo.
Dahrendorf ha affrontato e gestito la sfida della prassi anche come sfida alle proprie idee, e le sue esperienze hanno puntualmente lasciato un segno nel suo pensiero.
Infine, Dahrendorf, si è sempre distinto, anche rispetto agli intellettuali della sua stessa scuola, per la capacità di ascolto delle ragioni degli avversari culturali e politici, e per l’attenzione al dato empirico.
Lui, che aveva annunciato “la fine del secolo socialdemocratico”, che aveva intuito che nel xxi secolo le democrazie avrebbero conosciuto una competizione sostanzialmente ridotta alla sfida tra “liberali di destra e liberali di sinistra” – segno di una affermazione senza precedenti della libertà e delle sue istituzioni, della democrazia, del mercato, in una parola della “società aperta” – negli ultimi anni ci ha più di una volta sorpreso rimettendo in discussione, raffinando, criticando e riformulando queste ipotesi, anticipando senza abiure il travaglio intellettuale e politico cui tutti ci espone la crisi economica (e non solo economica) nella quale siamo immersi.
In conclusione, è difficile negare che si tratti di ragioni molto forti per tornare a meditare i testi e le scelte di Dahrendorf.
Nel frattempo, mi sembra, siano sufficienti a raccomandare una speciale attenzione al tedesco divenuto cittadino britannico e poi nominato Lord dalla Regina Elisabetta ii, al professore di Amburgo, Tubinga e Costanza successivamente guida della London School of Economics e successivamente del Saint Antony College dell’università di Oxford e poi ancora docente a Berlino, al parlamentare nazionale e membro della Commissione europea, al liberale che ha compreso che le opportunità degli individui crescono insieme a legami religiosi, familiari e associativi.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2009)
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