V Domenica dopo Pasqua anno A

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 9,26-31 In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.
Così egli poté stare con loro e andava e ve-niva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore.
Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo.
Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresce-va di numero.
Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv.
1-19), l’inizio della sua predica-zione (vv.
20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv.
32-43; e.
10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane.
La no-stra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.
Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.
— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v.
28: «andava e veniva in Gerusa-lemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf.
il greco: parrēsia = zò-menos, v.
28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.
— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v.
29).
È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.
— «La Chiesa era dunque in pace» (v.
31).
Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pa-ce interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo).
La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.
Dio è più grande del nostro cuore e conosce o-gni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo coman-damento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chie-se dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche).
La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).
Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».
a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v.
18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a pa-role) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso.
«Siamo dalla veri-tà» (v.
19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo.
Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv.
20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza.
Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»).
Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Ge-sù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati.
Qui il «comandamen-to» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore ge-nerico o sentimentale.
Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente.
Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamen-to di Gesù.
Vangelo: Giovanni 15,1-8 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Voi siete già pu-ri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fat-to.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate mol-to frutto e diventiate miei discepoli».
Esegesi Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35).
In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, in-sistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.
Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio.
Esso va collocato nell’insieme del cap.
15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv.
1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la te-stimonianza del Paraclito (vv.
18 ss.).
— «Io sono la vite vera» (vv.
1.5).
Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivela-zione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14).
In riferi-mento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera».
Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf.
Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.
— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv.
1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rap-porto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.
— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre: a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — co-me dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v.
2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita; b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppon-gono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v.
2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v.
6).
Dietro queste immagini si intravede la cura e-strema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.
— Rimanete in me come io in voi (v.
4).
Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano.
In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).
— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v.
5).
La salvezza non dipende soltanto dalla libera ade-sione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di por-tare frutti.
Meditazione Gli evangeli presentano Gesù come appartenente alla categoria lavorativa degli artigia-ni; professione: falegname.
Eppure, se non altro per la quantità di immagini agricole che ricorrono nella sua predicazione, viene da pensare che il figlio del carpentiere avesse una predilezione per l’attività dei campi.
Anche lui una vocazione ‘costretta’ per ragioni fami-liari? Quale che sia la verità storica, il brano evangelico odierno ci presenta una formidabile similitudine agricola-esistenziale, che riesce a comunicarci moltissimo dell’esperienza spi-rituale di Gesù: la vite.
Nel Primo Testamento l’immagine, associata a quella della vigna, ricorre frequentemente per descrivere il rapporto esistente tra Dio e il suo popolo (cfr.
Os 10,1; Sal 79; Is 5,1-5; Ger 2,21; Ez 19,10-14…), sia nella bellezza di un’armonia e di una cura premurosa che nell’ingratitudine dei vignaioli verso il padrone e nella bassa qualità dei frutti.
Il testo di Giovanni focalizza l’attenzione su di un’unica pianta, quella vite che Gesù sceglie come icona per se stesso.
Malgrado ciò, il ‘mancato contadino’ di Nazareth non atti-ra l’attenzione su di sé ed evidenzia invece il legame con il Padre e i discepoli, indicati ri-spettivamente come il vignaiolo e i tralci (vv.
1.5).
E il primo aspetto che si coglie ed emer-ge con prepotenza dal testo è proprio che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre: la sua è un’esistenza in comunione.
Il primo pensiero va, con riconoscenza, a chi lo ha inviato, da cui si sente amato, nutrito e custodito profondamente! Ma senza soluzione di continuità, Gesù parla immediatamente anche dei discepoli.
Se è stretto il rapporto tra vite e vignaio-lo, come si potrebbe definire quello tra vite e tralci? Dove inizia uno e dove finiscono gli altri? Sono inscindibili, è impossibile stabilire un confine netto e preciso.
Se è pertanto vero che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre, è ancor più vero per quel che riguarda il rapporto con i discepoli! La vite è pianta estremamente rigogliosa, con una forza vitale esuberante: si potrebbe dire che non può contenere l’energia di cui è portatrice! Non porta frutto immediatamente, a volte chiede anni di attesa perché possa ‘figliare’ grappoli di qualità.
Nello scorrere del tempo ciò che rischia di degenerarsi, di scadere è proprio la circolazione della linfa – fuor di metafora, la parola di Gesù (cfr.
v.
3) – verso le parti più periferiche della pianta.
Non che la vite non ne produca più; no: la Parola mantiene la sua forza inalterata nel succedersi delle stagioni.
Può invece avvenire che i tralci, i discepoli, desiderino splendere di luce propria, distanziarsi dalla fonte originaria, ricercare altre fonti di nutrimento.
I risultati so-no immediati: mancanza dei frutti, dei rigogliosi acini e tristissima morte…
«Chi non rima-ne in me viene gettato via, si secca: lo raccolgono, lo gettano nel fuoco, lo bruciano» (v.
6).
Tutta la parte centrale del nostro brano è quindi un’accorata supplica affinché non venga interrotto il vincolo nutritivo, essenziale proprio come il cibo, tra vite e tralci, tra Gesù e discepoli.
«Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così an-che voi se non rimanete in me» (v.
4).
A una prima impressione, queste parole di Gesù po-trebbero apparire una umiliante forma di autoritarismo, addirittura di schiavismo: «Senza di me non potete far nulla» (v.
5).
In fondo, un modo per mantenere le persone in uno sta-to di dipendenza e infantilismo deprimente.
Invece è sorprendente l’umiltà di questa vite: riceve la vita dal Padre, non la trattiene – questo è l’amore puro: ricevere senza nulla inca-merare! – e comunica questa stessa vita ai tralci, che hanno la possibilità e la gioia di vede-re fiorire la propria esistenza e, ancor più, di nutrire, di dare la vita a loro volta! Il ‘merito’ viene lasciato tutto ai tralci! Accade quel che spesso succede nelle squadre di calcio: se la squadra vince, sono bravi i giocatori, se la squadra perde, la colpa è dell’allenatore…
Que-sto è lo stile di Gesù, che rifugge da ogni ‘glorificazione’ ma non può esimersi dall’attestare il proprio ruolo discreto eppur fondamentale: ne va della vita dei suoi discepoli! Tutt’al più la gloria può essere imputata al vignaiolo, al Padre…
(cfr.
v.
8).
Ma lui è nella gioia quando i suoi figli «rimangono e portano frutto» (v.
5).
Chi rimane, chi non rompe il legame, chi continua ad ascoltare la Parola di vita entrerà in un rapporto così profondo con il Padre da riuscire a penetrare nel mistero della sua vo-lontà e in essa trovare gioia.
Effettivamente, quando si conosce il desiderio dell’amato, lo si riempie di gioia domandandogli di poter collaborare alla realizzazione dei suoi stessi de-sideri: come potrebbe costui rifiutarsi, negare aiuto? «Chiedete quel che volete e vi sarà da-to» (v.
7).
Il desiderio del discepolo coincide con quello del Padre.
Ma per arrivare a tal punto bisogna entrare anche nel mistero della potatura dei tralci, dal momento che per po-tersi rinnovare viene chiesto di recidere quanto si distanzia dal piano di Dio.
Il nostro bra-no, allora, se è un’esortazione alla fedeltà e alla sapienza, se aiuta a visualizzare simboli-camente il compimento felice dell’esistenza dei discepoli, ricorda come la vita passa attra-verso la potatura della Pasqua, sulla scia del cammino di Gesù, per dare «più frutto» (v 2).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Io sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbat-te io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, conse-gnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio re-spiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custo-dito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Curare la vigna è come curare la vita Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, al-l’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche.
Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle.
La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno sco-stato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.
D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ri-bellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persi-no il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione mor-ta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di pota-tura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per a-vere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo ar-rossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro oc-chi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fe-condo.
E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della sta-gione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi par-lando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Senza di me non potete far nulla Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4).
[…] Chi si illude di poter por-tare frutto da sé stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano.
Ecco in quale profondo abisso siete precipitati.
Ma con-siderate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla».
Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla.
Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affin-ché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto.
[…] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7).
Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideria-mo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attin-ge vita dalla radice.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp.
1240-1244).
Solo Gesù può liberarmi totalmente Nel Nuovo Testamento la presenza di Gesù con le sue parole e i suoi gesti diviene una fonte inesauribile d’ispirazione per la preghiera: è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita, e io lo seguo.
Gesù è la vigna; Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani, è Gesù che m’invita a offrirgli la mia povertà – cinque pani e due pesci – perché egli se ne serva per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa, è Gesù che mi chiede una fiducia assoluta nella sua parola più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni, Gesù mi rammenta che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un do-no elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro deci-sione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insuf-ficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non spe-ravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidia-no del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita di-chiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può por-tare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e di-scende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.
Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudan-do lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie.
Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.
Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi.
E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

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