Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell’Athos.
Perchè lì sono cose d’altri tempi.
Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo.
Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole.
E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l’Athos più vive e più palpita.
Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio.
Non è per tutti.
Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani.
L’ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa.
Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata.
A nulla le valse d’esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli.
Entrata in un monastero dell’Athos, un’icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna.
Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna.
Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo.
Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all’ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi.
La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia.
Il quale è sempre severo nel tutelare l’extraterritorialità dell’Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d’un lasciapassare.
Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo.
E pochissimi sono i visti d’ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine.
Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d’imbarco.
Perché nell’Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo.
Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo.
Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell’Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d’incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell’autobus e una trattoria.
C’è anche un telefono pubblico, che ha tutta l’aria d’essere il primo e l’ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti.
Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti.
Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz’ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao.
Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori.
Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo.
L’Athos è per tempre forti, ascetiche.
Da subito vi torchia.
Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c’è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l’uno e l’altro ci sono ore di cammino.
Il pellegrinare è d’obbligo.
GRANDE LAVRA Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso.
La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna.
Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto.
Ricompare come l’angelo dell’Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz’ora, ristorandovi con un bicchier d’acqua fresca, un bicchierino di liquor d’anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato.
È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti.
Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l’asciugamano.
Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare.
I monasteri dell’Athos non sono come quelli d’Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva.
Sull’Athos c’è di tutto e per tutti.
C’è l’eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta.
Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna.
Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti.
Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno.
Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po’ a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi.
Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini.
Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale.
Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese.
Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s’avviano al katholikón, la chiesa centrale.
Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella.
Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche.
Al vespero accorre impaziente.
Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno.
Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C’è profumo d’Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra.
C’è aroma di cipresso e d’incenso, fragranza di cera d’api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime.
Perchè i monaci dell’Athos non patiscono il tempo.
Vi parlano dei loro santi, di quel sant’Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell’anno 1000 ma appena ieri, come se l’avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza.
Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d’oro e d’argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo.
La luce del tramonto li accende, li fa vibrare.
E s’accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell’iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch’esso l’architettura di una chiesa ed è anch’esso tutto affrescato dal grande Teofane.
È la stessa liturgia che continua.
L’igúmeno prende posto al centro dell’abside.
Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi.
Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria.
Anche l’uscita avviene in processione.
Un monaco porge a ciascuno del pane santificato.
Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi.
Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane.
Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio.
E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall’Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato.
E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente.
Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell’Athos.
Ma poi è venuta la sferza purificatrice d’un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica.
Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti.
Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l’aristocrazia dell’Athos.
Dice solenne l’igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: “L’Athos è unico.
È il solo Stato monastico al mondo”.
Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev’essere sublime.
Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero.
Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste.
Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell’Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un’iconostasi fulgentissima d’ori e d’icone.
Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi.
E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose.
Sembra volare, come le note.
E poi le luci.
C’è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa.
Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch’esso parte del rito.
In ogni katholikón dell’Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa.
La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione.
Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all’iconostasi che delimita il sancta sanctorum.
Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c’è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse.
Almeno un’ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi.
Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l’onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell’Athos.
Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d’iniziare a simili misteri e d’infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d’oggi.
All’Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d’umanizzare Dio, le Chiese d’Occidente lo fanno sparire.
“Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale”, sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu.
“Un Dio che non deifichi l’uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno.
È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell’ondata di ateismo in Occidente”.
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell’altro monastero di Ivíron: “In Occidente comanda l’azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla.
Rispondo: cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce.
Così il monaco.
Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio.
È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora.
Siamo nel cuore della comunione dei santi”.
SIMONOS PETRA Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita.
Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell’Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio.
Eliseo, l’igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia.
Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano.
Ma giudica la Chiesa occidentale troppo “prigioniera di un sistema”, troppo “istituzionale”.
L’Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici.
All’Athos “il logos si sposa alla praxis”, la parola ai fatti.
“Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà.
Vivere il Vangelo in modo perfetto.
Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo.
Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci”.
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell’Athos.
Ha dato vita a un monastero per monache, un’ottantina, nel cuore della penisola Calcidica.
Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria.
E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia.
È un monastero colto, dotato d’una ricca biblioteca.
A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne.
Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche.
Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato.
A Dafne si risale sul traghetto.
Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani.
La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un’apparizione.
Con la folgorante bellezza d’una Nike di Samotracia.
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