M i ha sempre affascinato, nella vita degli assi del ciclismo, il loro precoce senso di predestinazione.
Fin dalla più tenera infanzia, sanno che un giorno diventeranno campioni.
Hanno dei sogni, delle visioni.
Già all’età di sei, otto o dieci anni, ciascuno di loro sa che diventerà un fuoriclasse, e che un giorno vincerà la Milano-Sanremo, il Giro d’Italia, la Parigi-Roubaix, il Tour de France, una Sei Giorni.
Ciascuno di loro, all’età di sei, otto anni, sa già che avrà un rivale, un nemico fraterno.
Ogni Oreste, prima ancora di inforcare la prima bicicletta, sa già che avrà il suo Pilade.
Ogni Girardengo sa che avrà il suo Ganna, ogni Binda il suo Guerra, ogni Bartali il suo Coppi.
Ma Gino Bartali non è come tutti gli altri.
A sei anni non solo aveva, come gli altri, dei sogni e delle visioni: sentiva anche delle «voci».
Il buon Gino si arrabbia se gli si parla dei suoi buoni rapporti di amicizia, o forse farei meglio a definirli di buon vicinato, con i santi del paradiso.
Gino Bartali si arrabbia quando gli si ricorda con discrezione la sua cuginanza con gli angeli del cielo, cosa di cui parla sempre, in ogni momento, a ogni colpo di pedale.
Quando discretamente si allude alla sua madrina, voglio dire alla Santa Vergine.
Gino si arrabbia quando gli si dice che a dargli una mano sul Galibier, nel 1948, probabilmente è stata la Madonna, o santa Rita da Cascia, oppure è stato il suo zietto san Cristoforo.
Gino diventa rosso di collera quando si sente chiedere se è vero che il Santo Padre gli ha predetto per l’anno 1949 una magnifica serie di vittorie, a condizione che egli si confessi e si comunichi ogni settimana.
Perché la fede di Gino è sincera e ardente, e lui non ama essere preso in giro su questo argomento.
«Sono un buon cattolico» dice, come se volesse convincervi che solo grazie a questa condizione si può essere un grande campione.
Bartali possiede la fede ingenua e profonda dei toreri spagnoli.
Ogni volta, prima di sfidare il toro, si inginocchia e prega: ogni volta, dopo aver ucciso la tappa, si inginocchia e prega per ringraziare Dio di avergli concesso la vittoria contro la strada, contro il cronometro o contro il toro Coppi.
Sono nato a Santa Lucia, villaggio sulle colline del Chianti che dominano Ponte a Ema, paese natale di Gino Bartali.
Di recente il curato mi raccontava che, durante l’ultimo Giro d’Italia, una ragazzina della sua parrocchia aveva visto un angelo sospingere Bartali lungo una salita.
Questo buon prete è orgoglioso del suo Gino tanto quanto Gino lo è del suo angelo.
«Esiste al mondo un altro campione che possa vantarsi di correre con un angelo sulla spalla?» mi diceva il curato di Santa Lucia.
Certo che non esiste! O perlomeno io la penso così: e così la pensa Fausto Coppi, il rivale di Bartali.
Coppi è piemontese e appartiene, senza saperlo, al genere di persone che non credono molto al soccorso divino.
Voglio dire che è un voltairiano inconsapevole.
Sicuramente c’è qualcosa di filosofico nella rivalità sportiva che lo oppone a Bartali e rappresenta uno degli aspetti più moderni della disputa fra credenti e liberi pensatori.
Gino è figlio della fede.
Fausto è figlio del libero pensiero.
Entrambi figli del popolo, discendenti dai migliori ceppi del popolo italico (i toscani e i piemontesi sono considerati, a ragione, i più intelligenti fra gli italiani), rappresentano in qualche modo le due grandi correnti del pensiero italiano contemporaneo.
Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso.
Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro ambito.
Bartali crede all’aldilà, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l’essenza della fede cattolica.
Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in se stesso, nei propri muscoli, nei polmoni, nella buona sorte.
Ah, la fortuna! Bartali non crede alla sorte.
La sua fortuna si chiama Provvidenza.
È Lei a governare ogni cosa sulla Terra, e quindi anche sulle strade.
Gino è un ispirato, Fausto uno scettico.
«La casa di Bartali è la casa del buon Dio» scriveva di recente Pierre About.
«A casa sua, tavola imbandita.
La cucina è sempre popolata, i fornelli cucinano senza sosta, le camere degli ospiti non sono mai vuote.
Solo l’altare dove egli recita le sue preghiere è rispettato.
Là Gino entra in contatto con santa Teresa di Lisieux, di cui possiede una bella statua».
Fausto Coppi non è protetto da una santa.
Non ha nessuno, in cielo, che si occupi di lui.
Il suo manager e il suo massaggiatore non portano le ali.
Egli è solo.
Solo sulla sua bicicletta.
Non pedala con un angelo appollaiato sulla spalla destra.
È un uomo.
Un «uomo» nel senso più moderno e scientifico della parola.
Bartali è un uomo nel senso antico, classico e anche metafisico della parola.
È un asceta che in ogni istante mortifica e dimentica il corpo, un mistico che confida soltanto nel proprio spirito e nello Spirito Santo.
Gino sa che, se il motore della Provvidenza perde anche un solo colpo, per lui può arrivare la disfatta.
Bartali prega pedalando.
Alza la testa solo per guardare al cielo.
Sorride ad angeli invisibili.
Fausto Coppi, invece, è un meccanico.
Crede solo al motore che gli è stato affidato, vale a dire al suo corpo.
Per tutta la tappa è lui a condurre: è solo lui, voglio dire, a condurre la macchina, il suo corpo.
Dalla partenza all’arrivo, dall’inizio alla fine della corsa, non smette un solo istante di tenere sotto controllo quel motore preciso, delicato e formidabile che è il suo corpo.
Pedala a testa bassa, gli occhi fissi su invisibili manometri.
Sa che una perdita d’olio, un semplice colpo in testa, un accesso di tosse del carburatore, la sincope di una candela possono costargli la vittoria.
Coppi non teme l’inferno: teme il secondo posto nell’ordine di arrivo.
Egli sa che Bartali forse arriverà per primo in paradiso.
Ma che gli importa? Fausto Coppi vuole arrivare primo sulla Terra.
Questi due atleti perfetti, fra i più grandi che esistano, sono tanto diversi fra loro quanto possono esserlo due diverse rappresentazioni del mondo, due modi diversi di concepire l’universo e l’esistenza.
Il duello fra questi due rivali, fra questi due nemici fraterni, è il più bello, il più puro, il più nobile al quale sarà mai dato di assistere.
Lo sport internazionale forse non vedrà mai più, l’uno di fronte all’altro, due campioni che incarnino a tal punto i due aspetti essenziali del mondo moderno.
Anche la differenza di età fra Bartali e Coppi può spiegare molte cose sulla loro rivalità.
Gino è nato nel 1914, Fausto nel 1919.
Bartali ha compiuto la prima parte della sua mirabile carriera sportiva prima della guerra del 1939.
Il primo exploit di Coppi risale al 1939.
Bartali è il campione di un mondo già scomparso, il sopravvissuto di una civiltà che la guerra ha ucciso: egli rappresenta quel romanticismo inquieto e inquietante che ha raggiunto l’apice fra le due guerre e perpetua nel mondo moderno lo spirito eroico della vecchia Europa.
Coppi è il campione del nuovo mondo partorito dalla guerra e dalla liberazione: egli rappresenta lo spirito razionale, scientifico, il cinismo, l’ironia, lo scetticismo della nuova Europa, l’assenza d’immaginazione delle nuove generazioni, il loro credo materialista.
In Bartali, nato da una famiglia di agricoltori toscani, prevale il contadino, con la sua mistica elementare, la sua fede in Dio, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra.
In Coppi prevale invece l’operaio, sebbene anche lui sia nato in una famiglia di contadini.
Ma mentre Bartali è passato dall’aratro alla bicicletta, Coppi, quando ha sposato la bicicletta, aveva già ripudiato la terra.
Bartali è figlio di una zona della Toscana che è rimasta contadina, Coppi di una zona del Piemonte in cui il contadino appariva già tinto di spirito «proletario».
Per essere ancora più preciso, aggiungo che Bartali proviene da una famiglia di mezzadri, Coppi da una famiglia di braccianti.
Fausto è un operaio, Gino un agricoltore.
Il «mistero » fisico di Bartali sarebbe inspiegabile se si dimenticasse che la virtù fondamentale dei contadini toscani è la resistenza, unita a un senso dell’economia, sia fisico sia morale, che diventa arte.
L’aspetto umano è più sviluppato in Bartali che in Coppi.
Bartali è un uomo, Coppi un robot.
Curzio Malaparte 12 maggio 2009
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