La martire Perpetua

Il primo elemento che colpisce è il fatto che l’autrice sia una donna, una giovane donna di 22 anni, sposata e con un bambino ancora lattante: si tratta di un elemento che non ha paralleli nelle letterature greca e romana e che trova solo analogie parziali con esempi moderni – Perpetua è stata accostata ad Anna Frank e a Sophie Scholl.
Si è talora dubitato che il testo sia stato effettivamente scritto da lei e che non abbia subito interventi redazionali, ma è difficile negare credito alle ripetute e solenni affermazioni del redattore, il quale sottolinea come avesse narrato lei le vicende del suo martirio nel documento che aveva lasciato – dice – “scritto di suo pugno e secondo il suo modo di sentire” (2, 3; cfr.
14).
L’autenticità viene confermata dalle differenze linguistiche e stilistiche delle sezioni autobiografiche rispetto alla parte redazionale nel testo latino della Passio, che secondo l’opinione comune è quello originale (esiste anche una versione greca).
Del resto la martire aveva tutte le capacità di elaborare uno scritto, avendo ricevuto una buona istruzione in conformità con le condizioni elevate della famiglia.
Un altro elemento che rende singolare questo scritto è il contenuto stesso: come nota Auerbach, nel racconto di Perpetua “vengono rappresentate cose che nella letteratura antica non si trovano”, e che raramente sono state descritte in prima persona: le sensazioni di orrore e disagio provate nell’ambiente del carcere, le emozioni contrastanti, di tormento oppure di sollievo e gioia, prodotte dagli incontri con i famigliari, in particolare il rapporto travagliato con il padre rimasto pagano, la pena per il bambino, le confidenze con il fratello.
Osserva ancora Auerbach: “nella letteratura antica c’era Antigone; ma qualche cosa di simile non c’era e non ci poteva essere; non c’era un genus letterario per questa realtà in tanta dignità e sublimità”.
Perpetua non solo racconta di ambienti e circostanze umili e quotidiane, di esperienze personali intime e concrete, ma lo fa con grande semplicità di linguaggio e di stile e insieme con eccezionale capacità espressiva, che raggiunge toni elevati, talora tragici, e non è affatto priva di effetti retorici.
Guardato nel suo complesso, lo scritto di Perpetua non si riesce a classificare in modo soddisfacente.
È stato definito dagli studiosi “memoria” o “autobiografia spirituale” o “diario”.
Ma solo impropriamente si può parlare di “diario” (così come si può parlare di diario di Anna Frank): nella forma in cui ci è pervenuto, non appare compilato giorno per giorno e l’autrice si mostra pienamente consapevole della sorte che la attende, avendone ricevuta una sorta di rivelazione attraverso un sogno, o visione notturna, già nei primi tempi della carcerazione (4, 10).
Inoltre, non scrive soltanto per se stessa, ma per lasciare un messaggio di fede ai fratelli della comunità cristiana.
Indizi di una composizione elaborata e intenzionale sono l’accurata alternanza e i nessi tra i fatti e le visioni, la struttura speculare e concentrica delle visioni, lo sviluppo progressivo della narrazione, che è di segno negativo per quanto riguarda i rapporti col padre e le prospettive della propria esistenza terrena, di segno positivo per quanto riguarda la comprensione del proprio destino sul piano della salvezza spirituale.
Si potrebbe supporre che Perpetua abbia, in una fase di revisione finale, selezionato e ordinato i materiali del suo diario avendo in mente una sorta di progetto.
In particolare hanno un rilievo strategico le visioni, o sogni, che costituiscono la componente più rilevante del testo e sono state oggetto di molta attenzione, ma sono anche state e sono tuttora molto discusse a proposito del loro carattere e del loro significato.
Si tratta di esperienze reali o di artifici letterari? Sono manifestazioni oniriche da interpretare coi metodi della psicologia dell’inconscio o sono costruzioni narrative i cui simboli vanno compresi sulla base del patrimonio religioso di Perpetua? E quale? La tradizione pagana ancora radicata nel profondo o l’immaginario biblico assimilato nella catechesi? Una soluzione equilibrata può essere quella di ammettere che alla base ci siano stati fenomeni effettivi (si possono notare riferimenti alle concrete vicende vissute) e che alcuni particolari apparentemente assurdi si spieghino come tratti onirici, e non va neppure negata a priori la possibilità di una plurivalenza delle immagini.
Ma i sogni, o visioni, che conosciamo sono frutto di una trascrizione effettuata in stato di veglia, in base a un ripensamento intervenuto a posteriori che ne ha colto un significato: non a caso ogni volta i racconti delle visioni si concludono con la formula “e compresi” (intellexi o cognovi) o “comprendemmo” (intelleximus).
Inoltre la volontà di lasciare il documento alla comunità indica un intento comunicativo che non può non aver influenzato la scrittura.
L’ambito di riferimento più chiaro e significativo sono la Bibbia e la fede cristiana.
È evidente un buon numero di allusioni bibliche, che rinviano in particolare alla Genesi, all’Apocalisse, a Paolo; in alcuni casi si tratta di vere e proprie citazioni, come è la frase “gli calcai il capo”, che rinvia a Genesi, 3, 15 e ricorre sia nella prima sia nella quarta visione e viene applicata al dragone (4, 7) e all’avversario egizio (10, 11), entrambi immagini del diavolo.
Ma sono anche riconoscibili in tutte le visioni allusioni di tipo sacramentale.
Anche da questo punto di vista si coglie una progressione, una sorta di via perfectionis.
Del resto anche i racconti di episodi fanno trapelare allusioni simboliche, spesso bibliche, e riferimenti metafisici: ad esempio, nella descrizione del primo incontro col padre, Perpetua assimilando se stessa, come cristiana, a un recipiente che si trova nella cella (3, 1-2) verosimilmente riutilizza un’immagine paolina e alla fine dell’incontro associa i ragionamenti del padre a quelli del diavolo (3, 3).
Si può dire che il diario, nella pluralità e nell’intreccio degli elementi che lo compongono, assolva a diversi obiettivi, personali e comunitari: mira al superamento delle disarmonie e delle ansie dolorose del vissuto presente per ricomporle su di un livello della realtà altro e più vero; addita a sé e agli altri un progetto divino del tutto positivo, già rivelato nella Sacra Scrittura, mostrando che si realizza pienamente al di fuori della storia ma già trova occasioni di compimento nella vita cristiana e nella comunione coi fratelli di fede.
(©L’Osservatore Romano – 1 maggio 2009) Il diario di Perpetua testimonia, insieme a un buon numero di altri scritti, antecedenti e posteriori, quanto il cristianesimo abbia favorito il parlare e raccontare di sé, in misura maggiore e in modalità originali rispetto alla tradizione classica.
Per lo più questo fenomeno è stato riconosciuto a partire dalle Confessioni di Agostino, che si collocano alla fine del iv secolo e sono state considerate il vero inizio dell’autobiografia in senso moderno.
In realtà una produzione di tipo autobiografico compare fin dall’inizio della letteratura cristiana in varie forme e contesti: pensiamo a molte pagine dell’apostolo Paolo, ma anche, per limitarci ad autori del ii secolo precedenti a Perpetua, a Ignazio di Antiochia, a Erma, a Giustino.
Però il suo diario mostra caratteri del tutto eccezionali e si può dire unici per il mondo antico.

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