La letteratura epica dell’India ha un testo, il Mahabharata che, con i suoi 90.000 versi è la più lunga epopea della letteratura universale.
L’oggetto del Mahabharata è di raccontare il conflitto che oppone due famiglie di prìncipi, i Kaurava e i Pandava in lotta per la successione del re dei Kuru.
Il conflitto sbocca in una grande guerra escatologica che annuncia la fine di un’era e l’inizio di una nuova.
Il Mahabharata, oltre ai suoi molteplici sviluppi leggendari, racchiude un testo riconosciuto come il vertice del pensiero religioso indiano e una delle più straordinarie realizzazioni del pensiero universale: la Bhagavad Gita.
La Gita riporta il dialogo tra Krishna, incarnazione di Vishnù, e Arjuna, uno dei principi guerrieri, prima di ingaggiare la battaglia.
L’insegnamento consiste nel principio che la cessazione della violenza non ha alcun valore se non è accompagnata dall’arresto dei pensieri e dei desideri violenti.
Si ritrova qui, espressa con altre parole, la posizione di Gesù a proposito del comandamento «Non uccidere» (Mt 5,21-22) e quella di Buddha che stabilisce il primato dell’azione dello spirito.
La vera saggezza non consiste nell’abbandonare ogni azione, ma nell’abbandonare lo spirito di attaccamento che ci lega all’azione.
Questo è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita: si può compiere un’azione senza essere legati ad essa, perché l’azione senza attaccamento lascia libero colui che agisce.
È sufficiente per questo spegnere il desiderio che concerne i risultati dell’azione (Bhagavad Gita, XVIII, 10,11): L’uomo saggio che rinuncia, i cui dubbi sono dissipati, la cui natura è la bontà, non ha né avversione per l’azione sgradevole, né attaccamento per l’azione gradevole.
È infatti impossibile ad ogni essere incarnato astenersi interamente dall’azione.
Ma colui che abbandona il frutto dell’azione, pratica il vero abbandono.
La Bhagavad Gita non considera la guerra sotto l’angolazione del problema morale; l’ideale è lo stato di pace: una pace che è interiore, ma che è anche nello spazio sociale.
Numerosi passi mostrano che lo spirito di tolleranza impregna tutto il romanzo.
Il “Jihad minore” è detto Jihad al-saghir.
Jihad è il termine utilizzato nei versetti del Corano in cui è definito l’atteggiamento dell’islam nei confronti della guerra.
Impropriamente tradotto nelle lingue europee con “guerra santa”, Jihad significa invece “lotta, sforzo teso verso un determinato scopo” ed è generalmente integrato nell’espressione Jihad fi sabil Allah, “sforzo sul cammino di Dio”.
La traduzione corretta di questa parola dà la misura delle concezioni islamiche: le guerre intraprese da Muhammad si situano in una prospettiva molto precisa di sforzo personale del credente così come indica questo versetto: «Sforzatevi sul cammino di Dio contro coloro che vi faranno la guerra.
Ma non commettete ingiustizie attaccando per primi, perché Dio non ama affatto gli ingiusti».
Lo spirito religioso di cui è investito il Jihad apre però la porta agli eccessi, poiché, dando un valore religioso alla guerra, si rischia inevitabilmente di trasformare la religione in un’impresa bellica.
I primi combattenti dell’islam dovevano battersi per diffondere la parola divina e compiere le loro azioni in un totale spirito di sacrificio.
Il Jihad diveniva dunque l’azione più elevata, perché, rispetto agli altri atti di sottomissione a Dio, si dava la propria vita combattendo nel Suo Nome.
I guerrieri uccisi nel Nome di Allah diventavano così i “testimoni”, si assicuravano la Salvezza eterna ed entravano immediatamente in Paradiso (Sura, II, 49): Non dite che coloro che sono uccisi sulla via di Dio sono morti.
No, essi sono vivi; ma voi non lo comprendete.
Questa morte benedetta cancella i peccati commessi e i mujahid, i combattenti del Jihad (cioè coloro che praticano lo sforzo sul cammino di Dio), compiono una delle pratiche più sante, al punto che un Hadith afferma che «il Jihad è il monachesimo dell’Islam».
Col tempo l’uso delle armi divenne meno evidente e i musulmani adottarono delle posizioni diverse su questo tema, a seconda della scuola di appartenenza.
Il problema, dopo la morte del Profeta e la sottomissione dell’Arabia, fu se il Jihad armato dovesse essere ancora perseguito.
A questa domanda i primi successori del Profeta diedero una risposta precisa: per essi il Jihad offensivo era legittimo.
I paesi vicini non musulmani erano considerati come dar el-Harb, paesi di guerra; questa espressione si contrappone al dar al-Islam, il territorio dove regnano la pace e la fede; infine vi è il dar al sulh, il territorio che paga tributi e che è retto da una convenzione specifica.
In seguito, però, le interpretazioni cominciarono a divergere e il Jihad ebbe delle interpretazioni differenti.
Fin dall’inizio della sua predicazione Muhammad si urta contro l’ostilità della maggior parte dei membri della tribù dei Kuraysh.
Per una decina d’anni, i primi seguaci dell’islam furono violentemente attaccati dai concittadini della Mecca.
L’animosità nei loro confronti spiega la risposta progressivamente offensiva dei musulmani dopo la fuga a Medina.
Con l’esilio a Medina cominciarono infatti le prime operazioni militari.
Si trattò inizialmente di semplici razzie, secondo la tradizione beduina, con uno scopo essenzialmente economico, poiché il bottino era indispensabile alla sopravvivenza degli emigrati musulmani.
Questi si trovavano infatti nel bisogno a causa del boicottaggio commerciale di cui erano oggetto da parte degli avversari della Mecca e dell’abbandono dei loro beni.
Tuttavia, poiché queste azioni erano rivolte contro le carovane della tribù dei Kuraysh, esse rivestivano pure un carattere “nuovo”, quello di “guerra santa” contro gli infedeli.
Lo scopo propriamente economico delle spedizioni, si vede così trasformato in scopo spirituale: diffondere la vera fede.
Alcune rivelazioni coraniche cominciarono, da quel momento, a fissare le regole per definire le spedizioni militari dell’islam: si stabilisce che un quinto del bottino è destinato ad Allah, al Profeta e ai bisognosi (Sura VIII, 41): Sappiate che del bottino che conquisterete, un quinto appartiene ad Allah e al Suo Messaggero, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti, se credete in Allah e in quello che abbiamo fatto scendere sul Nostro schiavo nel giorno del Discrimine, il giorno in cui le due schiere si incontrarono.
Allah è onnipotente.
L’Arabia preislamica rispettava una tregua nei combattimenti in alcuni mesi dell’anno considerati sacri.
Quando, un giorno, alcuni musulmani decisero di violare questa tregua e di attaccare una carovana della Mecca, tornati a Medina con il quinto del bottino da consegnare al Profeta, furono accolti nel disprezzo generale e il Profeta rifiutò di prendere la sua parte del bottino.
Poco tempo dopo ricevette una rivelazione relativa a questo fatto che formulava in modo esplicito il diritto di fare la guerra e il dovere del credente (Sura II, 212): Ti chiedono del combattimento nel mese sacro.
Di’: «Combattere in questo tempo è un grande peccato, ma più grave è frapporre ostacoli sul sentiero di Allah e distogliere da Lui e dalla Santa Moschea.
Ma, di fronte ad Allah, peggio ancora scacciarne gli abitanti.
L’oppressione è peggiore dell’omicidio».
Ebbene, essi non smetteranno di combattervi fino a farvi allontanare dalla vostra religione, se lo potessero.
E chi di voi rinnegherà la fede e morirà nella miscredenza, ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra.
Ecco i compagni del Fuoco: vi rimarranno in perpetuo.
Quindi, la mancanza di fede non solo è considerata molto più nefasta della guerra, ma si afferma un concetto molto pesante, cioè che «la tentazione dell’idolatria è peggiore della carneficina».
Sembra infatti che Muhammad fosse convinto del successo ultimo della sua impresa, ricordando senza sosta l’origine divina della sua missione.
Il primo scontro importante fu quello di Badr (624) di cui la tradizione musulmana serba un ricordo leggendario.
La battaglia oppose circa 300 musulmani contro un migliaio di Kuraysh: la vittoria finale dei musulmani fu dovuta a un intervento divino che si manifestò con la venuta di angeli discesi dal cielo per combattere al loro fianco.
A partire da Badr, i guerrieri musulmani diventano davvero gli strumenti di Dio per punire coloro che lo negano: «Non siete voi che li uccidete, è Dio.
Quando tu lanciavi un dardo, non eri tu a lanciarlo, era Dio…» (Sura, VIII, 17).
Quella battaglia resterà nel cuore di tutti i musulmani come il simbolo della vittoria divina sugli infedeli.
L’unità e la conversione delle tribù arabe sottomesse all’islam era ancora fragile quando Muhammad morì nel 632 e i primi quattro califfi che gli succedettero dovettero lottare per mantenere la coesione dell’islam.
Si trovarono di fatto impegnati nella via della conquista aperta dal Profeta.
Rapidamente l’Arabia fu totalmente sottomessa e le truppe islamiche penetrarono più a nord.
L’espansione che seguì fu fulminante, e in circa 50 anni, l’islam si espanse su un territorio che andava da Gibilterra all’Indo.
Ma oramai le lotte intestine dividevano i capi.
È in questa epoca che si forgiarono i fondamenti della religione musulmana e, tra questi, un termine destinato ad avere un destino importante: il Jihad, distinto in “Jihad dei corpi” (o “Jihad minore”) e”Jihad delle anime” (o “Jihad maggiore”).
1.
Quali sono le differenti interpretazioni del Jihad? 2.
Che cosa s’intende per “Jihad Maggiore” e per “Jihad Minore”? 3.
Spiega l’ambivalenza della figura di Shiva.
4.
Qual è l’insegnamento fondamentale della Bhagavad Gita? 5.
Quali sono i fattori della filosofia buddista che favoriscono lo sviluppo della non-violenza? Il concetto di non-violenza, ahimsa, significa letteralmente “assenza del desiderio di uccidere” e trova la sua origine nei gruppi di erranti e di asceti che si opponevano alla casta sacerdotale dei bramini che praticavano il ritualismo vedico.
È in una di queste sette, il Jainismo, che l’ahimsa trovò la sua applicazione etica più radicale: il monaco deve per esempio spazzare il cammino davanti a sé per non schiacciare gli insetti, e deve coprirsi la bocca con un tessuto fine per evitare di ingoiarli.
La non-violenza di Gandhi rappresenta uno sviluppo di questa antica ahimsa.
La non-violenza gandhiana riveste due aspetti: da un lato è una tecnica di attivismo politico, dall’altro è un mezzo di superamento di se stessi con l’interiorizzazione della violenza.
Diceva Gandhi che «È l’arma dei forti con i forti»; «Io so come posso predicare con successo l’ahimsa a coloro che sanno morire, ma non a coloro che hanno paura della morte».
Certamente l’induismo non ha mai lottato e massacrato per convertire gli stranieri alla sua religione come hanno fatto il cristianesimo e l’islam, tuttavia il fanatismo è oggi largamente presente anche nell’induismo: contro il buddismo, contro l’islam (in questo caso si tratta di risposta a una aggressione) e recentemente anche contro il cristianesimo.
Nell’antica letteratura vedica si trovano numerosi passaggi guerreschi che ricordano la vocazione militare dei nomadi indoeuropei.
Alcuni inni come il seguente invocano gli dei per distruggere i nemici: Fai tremare, o Arbudi, i ranghi dell’esercito nemico, e che il vincitore e il vittorioso, ai nostri nemici, con l’assistenza di Indra, impongano la loro vittoria.
Che giaccia, schiacciato, stritolato, ucciso, il nostro nemico, o Arbudi! Che quella di cui Agni [dio del fuoco] è la lingua, e il fumo la treccia, vittoriose, marcino con il nostro esercito! I Veda presentano Indra come divinità maggiore e rappresenta la sovranità guerriera.
La civiltà degli Ariani sacralizzava la forza violenta al punto di trasformarla in fonte di vita, ed era la casta dei guerrieri che assicurava il mantenimento e lo sviluppo della ricchezza attraverso continue conquiste.
Successivamente Indra perderà la sua importanza e dall’epoca classica saranno altre divinità a contendersi il favore degli Hindù: Shiva, Vishnù e la Grande Dea; tuttavia il ruolo di Indra è interessante perché permette di cogliere il valore religioso della violenza così com’era sentita dagli Ariani in epoca vedica.
Dopo aver riflettuto sul rapporto con la guerra tenuto dalla religione ebraica e da quella cristiana, questo mese prenderemo in considerazione l’islam, l’induismo e il buddismo.
Numerosi avvenimenti recenti hanno sensibilizzato l’opinione pubblica sul contenuto politico e guerriero della religione islamica.
I fantasmi di un islam vendicativo e bellicoso sono ritornati senza però analizzare i fondamenti religiosi che sono alla base di quegli atteggiamenti.
L’islam è la sola delle grandi religioni che abbia manifestato un interesse vero per la guerra al punto da integrarla, in un certo senso, come uno dei precetti del vero credente.
D’altra parte, la posizione dell’islam sulla guerra è incomprensibile se non la si riferisce all’epoca del profeta Muhammad.
Da parte sua l’induismo non presenta un atteggiamento univoco di fronte alla guerra e alla violenza, così come di fronte ad altri aspetti della vita e della spiritualità.
L’elemento che emerge con maggior vigore è la molteplicità delle risposte: cosa vi può essere di comune tra Indra, il Dio guerriero e la pratica dell’ahimsa che rifiuta radicalmente di uccidere? Tra Shiva, il Dio distruttore, e il messaggio della Bhagavad Gita dove Krishna sceglie il campo di battaglia per consegnare al mondo uno dei più straordinari insegnamenti religiosi? Al di là di tutte le differenze ogni percorso è volto a trascendere la guerra, cioè a utilizzarla come mezzo di progresso spirituale.
Alla fine attraverso l’insegnamento della Bhagavad Gita e della non-violenza, l’induismo presenta una riflessione che regge l’impatto con il mondo moderno.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Il “Jihad maggiore” è detto Jihad al-Kabir e rientra nell’ambito esoterico dell’islam.
In questo nuovo Jihad le parole “guerra” e “guerrieri” diventano simboli della condotta religiosa.
L’interpretazione del Jihad maggiore è stata sviluppata soprattutto a opera dei sufi, cioè quei santi e mistici musulmani di scuola sunnita e sciita.
Per i sufi, la “guerra santa” può essere compresa su un piano mistico ed esoterico volto alla trasformazione interiore dell’uomo.
Tale trasformazione si realizza nel senso dell’abbandono spirituale dell’individuo nella divinità, nel riconoscimento intimo che «non c’è altro Dio che Dio».
Un simile assorbimento dell’anima nell’Unico Dio richiede la purificazione, ed è proprio questa purificazione che esprime il Jihad delle anime, la grande “guerra santa”.
Questa interiorizzazione del Jihad trasforma così la lotta contro l’infedele (che è nel prossimo), in lotta contro l’infedele (che è in ciascuno).
L’oggetto del Jihad delle anime è dunque evidente: bisogna uccidere il nemico che è in noi, rinunciare agli istinti e alle passioni.
Si possono citare numerose frasi di sufi che accreditano questa interiorizzazione del Jihad.
Il grande mistico Rumi ebbe a dire: «I profeti e i santi non fanno forse anch’essi degli sforzi (Jihad)? Il primo sforzo che hanno fatto era di uccidere la bramosia della loro anima e di rinunciare ai desideri e alla concupiscenza; è qui la grande guerra (Jihad al-Kabir)».
Questa nuova visione del Jihad getta una nuova luce su diversi versetti del Corano.
Così quando questo afferma: «Combatteteli (gli infedeli) fino a quando non c’è più sedizione ed ogni fede è quella di Dio» (Sura, VIII, 40) significa, per il sufi, che bisogna combattere totalmente quelle passioni che non sono rivolte a Dio, affinché la fede della nostra anima sia tutta intera assorbita in Lui.
Tutto ciò mostra il cambiamento radicale di prospettiva sulla concezione del Jihad, a seconda se lo si considera sotto un aspetto piuttosto che sotto un altro.
Certamente, la maggior parte dei versetti del Corano che menzionano il Jihad sembra riferirsi a situazioni in cui il nemico non è interno, ma esterno; tuttavia, sarebbe negare ogni profondità spirituale al Corano e al Profeta pensare che Muhammad non abbia guardato alla lotta contro se stessi come all’applicazione ultima del Jihad.
D’altra parte, in questo senso si esprimono anche due Hadith del Profeta.
Il primo conferma l’importanza della lotta contro le passioni: Nessuno di voi sarà un credente se non avrà assoggettato le passioni a ciò che ho portato.
Il secondo Hadith nomina direttamente il Jihad maggiore come elemento essenziale della religione islamica; parlando a uno dei suoi compagni, il Profeta dice: Vuoi che ti indichi la parte principale della religione, la sua colonna e il suo culmine? La sua parte principale è la sottomissione (al-Islam) alla volontà divina; la sua colonna è la preghiera rituale; il suo culmine è il Jihad.
Un simile Hadith che vede il Jihad come il culmine della religione, permette di sostenere una spiegazione simbolica e spirituale dell’applicazione militare del Jihad.
La violenza e la distruzione inerenti al mondo sono quindi valorizzati religiosamente nel sistema Hindù grazie a Shiva.
Il Dio Shiva non è propriamente legato al mondo della guerra ma è ugualmente rilevante perché, nella famosa triade divina dell’induismo classico, la Trimurti, egli rappresenta il principio distruttore accanto a Brahma, il creatore e a Vishnù, il conservatore.
Shiva è un dio terrificante, ornato di serpenti e scorpioni.
Ma è anche il Benevolo e il Protettore.
Nelle sue diverse rappresentazioni il suo aspetto violento e distruttore è associato a un altro per nulla negativo.
Dice lo storico Alain Daniélou in un suo saggio su Shiva (A.
Daniélou, Shiva et Dionysos, Fayard, Paris, 1979, p.
93) che Tutto ciò che nasce muore.
Il principio della vita è associato al tempo, cioè al principio della morte.
Il dio creatore è anche il dio distruttore.
La vita si nutre della morte.
Non c’è niente che viva senza distruggere e divorare altre vite.
Pertanto Shiva ha un aspetto terrificante.
Lo scopo della vita è quello di progredire spiritualmente sostituendo costantemente in sé qualche cosa di meglio rispetto a ciò che non lo è.
Il principio distruttore di Shiva bisogna comprenderlo a un livello spirituale: sono le nostre passioni per un mondo effimero, le nostre illusioni che bisogna distruggere.
Ma Shiva è anche Maestro dello yoga, e in quanto tale insegna agli uomini il modo di elevarsi spiritualmente (J.
Herbert, L’Hindouisme vivant, Laffont, Paris, 1975, p.127): L’azione contemporaneamente distruttrice e yogica di Shiva ha come conseguenza inevitabile una ri-creazione.
Questa successione continua di distruzione/ricreazione si trova espressa nella danza cosmica tipica dei rituali esoterici dei fedeli di Shiva.
Il buddismo ha predicato una morale in cui si ritrovano i precetti comuni a tutte le grandi religioni: non uccidere, non rubare, non mentire ecc.
Tuttavia, più che nelle altre religioni, il rispetto degli altri viene praticato al punto di diventare la virtù primaria da perseguire.
Questa atmosfera di non violenza che circonda il buddhismo deriva da diversi fattori che permettono di cogliere alcuni elementi della sua filosofia.
1.
Vi è prima di tutto la tradizione dell’ahimsa, “l’assenza di desiderio di uccidere” che era già presente nell’ambito dei rinuncianti indiani presso cui si è sviluppato il buddismo.
Nel buddismo la non-violenza e il rispetto altrui non provengono da un dogma ma da una certa visione del mondo che favorisce il senso della misura.
Così la violenza, come ogni eccesso di passione è fortemente controllata da una pratica che favorisce la riduzione dei desideri e il controllo di sé.
2.
Il buddismo pone anche la compassione come fonte essenziale della sua etica, come un complemento essenziale alla saggezza.
Il simbolo di questa compassione è il Bodhisattva, cioè colui che, pervenuto sulla soglia del Nirvana, ritorna nel mondo per aiutare tutti gli esseri a incamminarsi verso la liberazione.
3.
Infine vi è la tolleranza che è uno degli aspetti più evidenti del buddhismo.
I testi buddisti brulicano di storie che illustrano la centralità della tolleranza.
Una di queste, tratta dall’Upalisutra, è molto citata, racconta che Upali, un discepolo di Mahavira, maestro della comunità jainista, venne dal Buddha per ingaggiare con lui un confronto sul karma.
Naturalmente, alla fine, Upali viene convinto da colui che voleva convincere, e gli chiede di diventare suo discepolo.
Il Buddha gli raccomanda allora di non affrettarsi e di riflettere con cura prima di prendere una simile decisione.
Quando Upali ripropone il suo desiderio, Buddha lo accoglie, ma domandandogli prima di tutto di continuare a rispettare e a sostenere il suo vecchio maestro religioso.
4.
La tolleranza come il rispetto degli altri e il precetto di non uccidere, si fonda sulla coscienza buddista dell’unità dell’universo.
Tutti i fenomeni e tutte le esistenze sono solo degli aggregati passeggeri, per cui è la stessa vita che anima tutti gli esseri dell’universo; allo stesso modo, aggredire una persona equivale ad aggredire se stessi.
Per lo stesso principio quando un solo essere perviene all’illuminazione, ne beneficia il mondo intero.
L’imperatore Ashoka si convertì al buddismo dopo essere rimasto profondamente turbato dai massacri da lui compiuti conquistando il regno dei Kalinga.
Egli proclamò a quel punto la sua fede e decise di rinunciare alla conquista con le armi consacrandosi unicamente alla diffusione della “Legge” buddista.
I suoi editti, incisi sulla roccia, sono rimasti conservati: Che essi non pensino che la conquista con le armi meriti il nome di conquista.
Che essi considerino come vera conquista solo le conquiste della Legge.
L’aspetto più straordinario è che Ashoka non cercò di sfavorire le altre religioni per favorire la propria.
Contemporaneamente all’invio di missionari a Ceylon, in Birmania e nel nord-ovest dell’India egli predicò una tolleranza totale nei confronti delle altre dottrine: Tutte le sette si propongono il controllo dei sensi e la purezza dell’anima, il Bene è il midollo di tutte le sette.
Per tutte vi è una medesima radice: si tratta di controllare il proprio linguaggio, di non celebrare la propria comunità denigrando le altre.
Al contrario, bisogna rendere alle altre sette gli onori che si conviene, in tutte le circostanze (…).
Di fatto, la migliore illustrazione del pacifismo buddista, resta il suo metodo di diffusione: sebbene non sia sempre ben conosciuto nei dettagli, sembra che non ci siano mai stati conversioni forzate, e insediamenti con le armi, come avvenne, invece, per altre due religioni a vocazione universale come il cristianesimo e l’islam.
Si individuano quattro dottrine relative al Jihad a partire dalla lettura del Corano.
Ci sono coloro che considerano che l’espansione dell’islam debba essere fatta con la persuasione: è l’atteggiamento generalmente adottato da tutti i musulmani moderni.
Il Jihad con le armi può esser proclamato quando c’è un’aggressione: anche questa è un’interpretazione ammessa dai musulmani moderni.
Il Jihad può allora intervenire a livello della comunità quando uno dei Paesi musulmani è attaccato.
La storia recente dà diversi esempi di casi in cui il Jihad armato si è legittimato.
In questo stesso senso il Jihad può intervenire anche a livello personale, quando un nemico attacca i beni o la famiglia di un individuo.
Nelle ultime due concezioni, il Jihad armato deve compiersi in maniera offensiva verso gli infedeli.
La differenza interpretativa è legata solo al problema se si deve rispettare o no la tregua dei mesi sacri.
L’obbligo del Jihad è un obbligo religioso voluto da Dio e dal suo Profeta che riguarda ogni musulmano di sesso maschile, libero, e in salute.
Il Corano precisa (Sura IX, 92): Non saranno ritenuti colpevoli i deboli, i malati e coloro che non dispongono di mezzi, a condizione che siano sinceri con Allah e col Suo Messaggero: nessun rimprovero per coloro che fanno il bene.
Allah è perdonatore, misericordioso.
Quanto alle donne, sebbene abbiano partecipato ad alcuni combattimenti dell’epoca eroica, un Hadith precisa che «il pellegrinaggio è la guerra santa delle donne».
Il Jihad si distingue dagli altri cinque precetti della fede islamica (la professione di fede, la preghiera quotidiana, il digiuno del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca e l’elemosina rituale) perché mentre questi sono doveri individuali, il Jihad è un dovere collettivo.
L’atteggiamento dei guerrieri musulmani nei confronti dei loro nemici variava a seconda della loro appartenenza religiosa.
Gli ebrei e i cristiani non erano obbligati a convertirsi all’islam: se accettavano di pagare un tributo, essi ricevevano il diritto alla libertà di culto.
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