«Fare mondi»

I lavori artistici provengono da circa settanta nazioni e si avvalgono di tutti i linguaggi:  installazioni, video e film, sculture, pittura e disegno, performance.
Nelle intenzioni della mostra c’è quest’anno la volontà di creare “nuove realtà artistiche” e questo serve a spiegare in parte l’enfasi data al processo creativo e all’opera nel suo divenire.
Molti artisti appartengono a differenti generazioni.
Tra loro sono stati riproposti personaggi come André Cadere, Öyvind Fahlström, Gordon Matta-Clark, Yoko Ono, Blinky Palermo e Lygia Pape.
In qualche modo alcuni di loro difendono ancora la propria avanguardia.
Come nel caso eclatante delle sale di specchi in cornici barocche con cui Michelangelo Pistoletto ha rinnovato il violento impatto visivo del suo debutto giovanile.
 Molte delle presenze citate dimostrano quanto sia necessario il confronto tra generazioni e quanto, per gli artisti più giovani, sia utile riflettere sulle radici della propria ricerca.
Secondo i comunicati stampa, la cinquantatreesima edizione si avvarrebbe di importanti miglioramenti “strutturali” che riguardano i siti sparsi tra i padiglioni delle varie nazioni ai Giardini, all’Arsenale e in giro per Venezia.
Ma la tentazione del mugugno per quanto riguarda il Padiglione Italia, trasferito all’interno dell’Arsenale dalla sua sede storica situata al centro dei Giardini, appare motivata.
Il Padiglione Italia è stato ricreato in periferia.
Per raggiungerlo bisogna conquistarsi un moto-taxi perché, come si sa, la struttura dell’Arsenale è di 14.000 metri quadrati, faticosissima da percorrere.
Certo, se si riesce a visitarlo a mente fresca e gambe riposate, l’impatto può essere emozionante.
Un po’ come ritrovarsi all’improvviso tra le quinte di un grande teatro o sul set di un regista pazzo che stia giocando tutte le proprie carte in un film senza copione e senza attori.
Come riferisce il presidente della Biennale Paolo Baratta:  “Fino a pochi mesi fa l’edificio chiamato Padiglione Italia altro non era che un grande contenitore che la Biennale restituiva vuoto al termine di ogni mostra.
Grazie a un accordo col Comune di Venezia la Biennale ha acquisito in concessione l’edificio con parte dei giardini e ne potrà così disporre continuativamente.
Per la prima volta la Biennale ha finalmente una sede dove poter sviluppare le attività permanenti al lato dei festival e delle grandi mostre”.
La nuova destinazione dell’ex Padiglione Italia, avrà motivazioni rispettabili, ma la domanda resta:  gli spazi ai Giardini sono o non sono da considerarsi privilegiati? Come sanno bene i visitatori abituali della kermesse, alla Biennale i luoghi da visitare non sono soltanto ai Giardini o all’Arsenale, ma anche in molti altri spazi in giro per tutta Venezia.
Da Palazzo Grassi al Guggenheim, alla Fondazione Bevilacqua La Masa, dove quest’anno si è rivista Rebecca Horn con una suggestiva e metafisica installazione intitolata Fata Morgana, o persino al Caffè Florian, riarredato dalle eleganti opere di Marco Tirelli.
Dopo aver visitato installazioni e video, chilometri di quadri e sculture monumentali (come l’omaggio a Pietro Cascella) opere dissacranti di artisti che rimestano nel torbido per esorcizzare i propri fantasmi, viene spontaneo chiedersi quale potrebbe essere il comune denominatore di questa Biennale.
Sembra quasi che in ogni parte del mondo l’artista più che “fare”, abbia vissuto il mutamento in atto.
Il divenire delle cose “nel fare mondi” appare in pochi, preziosi istanti della metamorfosi.
Non tutti sono consapevoli che si sta tornando a un tempo che vive l’inganno e il disinganno in cui sinonimi del “mondo” sono la fantasia e il nulla.
Si sta tornando all’epoca delle “vanità”, alla consapevolezza di quanto illusoria sia la cosa dipinta.
Forse non è un caso che i temi rappresentati dall’estetica barocca in cui la figurazione della morte è sempre presente nelle vanitates, siano più o meno consapevolmente rappresentati nei linguaggi artistici, in varie parti del mondo.
Forse questo particolare sentimento dell’arte nasce dall’incertezza di tutte le cose, dall’instabilità del reale, dalla relatività dei rapporti.
E pare singolare che il tema svolto con diligenza da tanti artisti diversi sia così pieno di sfumature contrastanti, di dialettiche cariche di luci e ombre, che accolgono in sé il senso della trasformazione.
Ciò che appare più evidente nell’arte di oggi è quella forza che tende a frantumare le forme, al di là dei limiti del tempo e dello spazio, in attesa di ricomporle, con furore, in un nuovo significato.
Quanti esempi si possono fare per questa sorta di “post barocco”? A cominciare dal Palazzo delle Esposizioni con l’installazione di Nathalie Djurberg, The experiment, in cui lo spettatore attraversa una vegetazione mostruosa che introduce alla visione di un video inutilmente provocatorio e che fa scadere l’invenzione gioiosa dell’installazione.
Per non parlare di quella sorta di “vita e passione di Cristo” rivisitata e corretta da colori ammiccanti e violenti che sanno impastare velleità e false buone intenzioni con una spiritualità d’accatto.
Ciò nonostante tra un padiglione e l’altro risaltano alcuni nomi attraverso la forte presenza delle loro opere, come Tomas Saraceno che con Galaxy forming along filaments “crea mondi” graffiati nell’aria, in assoluto contrasto con la pittura dello spagnolo Miquel Barceló, che in una mostra antologica presenta opere materiche dal forte impatto espressionista, sempre oscillante tra una volontà di astrazione – come quelle sul tema del mare – e la tentazione di immagini figurative, come il ciclo legato all’Africa.
Più elegante e raffinata appare la presenza dell’olandese Fiona Tan, che con il video A lapse of memory propone immagini che alludono ai resoconti di Marco Polo assieme a ritratti fissati sullo schermo del video, come foto incorniciate, che a distanza di tempo si muovono impercettibilmente, creando nello spettatore un effetto di spaesamento.
Altrettanto forte la presenza di Grazia Toderi, che proietta su schermi giganti stralunati notturni di città che sembrano in attesa dell’Apocalisse.
Apocalisse di cui si può avere un assaggio durante i primi giorni della Biennale, in cui Venezia è ostaggio del frenetico rincorrersi degli eventi mondani.
La speranza torna quando si incontra un artista come Gerry Fox che ci regala un’emozione visitando Palazzo Donà delle Rose.
Nell’atrio buio del palazzo si assiste a una multivisione proiettata su sei schermi giganti.
Il titolo Venice in Venice preannuncia una sequenza di luoghi e situazioni contrastanti.
In soli otto minuti veniamo circondati da maschere di carnevale, dai superbi personaggi del ballo del Doge, dallo splendore sontuoso della regata storica, dalle immagini familiari dei divi del festival del cinema, dal popolo dei mercati della frutta e del pesce a Rialto, dall’alternarsi delle maree che impongono ai veneziani di muoversi al rallentatore con le gambe nell’acqua.
Tre anni ci sono voluti per realizzare questo filmato che ci mostra l’illusorietà del  tempo,  dando  allo  spettatore  la  percezione  della  morte nella massima pienezza della vita.
Forse non è un caso che Gerry Fox non è solo un artista ma è soprattutto un regista che  conosce gli umili segreti del proprio mestiere.
Qualcuno ha detto che l’arte del nostro tempo è contaminata dai nonsense e dal gusto del gioco e del divertimento, ma forse basterebbe fermarsi un po’ più a lungo di fronte all’opera per scoprire cosa nasconda quest’apparente fiera delle vanità.
(©L’Osservatore Romano – 10 giugno 2009) Una Biennale di Venezia finalmente pensata dalla parte degli artisti, perché un’opera deve considerarsi qualcosa di più di un oggetto mercificabile.
A idearla è stato Daniel Birnbaum, uno dei più giovani e preparati curatori oggi sulla piazza.
Nato nel 1963 a Stoccolma, Birnbaum è, dal 2001, rettore dell’Accademia di Francoforte sul Meno in cui riesce a conciliare l’insegnamento dell’arte contemporanea con la sperimentazione e la ricerca di aspiranti artisti.
Secondo Birnbaum l’opera può essere vista come un modo di “costruire un mondo”.
Il titolo a cui i novanta artisti invitati si sono ispirati per costruire le proprie opere è infatti, non a caso, “Fare mondi/Making wolds”. 

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