Unità di Lavoro interdisciplinare di educazione alla mondialità (religione, italiano) OSA di riferimento (Irc) Conoscenze – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa del mondo. Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità e di riconciliazione nella storia dell’Europa e del mondo. OSA di riferimento per l’Educazione alla convivenza civile Conoscenze – Consapevolezza delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti. Abilità – Leggere e produrre testi e condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative.
Obiettivi Formativi trasversali ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere con parole proprie il concetto di educazione e auto-educazione alla mondialità, di accoglienza del diverso e di dialogo; di “responsabilità a vasto raggio”. Conoscenze e abilità per l’IRC – Conoscere e descrivere le motivazioni e le risorse che fanno di un Cristiano un “abitante del mondo”. Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale (considerabili come trasversali) – Sviluppare, sul piano della crescita umano-relazionale, capacità di ascolto, dialogo, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza. – Voler distinguere, sul piano morale, tra bene e male. – Riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale e sociale dell’Europa e dell’intera umanità. Prima fase dell’attività Gli insegnanti presentano agli allievi il primo testo-guida, che introduce il concetto di “mondialità” come scelta di “orizzonti illimitati” nel cui ambito vivere. 1) Mondialità.
«La mondialità è innanzitutto un sentimento che porta un uomo a sentirsi parte di un tutto umano e ambientale-ecologico.
Essa è inoltre una visione del mondo caratterizzata anche dal valore della diversità, in cui la famiglia umana è intesa come una comunità di popoli diversi (fratellanza universale).
Per mondialità s’intende un complesso di comportamenti informati al principio della responsabilità: agire nel presente con la coscienza di essere responsabili del futuro del mondo» (C.
Nanni, Educare alla convivialità, Ed.
EMI, p.
9).
Educare (per genitori e insegnanti) e “autoeducarsi” (per giovani alla ricerca del loro modo di abitare il mondo) alla mondialità può significare: • far conoscere ‒ e voler conoscere ‒ i problemi e le ingiustizie planetari legati a un uso sbagliato delle risorse naturali, ai soprusi politici ed economici a danno dei poveri, alla violazione dei diritti umani, alla mancanza di pace, a una tecnologia esasperata che compromette l’ambiente naturale… • fornire e trovare motivazioni per decidere di partecipare al “miglioramento del mondo” come si può, certi che l’oceano…
sia fatto di gocce.
Gradualmente, crescendo, un ragazzo della tua età potrà decidere di buttarsi nella mischia, di non stare a guardare il mondo come uno spettatore critico e, dopo un po’ di vita trascorsa, fatalmente annoiato…
Senza rischi, senza l’indignazione per le ingiustizie, senza tentativi appassionati perché qualcosa “vada meglio”…
che vita sarebbe? Abbiamo tutti un gran bisogno di appartenenza a una realtà umana di cui essere elementi attivi, di contribuire a un lavoro di squadra che crei quei legami insostituibili tra persone che ben conosce chiunque abbia “faticato insieme” per raggiungere un obiettivo importante: in un’orchestra, in un’equipe medica…
In quest’ottica, come non avvertire un legame con l’intera umanità, sulla base delle esigenze, delle gioie, dei dolori e delle fatiche che condividiamo tutti, quel legame che il Cristiano vive come una vera e propria fratellanza? Il Cristiano ha una risorsa particolare: si sente sostenuto da Cristo risorto lungo il suo cammino; se sa di non poter cambiare il mondo con le proprie forze, si sente di affermare, con san Paolo: «Tutto posso, in Colui che mi dà forza».
La comunità dei credenti, la Chiesa, è chiamata a insegnare con l’esempio e la diffusione della Parola un amore illimitato per il mondo, patria e casa comune dei figli di Dio.
Come migliorarlo e curarlo, il mondo, se lo sentiamo casa nostra, abitato da tanti fratelli diversi per convinzioni e abitudini, ma uguali per esigenze e sentimenti “di base”? Abbiamo tutti bisogno di libertà e tenerezza, di cibo e di istruzione…
Possono sorgere in noi pressanti interrogativi.
Che cosa potrei fare per il coetaneo che è nato in una baraccopoli indiana, che è intelligente forse più di me, ma che non potrà mai avere un’opportunità? Cosa c’entro io con le guerre, la fame, il terrorismo? Occorrerà, per rispondere a domande come queste, • cercare, conoscere gli “operatori di giustizia” (pensiamo all’enorme lavoro dei missionari nel Terzo Mondo) per imitarli, capire le loro motivazioni, i mezzi che adoperano…
Sarà un’imitazione che dovrà nascere soprattutto da piccole occasioni quotidiane.
Ciò potrà voler dire leggere libri o articoli su grandi uomini, ma soprattutto cercare di comprendere a fondo l’amico più grande che nel tempo libero fa animazione tra i piccoli lungodegenti di un ospedale pediatrico, o semplicemente la propria mamma che ha instaurato un dialogo con l’immigrato, senza lavoro, che tenta di sopravvivere portando le buste della spesa fino all’auto dei clienti, al supermercato, sperando in qualche mancia… • Sarà essenziale, per aprirsi al mondo, considerare la diversità culturale e religiosa come occasione di dialogo e quindi di arricchimento reciproco, ricercando i valori condivisibili (sentimenti, comportamenti, idee) nel rispetto delle inevitabili divergenze, per poi costruire senza pregiudizi rapporti interpersonali che uniscano, nella ricerca di un bene comune…
Si inizia a cambiare il mondo partendo da se stessi, dilatando gli orizzonti del cuore.
Chi si rende conto del problema della fame può scegliere di evitare gli sprechi, chi riflette sulla sofferenza portata dalla guerra può diventare un costruttore di pace tra i suoi amici, chi prende coscienza del dramma dei poveri potrà entrare nel mondo del volontariato…
Terza fase dell’attività Gli insegnanti potranno impegnare la classe in uno dei seguenti laboratori interdisciplinari.
a) La classe si divide in gruppi.
Ogni gruppo dovrà inventare un racconto breve (a scelta realistico, fantastico, di fantascienza…) per esprimere una riflessione su un tema a scelta tra quelli proposti: – l’accoglienza del diverso; – l’importanza del dialogo; – l’importanza del senso di responsabilità.
Gli insegnanti potranno ipotizzare una valutazione comune dei racconti; l’insegnante di religione terrà conto soprattutto della “profondità di pensiero” nell’esprimere valori.
b) I gruppi inventeranno scenette della durata di cinque-dieci minuti sulle tematiche precedenti, “in positivo” (accoglienza e dialogo realizzati, un’assunzione di responsabilità…) oppure “in negativo” (dialogo fallito ecc.) La classe rifletterà così sui messaggi ricavati dalla drammatizzazione, sulle caratteristiche concrete dell’accoglienza, del dialogo e del senso di responsabilità.
La domanda – Come ci si può “auto-educare” alla mondialità? Oltre alle vie proposte, hai in mente altri comportamenti e scelte possibili? Quali risorse particolari e motivazioni possiede il Cristiano? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Seconda fase dell’attività Gli insegnanti propongono l’esperienza di una giovane donna, un esempio illuminante di amore per l’intera umanità.
2) L’infermiera Cristina 9 dicembre 1993.
Maria Cristina è al lavoro, puntuale e dolce come sempre, nel suo ambulatorio di Mogadiscio.
All’improvviso sulla porta si presenta un somalo con due pistole in pugno.
Pretende dei soldi.
L’infermiera non ne ha.
Per reazione e in preda a un raptus di follia, il bandito le scarica addosso 9 colpi.
La rosa dei proiettili colpisce in pieno la giovane volontaria.
Maria Cristina Luinetti stramazza a terra ferita gravemente.
Morirà poco dopo il ricovero nell’ospedale da campo.
Si chiudeva per sempre la felice parentesi africana di questa ragazza ventiquattrenne, dai lunghi capelli neri e dal sorriso incantevole.
Era arrivata in Somalia il 20 novembre come crocerossina, per salvare vite umane, “arruolata” in quel corpo speciale a carattere umanitario che è la Croce Rossa.
In cambio, lasciava su questa terra la sua vita e il rimpianto di un servizio generoso e sereno.
A giorni sarebbe tornata in Italia, felice di aver regalato energie e cure alle vittime della guerra tribale che insanguinava da mesi l’incantevole paese africano.
La sua non voleva essere una semplice avventura giovanile.
Era la risposta al profondo desiderio di aiutare chi soffre.
Il giorno prima della partenza da Cesate, un piccolo paese della cintura industriale milanese, per Mogadiscio aveva indirizzato alla zia Maria Rosa una lettera che sapeva di testamento.
Scriveva che in caso di un suo “ritorno in bara” non avrebbe voluto fiori e cerimonie ufficiali, ma solo una funzione religiosa e l’alta uniforme da crocerossina.
È stata accontentata.
Forse presentiva ciò che si è fatalmente verificato.
Il parroco don Carlo che la vedeva tutte le domeniche mattina a messa ricorda: «Era felice, entusiasta del compito che andava a svolgere in Africa.
Da tanto tempo aspettava questa occasione.
Cesate le andava un po’ stretta: il suo cuore, il suo desiderio di servire l’umanità richiedeva spazi più ampi».
Questi spazi li ha trovati nella terra sabbiosa e assolata di Mogadiscio.
Avrebbe voluto incontrarli anche in una seconda tappa, in Mozambico, dove sarebbe andata dopo questa prima missione ufficiale.
Non ha fatto in tempo.
I colpi di pistola di uno squilibrato hanno spento per sempre la sua voglia di rendersi utile agli altri.
Il volontariato era la passione di Maria Cristina, un’autentica vocazione: «Voleva andare ad aiutare la gente, non parlava d’altro», ripete oggi il fratello Massimiliano, 22 anni.
Un ideale che le era cresciuto dentro molto presto.
A quindici anni, il tempo in cui normalmente le ragazze pensano al divertimento e alla bella vita, Maria Cristina decide di diventare crocerossina.
Una scelta che orienta sempre di più il suo futuro.
In attesa di realizzare il suo sogno, alterna gli studi di danza e di informatica a quelli da infermiera e alla pratica: lascia la sua abitazione e si trasferisce a casa del nonno novantenne, infermo e bisognoso di attenzioni e di cure.
Nel giugno 1992 ottiene il diploma di infermiera volontaria.
Passa l’estate nell’ospedale di Saronno, in quell’anticamera di emergenze e dolore che è il Pronto soccorso.
Ha fretta di imparare al meglio la professione per ottenere quanto prima il visto di partenza per le frontiere più difficili.
Le viene concesso nel novembre 1993.
Un visto per un biglietto di andata senza ritorno.
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