Dopo il concilio Vaticano ii la Chiesa non può accontentarsi della semplice collaborazione dei laici ma deve promuoverne un’effettiva corresponsabilità.
Lo ha ricordato Benedetto XVI, martedì pomeriggio 26 maggio, nella basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione dell’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma.
Signor Cardinale, venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari religiosi e religiose, cari fratelli e sorelle! Seguendo una ormai felice consuetudine, sono lieto di aprire anche quest’anno il Convegno diocesano pastorale.
A ciascuno di voi, che qui rappresentate l’intera comunità diocesana, rivolgo con affetto il mio saluto e un sentito ringraziamento per il lavoro pastorale che svolgete.
Per vostro tramite, estendo a tutte le parrocchie il mio saluto cordiale con le parole dell’apostolo Paolo: “A quanti sono in Roma, diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Rm 1, 7).
Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario per le incoraggianti parole che mi ha rivolto, facendosi interprete dei vostri sentimenti, e per l’aiuto che, unitamente ai Vescovi Ausiliari, mi offre nel quotidiano servizio apostolico a cui il Signore mi ha chiamato come Vescovo di Roma.
È stato appena ricordato che, nel corso del passato decennio, l’attenzione della Diocesi si è concentrata per tre anni inizialmente sulla famiglia; poi, per un successivo triennio, sull’educazione alla fede delle nuove generazioni, cercando di rispondere a quella “emergenza educativa”, che è per tutti una sfida non facile; e da ultimo, sempre con riferimento all’educazione, sollecitati dalla Lettera enciclica Spe salvi, avete preso in considerazione il tema dell’educare alla speranza.
Mentre ringrazio con voi il Signore del tanto bene che ci ha dato di compiere – penso in particolare ai parroci e ai sacerdoti che non si risparmiano nel guidare le comunità loro affidate – desidero esprimere il mio apprezzamento per la scelta pastorale di dedicare tempo ad una verifica del cammino percorso, con lo scopo di mettere a fuoco, alla luce dell’esperienza vissuta, alcuni ambiti fondamentali della pastorale ordinaria, al fine di meglio precisarli, e renderli più condivisi.
A fondamento di questo impegno, al quale attendete già da alcuni mesi in tutte le parrocchie e nelle altre realtà ecclesiali, ci deve essere una rinnovata presa di coscienza del nostro essere Chiesa e della corresponsabilità pastorale che, in nome di Cristo, tutti siamo chiamati ad esercitare.
E proprio su questo aspetto vorrei ora soffermarmi.
Il Concilio Vaticano ii, volendo trasmettere pura e integra la dottrina sulla Chiesa maturata nel corso di duemila anni, ha dato di essa “una più meditata definizione”, illustrandone anzitutto la natura misterica, cioè di “realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni” (Paolo vi, Discorso di apertura della seconda sessione, 29 settembre 1963).
Orbene, la Chiesa, che ha origine nel Dio trinitario, è un mistero di comunione.
In quanto comunione, la Chiesa non è una realtà soltanto spirituale, ma vive nella storia, per così dire, in carne e ossa.
Il Concilio Vaticano ii la descrive “come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1).
E l’essenza del sacramento è proprio che si tocca nel visibile l’invisibile, che il visibile toccabile apre la porta a Dio stesso.
La Chiesa, abbiamo detto, è una comunione, una comunione di persone che, per l’azione dello Spirito Santo, formano il Popolo di Dio, che è al tempo stesso il Corpo di Cristo.
Riflettiamo un po’ su queste due parole-chiave.
Il concetto “Popolo di Dio” è nato e si è sviluppato nell’Antico Testamento: per entrare nella realtà della storia umana, Dio ha eletto un popolo determinato, il popolo di Israele, perché sia il suo popolo.
L’intenzione di questa scelta particolare è di arrivare, per il tramite di pochi, ai molti, e dai molti a tutti.
L’intenzione, con altre parole, dell’elezione particolare è l’universalità.
Per il tramite di questo Popolo, Dio entra realmente in modo concreto nella storia.
E questa apertura all’universalità si è realizzata nella croce e nella risurrezione di Cristo.
Nella croce Cristo, così dice San Paolo, ha abbattuto il muro di separazione.
Dandoci il suo Corpo, Egli ci riunisce in questo suo Corpo per fare di noi una cosa sola.
Nella comunione del “Corpo di Cristo” tutti diventiamo un solo popolo, il Popolo di Dio, dove – per citare di nuovo san Paolo – tutti sono una cosa sola e non c’è più distinzione, differenza, tra greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro, scita, schiavo, ebreo, ma Cristo è tutto in tutti.
Ha abbattuto il muro della distinzione di popoli, di razze, di culture: tutti siamo uniti in Cristo.
Così vediamo che i due concetti – “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” – si completano e formano insieme il concetto neotestamentario di Chiesa.
E mentre “Popolo di Dio” esprime la continuità della storia della Chiesa, “Corpo di Cristo” esprime l’universalità inaugurata nella croce e nella risurrezione del Signore.
Per noi cristiani, quindi, “Corpo di Cristo” non è solo un’immagine, ma un vero concetto, perché Cristo ci fa il dono del suo Corpo reale, non solo di un’immagine.
Risorto, Cristo ci unisce tutti nel Sacramento per farci un unico corpo.
Quindi il concetto “Popolo di Dio” e “Corpo di Cristo” si completano: in Cristo diventiamo realmente il Popolo di Dio.
E “Popolo di Dio” significa quindi “tutti”: dal Papa fino all’ultimo bambino battezzato.
La prima Preghiera eucaristica, il cosiddetto Canone romano scritto nel iv secolo, distingue tra servi – “noi servi tuoi” – e “plebs tua sancta”; quindi, se si vuol distinguere, si parla di servi e plebs sancta, mentre il termine “Popolo di Dio” esprime tutti insieme nel loro comune essere la Chiesa.
All’indomani del Concilio questa dottrina ecclesiologica ha trovato vasta accoglienza, e grazie a Dio tanti buoni frutti sono maturati nella comunità cristiana.
Dobbiamo però anche ricordare che la recezione di questa dottrina nella prassi e la conseguente assimilazione nel tessuto della coscienza ecclesiale, non sono avvenute sempre e dovunque senza difficoltà e secondo una giusta interpretazione.
Come ho avuto modo di chiarire nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre del 2005, una corrente interpretativa, appellandosi ad un presunto “spirito del Concilio”, ha inteso stabilire una discontinuità e addirittura una contrapposizione tra la Chiesa prima e la Chiesa dopo il Concilio, travalicando a volte gli stessi confini oggettivamente esistenti tra il ministero gerarchico e le responsabilità dei laici nella Chiesa.
La nozione di “Popolo di Dio”, in particolare, venne da alcuni interpretata secondo una visione puramente sociologica, con un taglio quasi esclusivamente orizzontale, che escludeva il riferimento verticale a Dio.
Posizione, questa, in aperto contrasto con la parola e con lo spirito del Concilio, il quale non ha voluto una rottura, un’altra Chiesa, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre identico, unico soggetto del Popolo di Dio in pellegrinaggio.
In secondo luogo, va riconosciuto che il risveglio di energie spirituali e pastorali nel corso di questi anni non ha prodotto sempre l’incremento e lo sviluppo desiderati.
Si deve in effetti registrare in talune comunità ecclesiali che, ad un periodo di fervore e di iniziativa, è succeduto un tempo di affievolimento dell’impegno, una situazione di stanchezza, talvolta quasi di stallo, anche di resistenza e di contraddizione tra la dottrina conciliare e diversi concetti formulati in nome del Concilio, ma in realtà opposti al suo spirito e alla sua lettera.
Anche per questa ragione, al tema della vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, è stata dedicata l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi nel 1987.
Questo fatto ci dice che le luminose pagine dedicate dal Concilio al laicato non erano ancora state sufficientemente tradotte e realizzate nella coscienza dei cattolici e nella prassi pastorale.
Da una parte esiste ancora la tendenza a identificare unilateralmente la Chiesa con la gerarchia, dimenticando la comune responsabilità, la comune missione del Popolo di Dio, che siamo in Cristo noi tutti.
Dall’altra, persiste anche la tendenza a concepire il Popolo di Dio come ho già detto, secondo un’idea puramente sociologica o politica, dimenticando la novità e la specificità di quel popolo che diventa popolo solo nella comunione con Cristo.
Cari fratelli e sorelle, viene ora da domandarsi: la nostra Diocesi di Roma a che punto sta? In che misura viene riconosciuta e favorita la corresponsabilità pastorale di tutti, particolarmente dei laici? Nei secoli passati, grazie alla generosa testimonianza di tanti battezzati che hanno speso la vita per educare alla fede le nuove generazioni, per curare gli ammalati e soccorrere i poveri, la comunità cristiana ha annunciato il Vangelo agli abitanti di Roma.
Questa stessa missione è affidata a noi oggi, in situazioni diverse, in una città dove non pochi battezzati hanno smarrito la via della Chiesa e quelli che non sono cristiani non conoscono la bellezza della nostra fede.
Il Sinodo Diocesano, voluto dal mio amato predecessore Giovanni Paolo ii, è stato un’effettiva receptio della dottrina conciliare, e il Libro del Sinodo ha impegnato la Diocesi a diventare sempre più Chiesa viva e operosa nel cuore della città, attraverso l’azione coordinata e responsabile di tutte le sue componenti.
La Missione cittadina, che ne seguì in preparazione al Grande Giubileo del 2000, ha consentito alla nostra comunità ecclesiale di prendere coscienza del fatto che il mandato di evangelizzare non riguarda solo alcuni ma tutti i battezzati.
È stata una salutare esperienza che ha contribuito a far maturare nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nelle associazioni e nei movimenti la consapevolezza di appartenere all’unico Popolo di Dio, che – secondo le parole dell’apostolo Pietro – “Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui” (1 Pt 2, 9).
E di ciò questa sera vogliamo rendere grazie.
Molta strada tuttavia resta ancora da percorrere.
Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi.
Pochi sono ancora i laici, in proporzione al numero degli abitanti di ciascuna parrocchia che, pur professandosi cattolici, sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici.
Certo, non mancano le difficoltà di ordine culturale e sociale, ma, fedeli al mandato del Signore, non possiamo rassegnarci alla conservazione dell’esistente.
Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo riprendere con rinnovata lena il cammino.
Quali vie possiamo percorrere? Occorre in primo luogo rinnovare lo sforzo per una formazione più attenta e puntuale alla visione di Chiesa della quale ho parlato, e questo da parte tanto dei sacerdoti quanto dei religiosi e dei laici.
Capire sempre meglio che cosa è questa Chiesa, questo Popolo di Dio nel Corpo di Cristo.
È necessario, al tempo stesso, migliorare l’impostazione pastorale, così che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell’insieme di tutti i membri del Popolo di Dio.
Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli “collaboratori” del clero a riconoscerli realmente “corresponsabili” dell’essere e dell’agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato.
Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere Chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci.
Tocca proprio a voi, cari parroci, promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri.
Affinché tali comunità, anche se qualche volta numericamente piccole, non smarriscano la loro identità e il loro vigore, è necessario che siano educate all’ascolto orante della Parola di Dio, attraverso la pratica della lectio divina, ardentemente auspicata dal recente Sinodo dei Vescovi.
Nutriamoci realmente dell’ascolto, della meditazione della Parola di Dio.
A queste nostre comunità non deve venir meno la consapevolezza che sono “Chiesa” perché Cristo, Parola eterna del Padre, le convoca e le fa suo Popolo.
La fede, infatti, è da una parte una relazione profondamente personale con Dio, ma possiede una essenziale componente comunitaria e le due dimensioni sono inseparabili.
Potranno così sperimentare la bellezza e la gioia di essere e di sentirsi Chiesa anche i giovani, che sono maggiormente esposti al crescente individualismo della cultura contemporanea, la quale comporta come inevitabili conseguenze l’indebolimento dei legami interpersonali e l’affievolimento delle appartenenze.
Nella fede in Dio siamo uniti nel Corpo di Cristo e diventiamo tutti uniti nello stesso Corpo e così, proprio credendo profondamente, possiamo esperire anche la comunione tra di noi e superare la solitudine dell’individualismo.
Se è la Parola a convocare la Comunità, è l’Eucaristia a farla essere un corpo: “Poiché c’è un solo pane – scrive san Paolo -, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).
La Chiesa dunque non è il risultato di una somma di individui, ma un’unità fra coloro che sono nutriti dall’unica Parola di Dio e dall’unico Pane di vita.
La comunione e l’unità della Chiesa, che nascono dall’Eucaristia, sono una realtà di cui dobbiamo avere sempre maggiore consapevolezza, anche nel nostro ricevere la santa comunione, sempre più essere consapevoli che entriamo in unità con Cristo e così diventiamo noi, tra di noi, una cosa sola.
Dobbiamo sempre nuovamente imparare a custodire e difendere questa unità da rivalità, da contese e gelosie che possono nascere nelle e tra le comunità ecclesiali.
In particolare, vorrei chiedere ai movimenti e alle comunità sorti dopo il Vaticano ii, che anche all’interno della nostra Diocesi sono un dono prezioso di cui dobbiamo sempre ringraziare il Signore, vorrei chiedere a questi movimenti, che ripeto sono un dono, di curare sempre che i loro itinerari formativi conducano i membri a maturare un vero senso di appartenenza alla comunità parrocchiale.
Centro della vita della parrocchia, come ho detto, è l’Eucaristia, e particolarmente la Celebrazione domenicale.
Se l’unità della Chiesa nasce dall’incontro con il Signore, non è secondario allora che l’adorazione e la celebrazione dell’Eucaristia siano molto curate, dando modo a chi vi partecipa di sperimentare la bellezza del mistero di Cristo.
Dato che la bellezza della liturgia “non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce” (Sacramentum caritatis n.
35), è importante che la Celebrazione eucaristica manifesti, comunichi, attraverso i segni sacramentali, la vita divina e riveli agli uomini e alle donne di questa città il vero volto della Chiesa.
La crescita spirituale ed apostolica della comunità porta poi a promuoverne l’allargamento attraverso una convinta azione missionaria.
Prodigatevi pertanto a ridar vita in ogni parrocchia, come ai tempi della Missione cittadina, ai piccoli gruppi o centri di ascolto di fedeli che annunciano Cristo e la sua Parola, luoghi dove sia possibile sperimentare la fede, esercitare la carità, organizzare la speranza.
Questo articolarsi delle grandi parrocchie urbane attraverso il moltiplicarsi di piccole comunità permette un respiro missionario più largo, che tiene conto della densità della popolazione, della sua fisionomia sociale e culturale, spesso notevolmente diversificata.
Sarebbe importante se questo metodo pastorale trovasse efficace applicazione anche nei luoghi di lavoro, oggi da evangelizzare con una pastorale di ambiente ben pensata, poiché per l’elevata mobilità sociale la popolazione vi trascorre gran parte della giornata.
Infine, non va dimenticata la testimonianza della carità, che unisce i cuori e apre all’appartenenza ecclesiale.
Alla domanda come si spieghi il successo del Cristianesimo dei primi secoli, l’ascesa da una presunta setta ebrea alla religione dell’Impero, gli storici rispondono che fu particolarmente l’esperienza della carità dei cristiani che ha convinto il mondo.
Vivere la carità è la forma primaria della missionarietà.
La Parola annunciata e vissuta diventa credibile se si incarna in comportamenti di solidarietà, di condivisione, in gesti che mostrano il volto di Cristo come di vero Amico dell’uomo.
La silenziosa e quotidiana testimonianza della carità, promossa dalle parrocchie grazie all’impegno di tanti fedeli laici, continui ad estendersi sempre di più, perché chi vive nella sofferenza senta vicina la Chiesa e sperimenti l’amore del Padre, ricco di misericordia.
Siate, dunque, “buoni samaritani” pronti a curare le ferite materiali e spirituali dei vostri fratelli.
I diaconi, conformati con l’ordinazione a Cristo servo, potranno svolgere un utile servizio nel promuovere una rinnovata attenzione verso le vecchie e le nuove forme di povertà.
Penso inoltre ai giovani: carissimi, vi invito a porre a servizio di Cristo e del Vangelo il vostro entusiasmo e la vostra creatività, facendovi apostoli dei vostri coetanei, disposti a rispondere generosamente al Signore, se vi chiama a seguirlo più da vicino, nel sacerdozio o nella vita consacrata.
Cari fratelli e sorelle, il futuro del cristianesimo e della Chiesa a Roma dipende anche dall’impegno e dalla testimonianza di ciascuno di noi.
Invoco per questo la materna intercessione della Vergine Maria, venerata da secoli nella Basilica di Santa Maria Maggiore come Salus populi romani.
Come fece con gli Apostoli nel Cenacolo in attesa della Pentecoste, accompagni anche noi e ci incoraggi a guardare con fiducia al domani.
Con questi sentimenti, mentre vi ringrazio per il vostro diuturno lavoro, imparto di cuore a tutti una speciale Benedizione Apostolica.
(©L’Osservatore Romano – 28 maggio 2009)
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