Maggio

1.
Cerca nei Salmi indicati la conferma che la vita, nella concezione ebraica, non è tanto un concetto quanto una relazione con Dio.
2.
Che cosa caratterizza la vita nello Sheol? 3.
Che cosa esprime di nuovo la riflessione del vangelo di Giovanni sulla vita, rispetto ai sinottici? 4.
Cosa vuol dire che Gesù è il “nuovo Adamo”? Praticamente tutte le religioni si sono occupate e si occupano della vita e della morte.
Anzi, questi sono i loro temi centrali, basti pensare all’importanza e alla diffusione che ha il culto dei morti nella quasi totalità delle esperienze religiose, oppure il ruolo che assumono la morte e la resurrezione di Cristo nella comprensione del cristianesimo.
La morte viene percepita dalle religioni come un passaggio, una trasformazione della vita nell’aldilà: così come entriamo nel mondo attraverso la nascita, è attraverso la morte che entriamo nella vita successiva, qualunque sia la sua forma.
La vita e la morte, da un lato, possono apparire dei fenomeni naturali per cui l’uomo nasce, invecchia, muore e scompare: Jean Paul Sartre, nella sua celebre opera L’essere e il nulla, afferma che non solo non si può trovare alcun senso alla morte, ma che questa, per la sua stessa assurdità, impedisce di dare un senso alla vita.
Parallelamente a questa visione vi è però quella che guarda alla morte come a una realtà estranea, una “anomalia” che irrompe nella vita come qualcosa di singolare.
Così si esprime un canto africano: «Il giorno in cui Dio creò tutte le cose, creò il sole.
E il sole sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò la luna.
E la luna sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò le stelle.
E le stelle sorgono, vanno a dormire e ritornano.
Egli creò l’uomo.
E l’uomo appare, va nella terra e non ritorna».
È l’altra faccia della morte: pur essendo cantata come parte della creazione, è sentita come un’irregolarità drammatica di fronte alle apparizioni e sparizioni ritmate della natura.
Il teologo cattolico Karl Rahner esprimeva così questo doppio volto della nostra coscienza della morte: «La morte è ciò che vi è di più comune, e va da sé che ciascuno proclami che è naturale morire.
Eppure, in ciascuno di noi si alza una segreta protesta».
In questa prima parte cercheremo di individuare alcuni punti nodali per la comprensione della vita e della morte nelle religioni ebraica e cristiana, mentre, il mese prossimo, ci occuperemo dell’islam, dell’induismo e del buddismo.
Al centro del modo di intendere la morte da parte dei cristiani vi è la morte di Gesù narrata nei vangeli e definita nel Credo.
L’atteggiamento di Gesù sulla morte dipende fortemente dalla sua radice ebraica: “Non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12,27).
In questa linea si spiega l’azione di Cristo che, come avevano fatto i profeti prima di lui, ha richiamato dei morti alla vita.
Dai vangeli si desume che Gesù prevede la propria morte (vd.
la parabola dei vignaioli in Mc 12,1-12; Lc 20,9-16), e ne anticipa l’interpretazione (Mc 14,22-25; Lc 22, 14-20; Mt 26,26-29).
Ecco le parole con cui Gesù, durante l’Ultima Cena, annuncia la propria morte come evento sacrificale.
Quando la comunità celebra l’Eucarestia in sua memoria viene annunciata la morte e risurrezione di Cristo e si attualizza nella comunità l’offerta del suo sacrificio.
15 “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.
17 E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, 18 perché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”.
19 Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”.
20 E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”.
(Lc 22,15-20) Nella visione di San Paolo il fenomeno della morte viene fatto risalire al peccato originale (Rm 5,12; 6,23): il peccato del primo uomo, viene cancellato dal “secondo Adamo” (Gesù) che sconfigge definitivamente la morte (Rm 6,8).
Paolo arriva a dire che «né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8,38) e che per lui «il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).
Inoltre estende la sua concezione della risurrezione dall’individuo all’umanità intera: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 15,22).
La riflessione paolina genererà nei cristiani la certezza di non avere più nulla da temere dalla morte, dal momento che la morte “autentica” è quella causata dal peccato.
Ecco come, nella visione di Paolo, viene descritta la condizione di rinascita a vita a nuova di colui che crede in Cristo.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9 sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
10 Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
11 Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
(Rm 6,8-11) La risposta cristiana alla morte sta dunque nella speranza della resurrezione; in essa anche il corpo è destinato alla salvezza presente e futura.
È l’uomo nuovo che risorge con Cristo, anche se si ignora la modalità con cui tutto ciò debba avvenire.
Il martirio liberamente scelto come suprema testimonianza della fede fu circondato da ogni onore fin dagli albori della vita della Chiesa: Tertulliano, Padre della Chiesa del II secolo, sostiene che anche il martire, attraverso il suo sacrificio cruento, possiede “l’unica chiave del paradiso” (De resurrectione carnis, 43).
Non così il suicida, condannato sulla scia della miserevole fine toccata a Giuda (Mt 27,5).
Secondo Tertulliano tutti i defunti attendono il giudizio ultimo in uno stato di sonno privo di sensazione e coscienza.
Esso terminerà solo per i santi che entreranno nella dimora celeste.
Le conseguenze cultuali di tale concezione saranno di grande portata: essere interrati ad sanctos, cioè vicino ai santi, determinerà, per tanti cristiani, la speranza di ottenere la loro protezione nell’ultimo giorno , sfuggendo così alla morte eterna.
La geografia cristiana dell’aldilà, invece, si disegnò lentamente.
Dapprima essa era ridotta a due sole nozioni: quella di “Geènna” (luogo di sofferenza per i malvagi) e quella di “Regno”, situato nei cieli, luogo di felicità per gli eletti, in unione con Dio e con gli angeli.
Agli inizi del VII secolo Gregorio Magno imposterà la geografia dell’aldilà secondo la cosmologia tolemaica, distinguendo, cioè, tre luoghi.
Al di là delle stelle fisse, che circondano l’universo, si trova il mondo del divino, il Paradiso degli eletti; al centro dell’universo vi è la terra, ferma, che nasconde nelle sue viscere l’inferno inferiore dove bruciano i dannati; tra le stelle fisse e la terra ruotano i pianeti, e al di là della luna vi è l’inferno superiore dove stanno le anime dei giusti, morti prima della venuta di Cristo.
Questi esseri non potevano né salire in cielo perché la salvezza non era stata operata, né scendere all’inferno inferiore, essendo anime giuste.
Solo con la salvezza operata da Cristo tali anime sono state liberate: dopo tale Redenzione, questo mondo si è svuotato.
I teologi chiameranno poi questo luogo “Purgatorio”, luogo di sofferenze temporanee e purificatrici.
Ecco come il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il Purgatorio nel Paragrafo dedicato alla “Purificazione finale”, corrispondente ai numeri 1030, 1031, 1032.
1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
1031 La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati.
La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze.
La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, (1Cor 3,15; 1Pt 1,7) parla di un fuoco purificatore.
Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del Giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,31).
Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro [San Gregorio Magno, Dialoghi].
1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2Mac 12,45).
Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio.
La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli.
Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, (Gb 1,5) perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere (San Giovanni Crisostomo, Homiliae in primam ad Corinthios).
Per la Bibbia, “vivere” non significa solo “esistere”, non equivale solo a essere fisicamente al mondo come le piante e gli animali che ci circondano.
Anzi, animali e piante non sono di per sé soggetto del verbo “vivere”, perché questo verbo è riservato all’uomo e, naturalmente, a Dio.
La vita biologica umana è nel potere assoluto di Dio, così come si ricava non solo dal Libro della Genesi (Gn 9,4-5), ma anche dal quinto e sesto comandamento (Es 20,13; Dt 5,17).
L’ebraismo biblico esprime un grande amore per la vita concreta e piena, ed è in questa che si realizza la relazione tra Dio e l’uomo.
In questo senso la vita non appare quasi mai come un concetto a sé, ma esprime ciò che si osserva concretamente nei viventi: è il respiro (Gb 11,20), il movimento (l’acqua viva in Ger 17,13; 2,13), il sangue che scorre (Gn 9,4-5).
Ma è nell’uomo e nel suo rapporto con Dio che la parola vita assume il suo significato pieno.
La caratteristica fondamentale della vita umana è infatti il rapporto di scambio con Dio (Sal 72,25) e la capacità di lodarlo è l’espressione più evidente della vitalità umana (Sal 41,6.12; 102).
Con la morte l’uomo viene escluso da questo, dalle azioni provvidenti di Dio e dalla lode a Lui (Sal 87,11-13; Is 38,18); quindi, “morte” è mancanza di rapporto con Dio.
Fin dai primi versetti del Libro della Genesi la Parola di Dio è “viva” e genera “vita”, e Dio appare come il principio della vita.
L’uomo invece è mortale per natura (Gn 3,19) ma aspira all’immortalità, come lascia intendere l’albero della vita del v.
22.
Il Libro del Deuteronomio proclama che Dio dà la vita e la toglie (Dt 32,39); il dono della vita è quindi prezioso anche se instabile (Gb 2,4; Sal 39,6; Qo 6,12; Is 40,6).
Coerentemente con questa idea che lega Dio e la vita, il Libro del Deuteronomio sostiene che “Dio è il vivente” (Dt 5,26; Is 37,4), un’affermazione caratteristica della fede ebraica: essa implica il rigetto di tutti i falsi idoli che sono senza vita, così come le loro immagini (Ger 10, 8-10).
All’idea di vita l’uomo ebreo collega il senso di pace, di prosperità e di felicità (Sal 36,11; 133,3); allo stesso modo, la sapienza, la prudenza e il timore di Dio rappresentano per lui “sorgenti di vita” (Pr 13,14; 16,22).
La vita dopo la morte non era chiaramente raffigurabile per l’uomo ebreo e la rivelazione biblica non scioglieva i suoi dubbi: a ridosso dell’era cristiana il partito dei farisei credeva nella risurrezione dei morti; non così quello dei sadducei.
Si riteneva che gli uomini, sia quelli giusti che gli ingiusti, scendessero nel regno dei morti, dove mantenevano una vita dimezzata, privi della salvezza di Dio (Sal 88), senza poter fare ritorno alla vita (Gb 16,22).
Solo successivamente, sotto l’influsso della filosofia greca, si pensò che Dio avesse potere anche negli inferi e che ci fosse un premio dopo la morte (Sap 3,1; 4,14: Dn 12,2).
Nel Libro di Isaia, al cap.
38, troviamo un cantico che testimonia la convinzione che Jahwèh è il Dio della vita e che con la morte avviene la distruzione dell’uomo; è solo l’uomo vivente che può lodare Dio.
16 Il Signore è su di loro: essi vivranno.
Tutto ciò che è in loro è vita del suo spirito.
Guariscimi e rendimi la vita.  17 Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati.  18 Poiché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà.  19 Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi.
Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà.  20 Signore, vieni a salvarmi, e noi canteremo con le nostre cetre tutti i giorni della nostra vita, nel tempio del Signore.
(Is 38,16-20) L’integrità inviolabile e il valore della persona umana che non possono essere messi in discussione per nessuna ragione, sono alla base dell’atteggiamento cristiano nei confronti della vita.
La coscienza del valore insuperabile di ogni individuo fa sì che la questione della vita (e quindi della morte) pervada tutta l’esistenza e sia collegata all’attesa neotestamentaria della salvezza e alla speranza della resurrezione.
La coscienza di ciò rimanda a Dio, la sorgente prima di tutta la vita, a immagine del quale l’uomo è stato creato e al quale dovrà fare ritorno.
I vangeli sinottici testimoniano le convinzioni sulla vita che erano proprie dell’Antico Testamento, sebbene esprimano chiaramente la fede in una vita dopo la morte.
La vita è messa in relazione con il “Regno di Dio”: “entrare nel Regno di Dio” significa entrare nella vita (Mc 9,43).
I Vangeli di Matteo, Marco e Luca proclamano il raggiungimento della “vita eterna” da parte di coloro che perdono la propria vita per seguire Gesù (Mt 10,39; Mc 10,30; Lc 9,23-34).
Nel Vangelo di Giovanni si elabora il passaggio dal Padre al Figlio: Dio, che è il padrone della vita, trasmette il suo potere al Figlio (Gv 5,21; 10,17-18).
Gesù stesso è, quindi, la vita (Gv 11,25; 14,6) e la dona a coloro che credono in Lui (Gv 1,4.12; 4,14; 5,24).
I credenti possiedono già la vita eterna (Gv 3,36; 5,24), ma questa raggiungerà il suo compimento nella resurrezione (Gv 6,40.54).
Ecco come risponde Gesù a Marta che, annunciando la morte di Lazzaro, aveva dichiarato che, se il Maestro fosse stato lì, suo fratello non sarebbe morto.
23 Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà.
24 Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
(Gv 11,23-26).
Negli Atti degli Apostoli Gesù è chiamato “autore della vita” (At 3,15) e la destinazione degli uomini alla vita futura implica la fede in Cristo (At 2,39; 13,48).
Negli Atti troviamo alcune parole di Gesù riportate da Paolo e Barnaba durante la loro missione ad Antiochia di Pisidia: 47 Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”.
48 Nell’udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
49 La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
(At 13,47-49).
Nella letteratura paolina si sottolinea, da un lato, che Cristo è la nostra vita (Col 3,4); dall’altro si afferma che la vera vita comincerà solo con la parusìa, cioè con il ritorno di Cristo (Col 3,4).
Come e quando questo avverrà non è dato sapere (Mt 24,27.43); così pure che cosa sia la vita dopo la morte resta un tema di cui gli autori neotestamentari non si occupano.
San Paolo tenta piuttosto di rispondere a chi si meraviglia perché la parusìa non è ancora venuta (1Ts 5,2-10; 2Ts 2,1), dicendo che il giorno del Signore verrà all’improvviso.
Ecco come si esprime San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi riguardo al ritorno del Cristo.
Riprendendo le affermazioni del Signore sull’incertezza della data della sua ultima venuta ricorda che bisogna attendere vegliando.
Le sue parole risentono dei tono della letteratura apocalittica.
1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte.
3 E quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.
4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.
5 Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.
6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano.
8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
9 Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
10 Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.
11 Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni gli altri, come già fate.
(1 Ts 5,1-11) In questi ultimi decenni, la progressiva minaccia della vita umana sotto varie forme conseguenti a scelte sia di tipo economico e politico (la povertà e la fame nel sud del mondo, le esecuzioni capitali diffuse in molti paesi), sia inerenti la bioetica (aborto, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni) ha portato la Chiesa a prendere risolutamente posizione in molte occasioni, a partire dalla celebre Enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, del 1968, fino alle Encicliche di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor (1993) ed Evangelium Vitae (1995).
È soprattutto in quest’ultima enciclica che si tratta del valore e dell’inviolabilità della vita umana.
Vi si afferma che la vita dell’uomo non è una vita qualsiasi, ma ha una vocazione molto preziosa e particolare perché è vita che Dio ha donato alla sua creatura prediletta dove risplende un riflesso della stessa realtà di Dio (n.
34).
L’origine divina della vita dell’uomo, creato a immagine di Dio, sta alla base della sua dignità inalienabile, indipendentemente dallo stato in cui egli si trova.
La vita umana è quindi sacra fin dalla sua origine.
Ecco come si è espresso Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae (1995), a proposito dell’aborto.
Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato.
È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
58) Nell’enciclica Evangelium vitae (1995) Giovanni Paolo II prende una netta posizione anche contro l’eutanasia: la vita va difesa dal suo sbocciare nel grembo materno fino all’ultimo istante.
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che – come i parenti – dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti – come i medici –, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso.
Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.
[…] Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
66) La morte è vista, nel Libro della Genesi (Gn 83,19) come la conseguenza del peccato: così, mentre la fedeltà alla Legge di Dio, alla Toràh, porta alla vita (Dt 30, 15-16), l’infedeltà alla Legge conduce alla morte.
Il Libro della Genesi afferma una doppia origine dell’uomo, creato dalla polvere del suolo e dal soffio vitale di Dio (Gn 2,7).
Gli antichi ebrei ritenevano che la morte separasse di nuovo questi due elementi: l’anima del defunto si allontana dal corpo come un soffio.
La creazione si trova così rovesciata, come dice il Libro del Qohelet (Qo 12,7): «La polvere ritorna alla terra e il soffio ritorna a Dio che l’aveva dato».
L’anima (o spirito) non designa qui l’uomo tutto intero, né ciò che vi è in lui di più sostanziale.
Lo spirito senza il corpo è solo un’ombra senza vita e l’antico giudaismo mette l’accento sulla realtà di quaggiù: i profeti esortano continuamente a concentrarsi su una vita retta in “questo” mondo.
Dopo la morte lo spirito scende nel regno dei morti, chiamato sheol, situato sotto terra o nelle sue profondità, dentro o sotto il mare, sul quale galleggia il mondo intero (Sal 63,10; Gb 26,5; 38,16).
Lo Sheol è un luogo di tenebra (Sal 143,3), di silenzio, di grigiore, di ombre che non conoscono nessuna gioia (Sir 14,17).
Nello Sheol l’anima non ha alcuna conoscenza di ciò che capita sulla terra (Gb 14,21; 21,21; Qo 9,5-6).
In questo luogo tutte le differenze tra gli esseri umani vengono meno: giusti e ingiusti, re e schiavi, giovani e vecchi, ricchi e poveri… tutti si ritrovano nello stesso luogo (Gb 3, 13-19).
Si tratta di un ebraismo primitivo che non ha né la rappresentazione di un giudizio universale, né quella di un castigo o di una ricompensa nell’aldilà, idee che prenderanno lentamente piede, modificando le precedenti concezioni relative allo Sheol: il Regno dei morti si troverà allora diviso in due parti, una confortevole per i giusti e una inospitale per i malvagi.
S’imporrà sempre più l’idea di un giudizio nell’aldilà e l’importanza di ciò che nell’uomo sopravvive dopo la morte.
Il salmo 87 presenta un uomo afflitto all’estremo, ma fiducioso in Dio nonostante i toni angosciosi della sua preghiera.
Le sue sofferenze sono dovute a una malattia e al disinteresse di quelli che dovrebbero stargli vicino.
Nel salmo è chiara la percezione dello Sheol e, soprattutto negli ultimi versi, si percepisce la condizione di colui che “scende nella fossa” e la lontananza di Dio da questo luogo.
(…) 4 Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi.  5 Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze.  6 Sono libero, ma tra i morti, come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ricordo, recisi dalla tua mano.  7 Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi.  8 Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti.  9 Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore.
(…)  11 Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode?  12 Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte?  13 Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio? (Sal 87,4-9; 11-13)

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