I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant’anni in più.
Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d’attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all’epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po’ studiato a tavolino.
Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un’America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d’un tratto mastodontiche.
Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d’identità di tutta una generazione.
E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d’opportunismo.
Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po’ sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d’approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana.
La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano.
Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell’immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie – le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema – che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l’importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l’opinione pubblica.
Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l’inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell’America come nazione eletta a guidare l’occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente.
Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni – nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico – più d’uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà “in superficie” il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo.
Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell’iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell’anonimato, quell’immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell’horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili – se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake – come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui.
È l’epoca in cui comincia a serpeggiare – anche grazie all’avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco – un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un’America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale.
Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all’addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza.
Nell’ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d’orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper – attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem – finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica – anche qui non mancherà il martirio dei “figli” per mano dei “padri” sullo sfondo di un’America profonda e arretrata – con quelle di un nuovo vitalismo un po’ modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d’occhio agli eccessi libertari dell’epoca.
Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all’epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta – Scorsese, Coppola, Cimino – e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant’anni fa, insomma, mentre la sua patria d’appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta.
Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L’Osservatore Romano – 3 aprile 2009)
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