“Secondo le Scritture”.

“Per aprire i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi.
La [costituzione conciliare] “Dei Verbum” 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico.
In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali.
Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Giovanni 1, 14: “Verbum caro factum est”.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana.
La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina.
Di conseguenza la “Dei Verbum” parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia.
Si deve cioè: 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro.
Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello.
Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla “Dei Verbum”, appare quasi assente.
E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato.
Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla “Dei Verbum”, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana.
Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano.
Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.
Oggi il cosiddetto “mainstream” dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e “Lectio divina”.
Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie.
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia.
La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia.
Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni [del sinodo] si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla “Dei Verbum” 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica.
Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
 Il 23 aprile 2009 Benedetto XVI ha incontrato la pontificia commissione biblica, riunita per preparare un documento su “Ispirazione e verità nella Bibbia”.
E nell’occasione ha tracciato le linee maestre per la lettura della Sacra Scrittura “nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa”.
Il testo integrale del discorso è nel sito del Vaticano: > “La Scrittura si comprende all’interno della Chiesa” Tra pochi giorni il quotidiano “la Repubblica” e il settimanale “L’espresso” offriranno al pubblico italiano, in centinaia di migliaia di copie e a un prezzo di favore, l’intera Bibbia cristiana, nella nuova traduzione curata dalla conferenza episcopale, con un ampio corredo di note e illustrata con i capolavori dell’arte di tutti i tempi.
L’opera sarà in tre volumi: il primo con il Pentateuco e i libri storici; il secondo con i libri sapienziali e i profeti; il terzo con i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere e l’Apocalisse.
L’iniziativa è tanto più sigjnificativa in quanto “la Repubblica” e “L’espresso” sono testate leader dell’opinione laica in Italia, spesso critiche nei confronti della Chiesa cattolica e della stessa fede cristiana.
Ma questo non toglie che, nell’offrire al pubblico i tre volumi, i due giornali presentino la Bibbia come “un libro da avere, da leggere e da vivere”, con in più la “garanzia di autorevolezza” della traduzione ufficiale della Chiesa.
I tre volumi sono introdotti dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, e da Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e coordinatore dell’impresa della nuova traduzione, durata quasi vent’anni ad opera di insigni studiosi.
Nel risvolto di copertina è citata la celebre frase di san Gregorio Magno: “Le divine parole crescono con chi le legge”.
Qui di seguito, ecco l’articolo con cui “L’espresso” presenta la Bibbia ai suoi lettori e suggerisce come leggerla a chi l’accosta per la prima volta.
Non tutta di seguito ma cominciando dalla Genesi, poi passando subito al Nuovo Testamento con il Vangelo di Marco, poi tornando all’Antico con il libro di Giona, poi…
Questa guida alla lettura è naturalmente opinabile, ma riflette lo stile con cui la Chiesa legge le Scritture nelle sue liturgie.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportato l’intervento di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, la mattina di martedì 14 ottobre 2008.
In quell’occasione papa Joseph Ratzinger, parlando a braccio, spiegò come lui desidera che le Sacre Scritture siano lette, per gustarne il senso autentico e pieno, in un’epoca in cui “si propongono interpretazioni che negano la presenza reale di Dio nella storia”.
”Le divine parole crescono con chi le legge” Per Marc Chagall la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Verissimo.
Secolo dopo secolo, la fortuna artistica delle Sacre Scritture è stata così smisurata che oggi sono molti di più quelli che hanno appreso la storia sacra dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura, di quelli che ne hanno letto il testo.
La Bibbia è il libro più venduto al mondo.
Ma che l’abbiano letta per intero sono pochi.
Paul Claudel, poeta francese convertito, diceva che “i cattolici mostrano un così grande rispetto per la Bibbia che se ne stanno il più lontano possibile”.
Errore imperdonabile.
Perché se è vero che Raffaello insegna tante cose, è ancor più vero che le stanze vaticane da lui affrescate restano indecifrabili se non si conosce la trama biblica che le sostanzia, se non si vede ad esempio che i filosofi della “Scuola di Atene” sono in cammino verso la liturgia celeste e terrena della “Disputa del Santissimo Sacramento” dipinta sulla parete di fronte.
La Bibbia è il “grande codice” della cultura occidentale.
Su questo i maggiori critici letterari sono ormai concordi.
Erich Auerbach, in un capitolo memorabile di “Mimesis”, mostrò che la Genesi e i Vangeli, ancor più dell’Odissea di Omero, sono la matrice del realismo della letteratura moderna: “Fu la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia, a sopraffare le antiche leggi stilistiche”.
Certo, pochi sanno leggere la Bibbia nel testo originale, ebraico per l’Antico Testamento e greco per il Nuovo.
Ma ora che la conferenza episcopale italiana ha sfornato dopo quasi vent’anni di lavoro da parte di biblisti e letterati la più accurata traduzione italiana della Bibbia di sempre, un motivo in più per leggerla c’è.
Questa nuova traduzione della Bibbia, che “L’espresso” e “la Repubblica” propongono ai loro lettori, è la stessa che si legge ogni domenica a messa.
È fatta quindi anche per essere proclamata, cantata, musicata, illustrata: come la Vulgata di san Girolamo, l’antica traduzione latina delle Scritture che per secoli ha fatto tutt’uno con la grande arte occidentale e, nello stesso tempo, con la vita e il linguaggio quotidiani di miriadi di uomini e donne.
Ma attenzione, la Bibbia cristiana può punire chi vi si avventura alla cieca.
È un libro specialissimo, anzi, un insieme di libri, settantatre in tutto, prodotti in un migliaio d’anni e ripartiti in due grandi collezioni, l’Antico e il Nuovo Testamento, che è vietatissimo separare, pena il non capire più nulla.
La messa insegna.
Non vi si legge mai una pagina del Vangelo senza che prima non si legga una pagina dell’Antico Testamento che l’anticipa “in figura”.
Gesù è incomprensibile senza i profeti.
Se è risorto dai morti, come i Vangeli attestano e il “Credo” proclama, ciò è accaduto “secondo le Scritture”.
Se dal fianco squarciato di Gesù zampillano sangue ed acqua, con Maria e Giovanni ai piedi della croce, è impossibile non pensare al secondo capitolo della Genesi, ad Adamo dormiente dal cui fianco Dio trae Eva, la madre dei viventi.
La croce è il nuovo albero della vita del paradiso, come la magnifica croce fiorita del mosaico della basilica romana di San Clemente.
È la sorgente della Chiesa, è l’inizio della nuova creazione.
Dell’Antico Testamento, per cominciare, si legga la Genesi.
Non ci si stupisca se i racconti della creazione non sono uno ma due, l’uno di seguito all’altro e così diversi di stile e di contenuto.
La Bibbia non vuole dire come il mondo è nato, ma perché.
E anche perché, in un mondo che pure è benedetto da Dio come “buono”, si sprigiona tanto male, non per destino ma per libera scelta volontaria, travolgendo con l’uomo anche la natura.
Da Caino a Lamech, dalla torre di Babele al diluvio, la malvagità invade la terra.
Ma c’è Noè il giusto, nell’arca salvata dalle acque.
Poi c’è la chiamata di un altro giusto, Abramo.
E c’è una giustizia anche al di là del popolo eletto, nel misterioso Melchisedech “senza padre, senza madre, senza genealogia”, come scriverà nel Nuovo Testamento l’autore della lettera agli Ebrei.
E c’è Dio che visita Abramo nella persona dei tre ospiti anonimi che Rublev nel XV secolo dipingerà come icona della Trinità.
E ancora Dio che lotta con Giacobbe sulle rive del torrente Yabbok.
Dio? La Bibbia non lo scrive.
Lo fa intuire.
Forse.
In questo la Bibbia è davvero modernissima.
Non dice mai tutto.
Anzi.
Obbliga il lettore a entrare nella trama e a decidere.
“Le divine parole crescono con chi le legge”, disse papa Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele profeta.
È come se le Scritture dormano, prima che il lettore arrivi a destarle dal sonno.
Sono state scritte così, piene di enigmi, ellissi, salti, penombre.
E l’esegesi rabbinica è così da sempre: il “midrash” è un inesauribile accumulo di letture e riletture, rimontaggi e reinterpretazioni, realtà e visione.
Un dipinto di Chagall ne è illustrazione perfetta.
E così la liturgia cristiana: lì la Parola di Dio non è una lettura libresca, ma diventa realtà vivente nei simboli sacramentali.
Il Verbo di Dio prende corpo e sangue.
C’è un’antifona, nella messa dell’Epifania secondo il rito ambrosiano che si celebra a Milano, che è un inno alla creatività, nell’accostare la Bibbia.
Essa canta: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati.
Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino.
Alleluia!”.
Qui i rimandi ai Vangeli sono almeno tre: alla visita dei Magi con i doni al Bambino, al battesimo di Gesù adulto nel Giordano, al miracolo delle nozze di Cana.
Ma l’ordine cronologico è del tutto saltato e la narrazione è stata scomposta e ricomposta.
Le nozze diventano quelle tra Gesù e la Chiesa, le acque battesimali purificano la sposa, i Magi portano i doni alla festa e gli invitati si comunicano bevendo il miracoloso vino procurato dallo stesso Gesù, qui ed ora.
Letta la Genesi, si salti al Nuovo Testamento e si legga Marco, il più antico, il più breve e il più folgorante dei quattro Vangeli.
Tutto imperniato sul “segreto messianico” come trama narrativa, un segreto che fa balenare solo a tratti, dalla penombra, la vera identità di Gesù, e solo alla fine la svela con le parole del centurione romano davanti alla croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Altro elemento modernissimo del Vangelo di Marco è il suo finale tronco, in sospeso.
A riconoscere Gesù nella fede è stato un ufficiale pagano, i discepoli sono tutti fuggiti, e le donne che vedono la tomba vuota non dicono niente a nessuno “perché impaurite”.
Punto.
Col leggere un simile finale, come sfuggire dal prendere posizione? Come resistere dall’entrare in scena anche noi? Dispiace che della “Marcus-Passion” di Johann Sebastian Bach sia andata perduta la musica, visti quei capolavori sublimi che egli ha tratto dalla più solenne, ieratica, passione di Matteo, e da quella mistica di Giovanni.
E poi di nuovo si torni all’Antico Testamento.
Si legga il brevissimo libro di Giona, il profeta mandato da Dio a convertire e perdonare la Ninive pagana, ingoiato dal pesce e vomitato vivo il terzo giorno, scintillante racconto tutto intessuto di fine ironia: e allora si capirà perché Gesù si sia identificato nel “segno di Giona” e perché Michelangelo abbia dipinto proprio questo profeta, in forme grandiose, alla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, tra la Creazione e il Giudizio, tra l’inizio e la fine dei tempi.
E poi si legga il libro di Giobbe, grande teologia e poesia altissima.
E il Cantico dei Cantici, incantevole carme d’amore.
E poi di nuovo si apra il Nuovo Testamento, col dittico del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, con le avventure di Paolo che fa naufragio a Malta e infine arriva a Roma.
Non diremo mai più che la Bibbia è noiosa.
Da “L’espresso” n.
18 del 2009

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