L’intento è mostrare alcuni concetti fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione sul “culturalmente altro” (molte le sorprese per il lettore non specialista: dal Kant precursore di Hitler nel teorizzare la superiorità delle razze pure a un Voltaire affascinato dalla Sacra Scrittura) per superare lo stallo di una sterile retorica delle differenze, che celebra acriticamente la fine delle identità e un “miscuglio culturale, che, non si capisce per quale motivo, dovrebbe essere per tutti automaticamente liberante”.
“Questo fatto non deve essere equivocato.
Da processo in atto – scrive Gomarasca – il meticciato non può in alcun modo diventare una strategia politica paragonabile a quella peraltro rivelatasi fallimentare del multiculturalismo; oltre tutto, il fenomeno della mescolanza non sempre avviene in modo pacifico.
Ciò che è umanamente decisivo non è che le persone e le culture si mescolino – cosa del tutto contingente – bensì il fatto che tra persone e culture si stabiliscano relazioni di riconoscimento reciproco.
Riconoscimento che, quando manca, disumanizza persone e culture.
Si tratta allora di capire se i luoghi dove concretamente si genera il bene del riconoscimento sono in grado di ospitare processi di meticciato che ne arricchiscono l’intrinseco potenziale relazionale”.
Se le culture sono in contatto (e, storicamente, lo sono sempre state, anche se con diverse modalità di interazione e integrazione) ciò significa che il meticciato è una metafora che tocca un punto antropologico fondamentale: l’essere del soggetto umano non è chiuso in se stesso ma costitutivamente aperto al legame con l’altro.
È a questo punto che l’autore introduce il concetto di “filiazione”, “una questione troppo delicata per essere lasciata totalmente nelle nostre mani”.
Per questo “vale la pena di lasciarsi istruire dal testo biblico, il racconto della torre di Babele”.
Abitualmente citato come metafora della fiera delle differenze culturali, l’episodio biblico di Babele va visto – come spiega bene Derrida – come una questione paterna.
Del resto già Voltaire si chiese, con un certo stupore, come mai nessuno si fosse accorto che Babele non vuole soltanto dire confusione, ma anche padre, più precisamente il nome di Dio come nome di padre.
“Se questo è vero, allora dobbiamo dire che quando Dio punisce gli uomini imponendo a tutti la confusione, impone anche il suo nome di padre”.
Che significa? Derrida sembra cogliere la finezza del racconto e, infatti, si chiede: perché Dio punisce i costruttori della torre? Per aver voluto costruire fino all’altezza dei cieli? È molto probabile, ma anche “per aver voluto “farsi un nome”, scegliersi il proprio nome, costruirlo da sé”.
L'”auto-nominazione” di Derrida assomiglia all’auto-riconoscimento dello spirito assoluto descritto da Hegel; è insomma la pretesa di mettersi al posto dell’origine per non dover dipendere, per non dover riconoscere che esistiamo in relazione agli altri.
“Ciò equivale – continua Gomarasca – al colonialismo: in fondo i costruttori delle terre vogliono riunire tutti gli uomini in un solo nome, in una lingua universale perché univoca, perfettamente trasparente.
Quando Dio impone e oppone loro il proprio nome, rompe la trasparenza razionale, ma interrompe anche la violenza colonialista o l’imperialismo linguistico.
Li destina alla traduzione”.
La proibizione dell’univocità è dunque un gesto paterno di protezione che ci ripara dalla violenza dell’auto-nominazione, senza però lasciarci in balìa dell’equivoco: l’universale c’è, ma, fortunatamente, non è esclusiva proprietà di nessuno.
La traduzione è allora l’unica strada per essere autenticamente figli, eredi di un nome che è proprio per ciascuno solo in quanto è ricevuto.
“È quindi facile immaginare che, traducendosi, i mondi di vita particolari – fatti di persone, lingue, culture – potrebbero anche “meticciarsi” scoprendo inaspettate zone di contatto e di sovrapposizione.
Del resto niente di ciò che è proprio, secondo una dinamica di filiazione, può mai equivalere all’esclusivo, nel senso dell’escludere l’altro”.
L’auspicio, conclude Gomarasca, è che questi possibili esiti “esproprianti” ci ricordino con maggiore evidenza la nostra origine comune e la convenienza umana di continuare a tradurre; con Babele Dio, sembra suggerire l’autore, ha regalato all’uomo la bellezza complessa e dialogica di un mondo polifonico per salvarlo da uno sterile (e alla lunga noioso) ruolo da solista.
(©L’Osservatore Romano – 22-23 maggio 2009) Attenzione al vuoto che si nasconde dietro gli slogan, alla retorica di una tolleranza che, come l’etimologia del termine stesso suggerisce, implica il rischio di tollerare l’altro senza un reale desiderio di incontrarlo; lo scopo del libro Meticciato: convivenza o confusione di Paolo Gomarasca (Venezia, Marcianum press, 2009, pagine 216, euro 20) è ripensare il processo di incontro e fusione di culture diverse – tema centrale del progetto Oasis lanciato nel settembre 2004 dal patriarca di Venezia Angelo Scola – non limitandosi a descrivere a livello storiografico la genesi di un fenomeno che ha cambiato il volto a interi continenti (l’esempio più significativo resta sempre il métissage del Nuovo Mondo) ma individuando le categorie antropologiche che possono contribuire a rivelarne le reali potenzialità.
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