“Nuove tecnologie, nuove relazioni”

Pubblichiamo ampi stralci della relazione del direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense nell’ambito del convegno “Nuove tecnologie, nuove relazioni”.
”Quando nel 1854 il commodoro Perry regalò una locomotiva a vapore allo shogun Ieyasu per celebrare l’apertura ufficiale degli scambi commerciali americano-nipponici – racconta Derrick De Kerckhove ne La pelle della cultura lo shogun mandò il suo artista di corte perché riproducesse la locomotiva su un dipinto dato che gli era impossibile andare a vederla di persona.
L’artista giapponese trovò così difficile rappresentare il nuovo oggetto che aggiunse un poscritto per l’imperatore: “Temo di avere fatto molti errori nel mio schizzo”.
Noi tendiamo a trovare sorpassati o buffi questi episodi che avvengono al punto di incrocio di culture diverse, ma non va dimenticato che quando una nuova tecnologia viene introdotta, essa ingaggia una guerra sotterranea con la cultura preesistente”.
L’ammissione dell’artista giapponese sembra fotografare l’incertezza diffusa che si sperimenta di fronte all’incalzante cambiamento che la tecnologia sta producendo sotto i nostri occhi.
Un ritmo che diventa insostenibile per chi proviene da ben altre velocità e che rischia di trasformarsi in un handicap culturale perché impedisce la descrizione esatta di questo oggetto misterioso dalle dimensioni e dalle prospettive indefinite.
Non si riesce a fare senza errori uno schizzo del mondo, ai tempi del web 2.0, perché la realtà della comunicazione sembra sfuggire da ogni lato, quasi che ogni sua rappresentazione sia carente.
L’uscita di sicurezza da questo imbarazzante stato di cose è – come sempre – dissimulare tutto: atteggiandoci a ingenui spettatori o a critici pregiudiziali, apocalittici o integrati.
In entrambi i casi, non dovendo esprimersi in modo circostanziato perché o già d’accordo o solo contrari, si manifesta la sostanziale incapacità di reagire all’altezza delle sfide.
Ma non è questo, a mio parere, il danno più cospicuo.
Quel che è più grave e che sfugge la questione decisiva che è poi sempre la stessa e cioè: ogni cambio tecnologico ha qualcosa di “gattopardesco” nei suoi esiti.
Cambia tutto in effetti, ma per rispondere agli stessi bisogni di sempre dell’uomo.
La guerra che si ingaggia prelude a un modo nuovo di rispondere ai bisogni di sempre.
Questa convinzione, che dà corpo a un atteggiamento né ingenuo né pregiudiziale ma criticamente aperto, mi pare ben interpretata da Benedetto XVI, per il quale le nuove tecnologie rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è per altro radicato nella nostra stessa natura di esseri umani.
Anzi scrive in uno dei passaggi-chiave del suo Messaggio per la xliii giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”.
Niente di nuovo sotto il sole? Non propriamente, perché il cambio è epocale; tuttavia potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesima trasformazione che cambia la pelle, ma non il cuore che va comunque alla ricerca dei bisogni di sempre.
Una cosa è certa: il dialogo, il rispetto e l’amicizia sono valori assolutamente antichi che oggi chiedono di essere vissuti in forme inedite a motivo dell’ambiente mass-mediale che è stato così radicalmente trasformato.
Per attenuare l’impatto del nuovo che rischia di annullare le nostre capacità di reazione, dobbiamo forse rimuovere anche un diffuso pregiudizio che fa del virtuale l’equivalente di ciò che non è reale.
La ricorrente guerra tra virtuale e reale rischia di inscenare una farsa che allontana dalla vita spicciola della gente, specie dei giovani, in nome di un fatale fraintendimento.
Forse ci può essere di aiuto Pierre Lévy che nei suoi studi – prima ancora dell’esplosione del web 2.0 – nel volume intitolato Il virtuale definisce come segue questa realtà: “La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato a sua volta, da virtus, forza, potenza.
Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto.
Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale (…) il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”.
Dunque il virtuale – o se si preferisce alludervi mediante la sua controparte tecnica, il digitale – non crea una nuova umanità (o sociologia, o antropologia, o biofisiologia), ma amplifica e potenzia quella esistente.
Ciò significa che approssima le capacità agli obiettivi, e assottiglia il legame che sempre esiste tra possibile e reale: in altri termini, rende approcciabile tutto ciò che confiniamo abitualmente nella sfera del desiderio (usando questo termine come sinonimo di “onirico” e quindi, spesso, di puramente fantastico, evanescente, irraggiungibile e irreale), rende “capaci di ciò che si spera” e, in questo senso, rende la speranza – forse ogni speranza, anche la più ardita e utopica – in un certo senso più solida, più credibile, più vera.
Questa possibilità che è il virtuale spiega pure perché ancora una volta il discorso da intraprendere non sia asettico o puramente tecnologico, ma sempre legato a doppio filo alla libertà e alla responsabilità dell’uomo.
È l’uomo quello che fa la differenza e che decide del passaggio dal virtuale al reale, sta nella scelta di ciascuno rendere possibile questo slittamento.
Per questa ragione – se è lecita una piccola digressione – nel manifesto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 maggio) che viene recapitato in questi giorni a tutte e 26.000 le parrocchie italiane si è scelto di mettere al centro un giovane scalatore di fronte a una parete.
Accessoriato come si deve: scarpette e un sacchetto di magnesio per facilitare le mani nude nella presa.
E soprattutto proteso visibilmente nel suo sforzo fisico.
Al di là delle tecniche e degli ausilii tecnici, che sono certo un grosso potenziale, di cui non si potrebbe fare a meno, ciò che conta è la forza di volontà che si trasforma in energia, resistenza, agilità.
E rende possibile la scalata.
Accanto a questa possibilità così intesa c’è pure una possibilità problematica da considerare con realismo.
Non vi è dubbio infatti che le nuove tecnologie informatiche possono deformare, possono causare dipendenza, possono creare effetti di ritorno nel momento in cui – cessato il loro effetto di alterazione – sbalzano il soggetto nel mondo reale e ne lasciano percepire, per contrasto, la durezza e la limitatezza; possono in questo senso indurre distorsioni percettive e perdita del controllo nelle fasi critiche.
Ma al di là di tutte queste possibilità, la domanda valida in tutti i casi esplicativi della relazionalità umana non è se questa cosa sia buona o cattiva, ma se siamo in grado di controllarla o se rischiamo di esserne sopraffatti.
Siamo consapevoli dei suoi effetti collaterali o al pari di un drogato o di un ubriaco ce ne accorgiamo solo a sbornia o a effetto finiti? Come si intuisce resta all’uomo il compito di colmare il divario tra virtuale e reale, trasformando il potenziale tecnologico in una effettiva crescita umana.
Non senza tenere conto, nel caso di internet, la sua estrema versatilità, che “si presta in egual misura a una partecipazione attiva e a un assorbimento passivo in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale, sì da poter essere utilizzata per rompere l’isolamento degli individui e dei gruppi oppure per intensificarlo” (Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, 22 febbraio 2002, 7).
Venendo ora nello specifico ai tre grandi valori che Benedetto XVI evoca per declinare l’umano da risvegliare dentro il nuovo contesto massmediale, l’amicizia si impone da subito come una sfida esigente.
La questione si gioca attorno al rapporto tra connettività e riconoscimento dell’identità.
Nessuno può negare che le protesi informatiche fungano da facilitatori dell’amicizia, ma si può anche dire che Msn, Facebook, Linkedin, riconoscano e facciamo realisticamente conoscere tra loro i partner? O sono solo espedienti e catalizzatori di un incontro più accelerato, agevole (in quanto abbattono le barriere comunicative e i preliminari classici della relazionalità) ma non per questo esente da ambiguità? In altre parole: i media offrono amicizia, o solo nuove opportunità di amicizia? Sono ovviamente per la seconda possibilità.
E non solo per realismo, ma per rispetto dei linguaggi che non possono sostituirsi alla libera elezione umana che fa dell’amicizia non una scelta semplicemente indotta, ma una scelta gelosamente personale.
Così è sempre stato e credo che non si possa fare diversamente neanche oggi.
Nel concreto, mentre da un lato la multimedialità è in grado di metterci in comunicazione con tanti volti che altrimenti non avremmo mai incontrato, dandocene una rappresentazione immensamente più efficace di qualunque strumento di comunicazione, dall’altro è proprio l’essenziale – cioè la forza spiazzante – del volto che rischia di essere eliminato o ridotto a inoffensivo spettacolo.
Tornino i volti e non semplicemente le facce, vuol dire confrontarsi con l’altro da sé e non semplicemente con una sua riproduzione addomesticata.
Occorre di conseguenza guardarsi da facili scorciatoie che tendono a esasperare false intimità in relazioni virtuali e rispettare invece i tempi e le forme reali dell’amicizia.
Quello del tempo è obiettivamente un indicatore con cui fare i conti per non essere sopraffatti dalla velocizzazione che toglie al ritmo interpersonale la sua condizione di possibilità.
Se ciò accade non è impossibile allora “promuovere l’amicizia” secondo l’auspicio del Papa.
Infatti nelle tipologie estremamente varie di comunità che nascono in rete, la condivisione più importante è il self sharing.
Al di là degli interessi infatti la motivazione più forte alla base delle relazioni virtuali sembra essere quella di condividere emotivamente i propri vissuti.
Si tratta di un’urgenza accresciuta dall’assenza del corpo, per cui alla fine lo strumento di espressione sono le parole che in rete si trasformano in atti.
Forse per questo, secondo Manuel Castells, internet costituisce un mezzo attraverso cui si va diffondendo un nuovo modello di socialità, la cui nascita è anteriore a quella della rete e va rintracciata nelle trasformazioni che hanno segnato la fine della modernità.
La nuova forma di socializzazione che internet permette di rappresentare è definita dal sociologo spagnolo, trapiantato in America, networked individualism.
Si tratta di un nuovo modello di interazione sociale che ha come cellula minima non più il gruppo, ma l’individuo e che si struttura attraverso la messa in rete di singoli soggetti che sempre meno hanno una comunità tradizionale di riferimento, ma non per questo vivono in maniera isolata.
Il pontificato di Benedetto XVI coincide di fatto con una evoluzione ulteriore del mondo della rete: la sua decisa trasformazione in un network sociale.
Internet non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, ma sempre più un luogo di partecipazione e di condivisione.
Tutta la grande stampa ha enfatizzato l’approccio positivo del Papa nel suo Messaggio, rafforzato anche dall’annuncio del suo “sbarco” su “youtube”.
Probabilmente non ha colto a sufficienza che tra psychè e tèchne, tra reale e virtuale non c’è necessariamente uno scontro, se di mezzo si inserisce la persona umana, cioè quella tensione etica a essere se stessi, senza lasciarsi manipolare.
Sarà per questo che con fiducia Papa Ratzinger si rivolge proprio ai giovani, cui affida il compito di evangelizzare il continente digitale, consapevole che la comunicazione ben fatta è una via per avvicinarsi a Dio, anzi – per dirla con le sue stesse parole: “Un riflesso della nostra partecipazione al comunicativo e unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

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