VI Domenica di Pasqua Anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 4,8-12 In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risusci-tato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Ge-sù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».
Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf.
2,14-36; 3,12-26).
Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio.
Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.
Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte.
Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tem-pio, i sadducei» (4,1).
Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali.
Essi non ammettevano la risur-rezione dei morti (cf.
At 23,8; Mt 22,23).
I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico.
In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui.
Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere im-postori anche i suoi discepoli.
La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro po-tere viene da Gesù.
Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona.
«Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio.
È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).
Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non pos-sono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio.
Questa era quindi una ri-prova delle rivendicazioni di Gesù.
La sua sconfitta era stata solo apparente.
Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.
Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione.
Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore.
Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti.
Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2 Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio.
Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spiri-tuale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.
La «conoscenza» di Dio, è detto al cap.
2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso bi-blico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’ade-guazione dei propri comportamenti con i suoi.
È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui.
«Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3).
E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5).
Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).
In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre.
Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, fa-cendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio.
«Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).
È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano.
Se ci si com-porta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità.
«Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio.
La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mo-zioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.
Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.
Vangelo: Giovanni 10,11-18 In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Il mercena-rio – che non è pastore e al quale le pecore non apparten-gono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, co-nosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
E ho altre pecore che non provengono da que-sto recinto: anche quelle io devo guidare.
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso.
Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.
Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Esegesi La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini.
Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane.
Il confronto che compare altre volte nel libro (cf.
2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.
Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14).
Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro men-zogna.
Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).
I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1).
Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, le-gittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio, rubando e uccidendo le persone giu-ste e innocenti che vi si frapponevano.
I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.
Affinché non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs).
L’espressione dice di più di «buon pastore».
Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»).
Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.
Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e so-prattutto con la dedizione eguale alla sua.
La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse.
In realtà il vero pa-store è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf.
Ez 34,10).
Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.
Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari».
Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lu-pi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.
Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici».
L’evangeli-sta ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v.
11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni.
Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore.
Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate.
Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva.
È sinonimo di volontà di bene; è amare.
«Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato.
Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato.
Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero.
«Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti e-gli stesso (Gv 14,20).
Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’a-more di Gesù per l’uomo.
Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita.
Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf.
Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.
Non solo.
Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni.
Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), ri-volge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, den-tro e fuori i confini della Palestina.
La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti.
La comunità cristiana è senza frontiere, universale.
I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre.
Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).
I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza.
L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sa-cre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo.
La «voce» di Gesù che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna.
Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.
L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema i-niziale.
Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predi-lette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene.
Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poi-ché la vita data per amore diventa un guadagno (cf.
Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).
L’amore è libera donazione.
Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto.
L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste.
Per questo l’opera di Gesù è stata una risposta di amore.
 Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo «Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e of-fro la vita per le pecore» (10,14s).
In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto.
La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore.
La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre.
I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù.
Allora po-tremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro.
Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.
Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo.
Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione em-pirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo.
L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio.
Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.
La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comu-nione della conoscenza e dell’amore di Dio.
Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinita-rio.
L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre.
«La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.
Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre.
Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».
(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).
Gesù, il buon pastore Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore.
Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina.
E noi possiamo attribuire soltanto al Si-gnore l’esprimersi con bontà infinita.
Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio.
Conosce le sue peco-relle, e le chiama per nome.
Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.
Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui.
La bontà del Signore si palesa qui in maniera su-blime, ineffabile […].
Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato.
È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza.
Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uo-mo» (Gv 2,25).
È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo.
È il buon pastore dell’umanità.
Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato.
Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata.
Non c’è biso-gno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.
(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).
Il Pastore ucciso come pecora Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo.
Vediamo il suo amore che con la sua mi-tezza vince l’indolenza delle pecore.
Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono.
Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamen-to, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pe-cora con la propria fatica.
E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e gua-risce le loro fatiche.
«Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantano-ve nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4).
La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte.
[…] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, en-trato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)».
[…] «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11).
Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, co-me pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7).
Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non re-spinge quelli che lo mettono in croce.
Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore.
«Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18).
Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi.
La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione.
Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire.
Appare e rinnova l’appello alla vita.
«Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore.
Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A).
Il prete piccolo e grande Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande, nobile di spirito come di sangue reale, semplice e naturale come di ceppo contadino, una sorgente di santificazione, un peccatore che Dio ha perdonato, un servitore per i timidi e i deboli, che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri, discepolo del suo Signore, capo del suo gregge, un mendicante dalle mani largamente aperte, una madre per confortare i malati, con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino, teso verso l’alto, i piedi sulla terra, fatto per la gioia, esperto del soffrire, lontano da ogni invidia, lungimirante, che parla con franchezza, un amico della pace, un nemico dell’inerzia, fedele per sempre…
Così differente da me! (Anonimo).
Salmo 23 O Dio, che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonian-za che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.
Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esisten-ze.
Così ti preghiamo: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Grande è il tuo amore, o Dio! Tu vuoi aver bisogno di uomini per farti conoscere agli uomini, e così leghi la tua azione e la tua parola divine all’agire e al parlare di persone né perfette né migliori degli altri.
Grande è il tuo amore, o Dio! Non hai timore della nostra fragilità e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo, perché fosse nostra la tua vita che guarisce ogni male.
Grande è il tuo amore, o Dio! Ancora rinnovi la tua alleanza grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita, a chi pronuncia le parole del perdono, a chi fa risuonare annunci di vangelo, a chi si fa servo dei fratelli, testimoni del tuo amore infinito che rendono visibile il Regno.
Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone non vengano mai meno!  Tra le similitudini presenti nel quarto vangelo e attraverso le quali ci viene rivelato il mistero di Cristo, certamente quella del pastore buono (alla lettera o kalòs, «quello bello») comunica una ricchezza di sfumature sorprendenti.
È una immagine che si radica su di una lunga tradizione biblica e, nello stesso tempo, si muove all’interno di un contesto fa-miliare, quotidiano, almeno per una società nomade come era quella ebraica.
Collocata nel periodo pasquale (la quarta domenica è detta appunto del Buon Pastore), la pericope di Gv 10,1-18 ci offre una sintesi illuminante del mistero di morte e resurrezione di Cristo: Gesù è il pastore buono perché «da la propria vita per le pecore» (10,11); lui «ha il potere di dar-la e il potere di riprenderla di nuovo» (10,18).
Concludendo il suo scritto, l’autore della let-tera agli Ebrei riprende questa immagine in prospettiva pasquale: «il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene» (Eb 13,20).
Anzitutto, ciò che desta stupore nella modalità con cui Gesù si autopresenta attraverso l’immagine del pastore, è l’esclusività di questo ruolo: io sono (espressione che introduce altre immagini giovannee).
Gesù è l’unico pastore veramente buono, anzi è il pastore, colui che annunciavano i profeti.
Infatti nei testi di Is 40,11, Ez 34,1-18, Ger 23,1-4, il Pastore è il Dio provvidente che guida la storia umana, che è attento alle sorti dell’uomo per trarlo fuori da un regno di tenebre e condurlo in un luogo di luce e di pace (cfr.
anche il Sal23); è il Dio che guida il suo popolo, che non sopporta pastori che pascono se stessi, non si cu-rano del gregge e lo disperdono; è il Dio che raduna con il suo braccio il gregge e che «por-ta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
Queste stupen-de immagini usate dai profeti per esprimere la grandezza e la tenerezza dell’amore di Dio, la conoscenza reciproca e la comunione di vita tra Dio e il suo popolo, trovano il loro com-pimento in colui che si definisce il pastore bello.
Parlando davanti al sinedrio, Pietro, defi-nendo Gesù la pietra d’angolo, potrà dire: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).
Notiamo inoltre che l’aggettivo kalòs, «bello», esprime proprio la qualità di questo pastore, qualità che risponde pienamente alla sua funzione.
E dove sta la bellezza di questo pasto-re? Dove sta la sua bontà? Potremmo dire, semplicemente, nel dono di sé.
Giovanni svi-luppa questa caratteristica del pastore attraverso varie sfumature e tutte mettono il pastore in relazione con le pecore: la comunione di vita e la conoscenza reciproca, il dono della vi-ta, l’unità del gregge.
Anzitutto Gesù è il pastore che «dona la vita per le pecore» (10,11; alla lettera: pone la vita, la mette a repentaglio per qualcun altro).
E questo l’impegno radicale del pastore buono, il gesto della sua dedizione incondizionata, potremmo quasi dire il livello dell’agape di Dio.
«Gesù – come nota Léon-Dufour – non si aggrappa alla sua propria vita, egli non la riduce a una cosa posseduta, ma se ne espropria incessantemente.
La morte non è soltanto di fronte a lui, essa è dentro, è familiare».
Ed è un dono che è insieme libertà e obbedienza: «io la do da me stesso…
questo comando l’ho ricevuto dal Padre mio» (10,18).
Apparente-mente paradossale, questo rapporto tra libertà e obbedienza esprime in profondità la per-fetta unità di azione tra il Padre e il Figlio, la piena comunione (è la stessa prospettiva che domina l’intero racconto della passione, sino al «tutto è compiuto» pronunciato sulla cro-ce).
Ma Gesù è il pastore che «conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui» (10,14).
Il dono di sé del pastore bello esprime e attua quella profonda relazione di conoscenza che esiste tra lui e le sue pecore.
È una conoscenza di amore, personale, irrepetibile; essa permette di penetrare il mistero di ognuno (cfr.
10,3), di riconoscersi reciprocamente attraverso il tim-bro della voce (cfr.
10,4).
Ma questa conoscenza ha un modello e una fonte: è la comunione di vita, quel rapporto di totale appartenenza tra Gesù e il Padre (cfr.
10,19).
E infine Gesù è il pastore buono perché il suo amore non è selettivo e discriminante.
Anzi è sen-za confini: «ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare» (10,16).
Il gregge che il pastore buono guida non ha un numero chiuso: è aperto, in esso non ci sono distinzioni.
Nel cuore di questo pastore buono abita un’unica preoccu-pazione: salvare ogni pecora, ricondurla all’unità dal luogo della dispersione.
Il dono della vita di Gesù ha dunque come obbiettivo e risultato effettivo la raccolta nell’unità dei di-spersi (cfr.
Gv 11,52): «diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (10,16).
Contemplando questa icona giovannea, viene quasi spontaneo reagire con le parole di 1Gv 3,1: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per esser chiamati figli di Dio e lo siamo realmente».
Questa intima relazione tra il pastore bello – Gesù, il Figlio – e le pecore – noi, i discepoli – è la via che ci conduce nel cuore stesso di Dio: ci rende figli nel Figlio.
Ora sta a noi seguire questo pastore buono, accorgersi, nei momenti di smarrimento, del suo sguardo pieno di compassione che ci raccoglie nell’unità; sta a noi imparare a ricono-scere la sua voce, ascoltando ogni giorno la sua parola che chiama alla vita; sta a noi la-sciarci docilmente condurre per il giusto cammino (cfr.
Sal 23) lì dove è preparata una mensa, lì dove c’è il pane e il vino della condivisione.
La sua voce chiama alla vita, cioè ci chiama a uscire da ogni luogo di morte.
Colui che «ci guida per il giusto cammino» ci con-duce fuori, cioè ci fa crescere, ci educa, ci apre orizzonti sempre nuovi; ci strappa a ogni si-tuazione che rischia di chiuderci in noi stessi, in un luogo infecondo e sterile; ci porta al luogo della vita e di una vita data in abbondanza.

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