Domenica delle Palme anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 50,4-7 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a colo-ro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Si-gnore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia fac-cia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Il brano apre il terzo dei «Canti del Servo».
Il personaggio che parla non è nominato, e non viene usata la parola «servo»; si esprime come un profeta, e presenta le caratteristiche del discepolo, docilità e fedeltà.
Alcuni commentatori lo identificano con Zorobabele, il di-scendente di Davide che aveva acceso le speranze messianiche nel post-esilio.
Le difficoltà che si oppongono alla sua missione, già presenti nel secondo canto (49,1-9), si fanno qui più concrete: gli insulti e gli oltraggi di cui il Servo è fatto segno rientrano in ciò che ci si aspettava dalla vocazione profetica (cf.
le Confessioni di Geremia).
Il testo del v.
4, è molto tormentato, alcuni vocaboli dell’ebraico sono di difficile inter-pretazione, la «lingua da discepolo» (o «discepoli», limûdîm: parola rara nell’AT) potrebbe alludere a una scuola di discepoli che accoglie una tradizione di cui il Secondo e il terzo I-saia sarebbero i continuatori.
Enigmatico anche il termine lacût, tradotto con «indirizzare (una parola)», «sostenere», o anche «rispondere» (sulla base del testo greco della Settanta), allo «sfiduciato», o «stanco» (jacef).
Il senso può essere «indirizzare una parola allo sfidu-ciato», o anche «sostenere colui che non ha più parole».
L’orecchio (v.
4 e v.
5) è anche la facoltà di intendere.
Il Servo è quindi un maestro di sapienza, fedele ascoltatore della Parola, che trasmette l’insegnamento divino ai discepoli.
I vv.
6-7 mostrano la persecuzione, conseguenza di questa docilità alla Parola.
È la con-dizione degli Israeliti, anche dopo il ritorno dall’esilio.
Il Servo oppone alla persecuzione la sua fermezza, o anche ostinazione: la «faccia dura come pietra».
La sua sicurezza viene dal-l’aiuto del Signore Dio d’Israele (nominato ben tre volte in questi quattro versetti).
Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventan-do simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pie-ghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
In un contesto parenetico, introdotto dal v.
5 — «abbiate fra voi gli stessi sentimenti che in Cristo Gesù» —, Paolo inserisce un inno di alto contenuto cristologico.
Si tratta di un te-sto prepaolino nella sostanza, che si può far risalire agli anni 50, e che ripercorre l’intero cammino di Gesù: pre-esistenza, incarnazione, vita terrena, croce, esaltazione.
Seguendo lo schema abbassamento/esaltazione, risponde alla domanda «chi è Gesù»?.
Due strofe consequenziali (vv.
6-8; 9-11, la seconda introdotta da «Per questo») espon-gono la storia di Gesù in cinque tappe, scandite da cinque verbi: tre con soggetto Gesù nel-la prima strofa, due con soggetto Dio nella seconda.
1a strofa – I tre verbi all’indicativo aoristo dicono le azioni e si riferiscono a fatti circoscritti, accompagnati da participi che ne esprimono le modalità: a) non ritenne (ouk egesato, v.
6) bottino l’essere simile a Dio, pur essendo radicato di diritto (yparchon) nella forma (morfè) divina: il ragionamento che prelude all’incarnazione è fatto nella condizione di Dio, all’interno della Trinità: la decisione di donarsi è la legge stessa dell’esistenza di Dio.
b) ma svuotò (ekénosen, v.
7) se stesso…
La rinuncia globale è scandita da una serie di parti-cipi che sottolineano la normalità dell’essere uomo: prendendo la condizione (morfe) di ser-vo, divenuto simile all’uomo, comportandosi alla maniera degli uomini.
c) Umiliò (etapeinosen, v.
8) se stesso, sottoponendosi alle modalità del vivere terreno e di-venendo obbediente (ypèkoos = colui che ascolta dal basso) fino a condividere l’esperienza del-l’uomo di fronte alla morte.
2a strofa – A queste tre tappe fa riscontro la risposta del Padre: la logica divina della dona-zione incondizionata è confermata, la croce manifesta il suo carattere rivelativo.
a) Per questo (diò kai) Dio lo esaltò (yperypsosen, v.
9).
La via dell’amore si mostra vittoriosa nella sconfitta.
b) L’esaltazione è la conseguenza, il frutto dell’amore, e tuttavia è dono: gli ha donato (echa-rìsato) un Nome al di sopra di ogni altro nome.
La storia di Gesù si risolve a gloria universale di Dio Padre: ogni ginocchio si pieghi (v.
10) e ogni lingua proclami (v.
11) Gesù Cristo Signore, a gloria (dòxa) di Dio Padre.
Alcune corrispondenze sottolineano l’antitesi: isa theò (v.
6) contrapposto a homoiòmati anthròpon (v.
7), servo (v.
7) contrapposto a Signore (v.11), svuotare-umiliare (vv.
7-8) con-trapposti a esaltare (v.
9).
Vangelo: Marco 14,1-15,47 Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire.
Dicevano infat-ti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso.
Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore.
Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo.
Ci fu-rono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si pote-va venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!».
Ed erano infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me.
I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me.
Ella ha fatto ciò che era in suo po-tere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù.
Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro.
Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uo-mo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei disce-poli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come a-veva detto loro e prepararono la Pasqua.
Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici.
Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà».
Co-minciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto.
Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradi-to! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
Questo è il mio corpo.
Questo è il mio sangue dell’alleanza E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è ver-sato per molti.
In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al gior-no in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
Pietro gli disse: «An-che se tutti si scandalizzeranno, io no!».
Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».
Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Cominciò a sentire paura e angoscia Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego».
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate».
Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora.
E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allonta-na da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione.
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole.
Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapeva-no che cosa rispondergli.
Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e ripo-satevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.
Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
Il tra-ditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arre-statelo e conducetelo via sotto buona scorta».
Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò.
Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.
Uno dei pre-senti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio.
Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni.
Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato.
Si compiano dunque le Scritture!».
Allora tutti lo abbandonarono e fuggi-rono.
Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo affer-rarono.
Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi.
Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano.
Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi.
Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”».
Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde.
Il sommo sacerdote, alzatosi in mez-zo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimonia-no costoro contro di te?».
Ma egli taceva e non rispondeva nulla.
Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pa-re?».
Tutti sentenziarono che era reo di morte.
Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!».
E i servi lo schiaffeggiava-no.
Non conosco quest’uomo di cui parlate Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù».
Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa di-ci».
Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò.
E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro».
Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presen-ti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo».
Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
E subito, per la seconda volta, un gallo cantò.
E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.
Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei? E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnaro-no a Pilato.
Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?».
Ed egli rispose: «Tu lo di-ci».
I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose.
Pilato lo interrogò di nuovo di-cendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
A ogni festa, egli era solito rimettere in liber-tà per loro un carcerato, a loro richiesta.
Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio.
La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere.
Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
Ma i capi dei sacerdoti inci-tarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba.
Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!».
Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto fla-gellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.
Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
Condussero Gesù al luogo del Gòlgota Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo.
Condussero Gesù al luo-go del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mir-ra, ma egli non ne prese.
Con lui crocifissero anche due ladroni Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
La scritta con il mo-tivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei».
Con lui crocifissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra.
Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!».
Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e diceva-no: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Gesù, dando un forte grido, spirò Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!».
Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scende-re».
Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Fi-glio di Dio!».
Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo.
Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora, comprato un lenzuolo, lo de-pose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia.
Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
Esegesi Introdotto da due versetti che svelano l’intenzione omicida di scribi e sacerdoti, tenuta nascosta per timore della folla (è un primo accenno alla Passione), la lunga lettura evange-lica di oggi è racchiusa tra due momenti — anticipo e conclusione del dramma — che ve-dono protagoniste le donne: l’unzione di Betania (14,3-9) e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).
Unzione di Betania (14,3-9) A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Geru-salemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato.
Comuni gli elementi es-senziali del racconto: la sottolineatura dello spreco, con l’indicazione del prezioso alaba-stro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù; lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l’accenno (forse strumenta-le?) ai poveri; la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l’omaggio e rimprovera i di-scepoli: la donna ha compiuto una buona opera (kalòn ergon, v.
6); i poveri sono una scusa, infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene (v.
7); il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù (secondo accenno alla Passione, v.
8).
Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).
Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv.
10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv.
12-16); tutto appare già predisposto, come in un dise-gno dall’alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già con un caratte-re di unicità.
Ultima Cena (14,17-31) Il grande quadro della Cena racchiude il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (vv.
22-25) fra due annunci di Gesù che si corrispondono: il tradimento di Giuda (vv.
17-21), indi-cato senza nominarlo come «colui che mangia con me», e il rinnegamento di Pietro (vv.
26-31).
Quarto e quinto accenno alla Passione, quest’ultimo contiene anche un primo accenno alla resurrezione (v.
28) che passa quasi inosservato, non compreso dai discepoli.
L’istituzione dell’Eucaristia corrisponde sostanzialmente al testo di Matteo, manca però la motivazione «in remissione dei peccati» (Mt 26,28).
Diversa, com’è noto, la relazione di Luca (22,15-20) e di Paolo (1Cor 11,23-25): in Marco e Matteo l’alleanza non è chiamata «nuova».
Come in Matteo e in Luca, in Marco si parla del compimento escatologico nel Regno, e questo è detto «nuovo»: «non berrò mai più del frutto della vite…».
Getsemani e arresto (14,32-52) Il racconto appare molto tormentato quanto alla formazione.
Si possono riconoscere due tradizioni intrecciate: una cristologica, in risposta alla domanda «chi è Gesù»?; una mora-leggiante, che propone un modello di comportamento per i discepoli.
Intorno a un nucleo antichissimo — «il Figlio dell’uomo viene consegnato» (v.
41) — si svi-luppa una lettura in profondità, un racconto in cui Gesù manifesta il suo sentimento, e che fa inclusione con il culmine della Passione («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», 15,34).
Si susseguono cinque brevi discorsi di Gesù (quattro ai discepoli, quello centrale al Padre).
L’azione ha una struttura ternaria: tre volte Gesù prega, tre volte i discepoli dor-mono, tre volte Gesù va e viene.
Anche i verbi si ripetono: pregare (4x), dormire (4x), vegliare (3x).
Protagonista è Gesù, il Padre è presente nell’ombra.
Gli altri personaggi, poco più che comparse, sono in concentrazione successiva: i discepoli, i tre, Pietro; più tardi il quadro si allarga: Giuda, i Dodici, la folla.
Gesù sceglie i tre, come altre volte prima di compiere un gesto importante (cf.
5,37; 9.2).
È rappresentato totalmente dalla parte dell’uomo: si prostra (v.
35), la sua preghiera (v.
36) ha lo svolgimento classico dei salmi (invocazione, professione di fede, supplica, accetta-zione della volontà di Dio; manca il ringraziamento).
La sua tristezza è scandita da due immagini: l’ora e il calice.
L’insistenza sul sonno dei discepoli mette in luce la loro lonta-nanza e debolezza.
L’invito a pregare per non soccombere alla tentazione, rivolto non solo a Pietro, contrappone la carne e lo spirito non come due sostanze, ma come due tendenze che coinvolgono l’uomo intero: la lacerazione tra volontà e debolezza è interna al cuore dell’uomo (v.
38).
Infine, l’accettazione, con una espressione curiosa e rara: apéchei (v.
41), «basta», si trova in calce alle fatture nei papiri, con il senso di «saldato, pagato».
L’ora è venuta: il Figlio è consegnato, agli uomini e al compimento del disegno di Dio.
Tra i due imperativi: «restate qui» (v.
32) e «andiamo» (v.
42), gli altri personaggi sono immobili e pas-sivi, solo Gesù è in piena luce.
Gesù è protagonista assoluto anche nella scena dell’arresto (vv.
43-52).
Giuda crede di condurre l’azione, in realtà è una pedina, come i soldati e lo stesso discepolo che ferisce il servo del sommo sacerdote.
È Gesù che domina, mostrando di conoscere tutto da principio e che tutto si svolge secondo il progetto annunciato dalle Scritture (v.
49).
Rimane a con-clusione l’immagine del giovinetto che fugge nudo (51-52): secondo la tradizione lo stesso evangelista Marco, in realtà figura di tutti noi, nudi come Adamo ed Eva di fronte al mo-mentaneo trionfo del peccato (Gn 3,7), inermi e affidati solo alla gratuita misericordia di Dio.
Gesù davanti al sinedrio (14,53-65) Due racconti si annunciano nel primo versetto, con uno svolgimento parallelo: Gesù è portato davanti al sinedrio, Pietro si scalda al fuoco in cortile.
La prima scena si apre con l’affannosa ricerca dei falsi testimoni, confusi e contraddittori (vv.
55-59).
Segue l’interrogatorio, cui Gesù oppone prima il silenzio (v.
61), poi la citazio-ne di Dan 7,13.
La testimonianza di Gesù, a differenza di quella dei suoi avversari, è chiara e inequivocabile, e la sentenza di condanna — del resto già decisa — è immediata.
La seconda scena, contemporanea, vede snodarsi il dramma di Pietro: la prima nega-zione, il primo canto del gallo (v.
68), la seconda e la terza negazione, ancor più decisa (vv.
70-71).
Infine, il secondo canto del gallo e il pianto liberatorio di Pietro, ormai consapevole e convertito (v.
72).
Gesù davanti a Pilato (15,1 -20a) Mentre davanti al sommo sacerdote Gesù passa dal silenzio alla parola, davanti a Pila-to, dopo una prima lapidaria risposta — «Tu lo dici» (v.
2) — sceglie il silenzio.
Rimane tut-tavia protagonista della storia, colui che, contro le apparenze, conduce il gioco.
Pilato si af-fanna a cercare una via d’uscita non troppo disonorevole da quella che per lui è solo una seccatura; Barabba è un fantoccio nelle mani dei potenti; la folla, manovrata dai capi, grida senza comprendere ciò che dice.
Da tutta questa pericope (vv.
6-15) Gesù è assente, altri decidono di lui; e tuttavia si intuisce che tutto avviene secondo la sua consonanza con la volontà del Padre.
La scena seguente (vv.
16-20) lo mostra paradossalmente vincitore proprio nella massi-ma umiliazione.
Rivestito di porpora, incoronato di spine (v.
17), salutato re dei Giudei (v.
18), omaggiato per scherno (v.
19): con un procedimento di ironia tragica, appare qui ol-traggiato e torturato, e proprio così, secondo la logica della croce (sub contraria specie), ma-nifesta la sua regalità.
Crocifissione, morte, sepoltura (15,20b- 47) Il racconto si snoda sempre più drammatico, allineando con precisione i particolari.
Per aiutare il condannato viene chiamato un contadino, individuato con nome, provenienza, parentado; il luogo della crocifissione è segnalato con la denominazione aramaica e greca (vv.
21-22).
Il seguito è registrato con una preoccupazione quasi cronachistica: Gesù rifiuta il vino drogato che si dava ai condannati per renderli incoscienti; i soldati sorteggiano le sue vesti; si indicano l’ora — la terza —, l’iscrizione con il motivo della condanna, i brigan-ti compagni di sventura (vv.
23-27).
Da questo primo livello di cronaca il racconto passa a uno stile narrativo più ricco, e ri-porta i commenti sarcastici dei passanti e degli avversari.
Per l’ultima volta, si chiede inu-tilmente a Gesù un segno straordinario che renda obbligata, e quindi inutile, la fede: «scen-da ora dalla croce»! (v.
32).
Ancora una precisazione temporale: l’ora sesta, quando la terra si oscura fino all’ora nona (v.
33).
Ed ecco il grido di Gesù, riportato anche in ebraico: è l’inci-pit del salmo 22, il lamento del giusto perseguitato, che si conclude con la lode e il ringra-ziamento al Dio d’Israele.
In bocca a Gesù, il grido ha probabilmente una duplice valenza: è il lamento profondamente umano e autentico di chi appare veramente abbandonato e vede il fallimento della sua missione, nella fuga dei suoi; ma è difficile negare che ci sia l’e-co del salmo, e quindi la conferma della speranza in Dio.
Infine, con un grido, Gesù muore (v.
37), uomo fino all’ultimo: proprio qui si rivela in lui una potenza riconosciuta proprio dal testimone che sembrerebbe più lontano, il centu-rione pagano cui si deve la più alta professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Dei seguaci di Gesù sono presenti qui solamente, ma in disparte, le donne, fra cui non è nemmeno nominata la madre (vv.
40-41).
Tolto dalla croce, il corpo viene avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, in fretta perché il sabato sta per iniziare.
Le donne che osservano da lontano chiudono il racconto, e lo riapriranno, tornando alla tom-ba vuota, all’alba del primo giorno dopo il sabato (16,1).
Meditazione La proclamazione dell’evangelo della Passione ci inserisce direttamente nel clima pa-squale di questa santa settimana.
Nell’ascolto attento e partecipe di questo testo già vivia-mo, in tutta la sua ricchezza, quel mistero di morte e risurrezione che ci apprestiamo a ce-lebrare in modo più solenne nei prossimi giorni.
Il racconto di Marco è sobrio, spoglio, essenziale; i fatti sono presentati nella loro nudità in modo sconcertante.
Il ritmo della narrazione è incalzante e gli episodi si susseguono in una progressione implacabile, quasi come un gioco tragico che procede senza posa verso la sua ineluttabile conclusione.
Marco, per far emergere la sua teologia, non ha bisogno di affidarsi a lunghi discorsi, né di introdurre troppi interventi personali nel corso del testo: gli basta mettere il suo lettore «davanti allo “shock” delle immagini e dei fatti» (M.
Berder).
Il paradosso della croce è fatto risaltare in tutta la sua evidenza semplicemente dalla forza drammatica con cui vengono dispiegati i singoli avvenimenti.
Gli eventi parlano da soli per chi li sa ascoltare…
Un tratto tipico – comune ai quattro evangelisti – del racconto della Passione è lo spazio abbondante dato ai riferimenti scritturistici, in buona parte tratti dal libro dei Salmi.
Al ri-guardo, è emblematico che le rarissime volte in cui si vogliono rendere manifesti i senti-menti di Gesù si ricorra quasi esclusivamente a citazioni di salmi (al Getsèmani Gesù e-sprime la sua tristezza mortale con le parole del Sal 42-43; sulla croce grida il suo abban-dono con le parole del Sal 22).
Per le prime comunità cristiane era importante trovare un senso allo scandalo di un Messia crocifisso e questo lo si poteva fare solamente interrogando le Scritture, cercando di scorgere in esse il piano di Dio.
Come poteva lo scandalo della Croce rientrare nel disegno salvifico di Dio? La fede dei primi cristiani ha trovato luce nel-le pagine del Primo Testamento, soprattutto là dove esse svelano che spesso la riuscita di Dio passa attraverso lo scacco degli uomini da lui eletti, che il suo piano «va sempre a buon fine attraverso il fallimento» (J.
Delorme).
Così i giusti perseguitati, di cui trabocca il Salterio, diventano figure trasparenti attraverso cui guardare il dramma del Giusto perse-guitato per eccellenza.
Così anche il misterioso personaggio del Servo del Signore (di cui ci parla la prima lettura tratta dal profeta Isaia) diventa figura capace di illuminare la vicen-da dolorosa e insondabile del Figlio dell’uomo «consegnato nelle mani dei peccatori» (14,41).
Fin dai primi capitoli del suo vangelo, Marco ci aveva preparati all’eventualità di una fi-ne violenta del Maestro di Nàzaret.
Infatti, già in 3,6, dopo una guarigione operata di saba-to, si dice: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire».
Ora il momento è inesorabilmente arrivato e Gesù si avvia solo, tradito e abbandonato da tutti (cfr.
14,50!) verso il luogo in cui si consumerà la sua passione.
Egli sa a cosa sta andando incontro, eppure continua, nonostante tutto, a rendere grazie (cfr.
14,22-23), a riaffermare la sua confidenza in Dio, il suo Abbà (cfr.
14,36), a mantenere la fiducia in un al di là vittorioso (cfr.
14,9; 25.28), a confessare la sua grande speranza in un’aurora di luce, quando verrà sulle nubi del cielo «seduto alla destra della Potenza» (14,62).
L’interrogativo che affiora a più riprese nel corso del secondo vangelo («Chi è dunque Gesù?») trova qui una risposta defi-nitiva: Gesù stesso, rispondendo al sommo sacerdote che gli domandava se è il Cristo, il Fi-glio del Benedetto, dichiara: «Io lo sono!» (14,62); e sotto la croce sarà inaspettatamente un pagano a riconoscere in quell’uomo agonizzante il Figlio di Dio: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (15,32).
Possiamo dire che, proprio nell’estremo «svuotamento», nell’estrema «umiliazione», nell’estremo «abbassamento» (per usare le parole dell’inno di Fil 2,6-11) di una morte infame e maledetta, si rivela agli occhi della fede l’identità vera di Gesù.
Proprio quella morte (e quel modo di morire) fa alzare il velo sul mistero della sua persona, rende palese il segreto a lungo taciuto.
Il silenzio della croce è più eloquente di molte parole, il buio di quella morte è più luminoso di tante luci…
Ma il racconto della passione non vuol semplicemente informarci sulle ultime ore terre-ne di Gesù, esso vuole soprattutto invitarci a un coinvolgimento personale – il cammino di Gesù deve diventare il nostro cammino – e vuole anche farci riflettere sulla vicenda di al-cuni personaggi che compaiono nel corso della narrazione, con tutto il loro carico di corag-gio e di codardia, di fedeltà e di tradimento, di coerenza e di contraddizione, di amore e di odio.
È utile anche riflettere sulle motivazioni profonde del loro agire (Marco si premura di rendercene note alcune: per esempio, in 15,10, ci dice che i capi del popolo hanno con-segnato Gesù alla morte «per invidia»…).
Significative, a questo proposito, sono le due fi-gure speculari di Giuda e di Pietro.
Entrambi della cerchia dei Dodici, l’uno tradisce il Ma-estro, l’altro lo rinnega; l’uno passa dalla parte degli oppositori, l’altro rivela tutta la fragili-tà e l’inconsistenza della sequela del discepolo.
Essi, in qualche modo, non cessano di rap-presentarci, perché in Giuda riconosciamo il traditore in potenza che è in ciascuno di noi e in Pietro riconosciamo le nostre paure, le nostre debolezze, la nostra poca fede.
Ci sono però altri personaggi minori, più positivi, che, seppure fanno una breve com-parsa sulla scena, lasciano dietro di sé una scia luminosa.
La donna di Betània che, con un solo gesto, mostra di comprendere Gesù più di ogni altro discepolo (cfr.
14,3-9); il miste-rioso ragazzo che segue Gesù dopo che tutti i discepoli lo hanno abbandonato (cfr.
14,51-52); Simone di Cirene che porta la croce di Gesù come un buon discepolo (cfr.
15,21); il centurione che, unico tra i presenti, confessa la sua fede sotto la croce (cfr.
15,39); le donne che, a dispetto dei discepoli, hanno continuato a seguire Gesù e sono salite con lui sul Cal-vario (cfr.
15,40-41); Giuseppe d’Arimatea che, con coraggio e pietà, va a chiedere il corpo di Gesù per assicurargli una degna sepoltura (cfr.
15,43-46).
Figure curiose ed esemplari che, con la loro presenza e il loro atteggiamento, si fanno prossimi e solidali al Crocifisso rendendo, in certa misura, meno cupo il dramma della sua passione.
La processione e la passione Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato.
[…] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra.
La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Pas-sione mostra la punizione riservata al ladrone.
Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né forma né bellezza» (Is 53,2).
Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’ob-brobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7).
Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele.
Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpisco-no la testa con una canna.
Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti.
Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti.
Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr.
Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un crimi-nale e un impostore.
Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi.
[…] Fratelli, se vo-gliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avver-si, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pen-sieri.
[…] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano se-duto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce.
Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli.
A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.
(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp.
188-192.198-200) L’esempio di Gesù nel Getsèmani «Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Se-detevi qui, mentre io prego”.
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate”.
Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passas-se da lui quell’ora» (Mc 14,32-35).
[…] Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tri-stezza “fino alla morte”?.
[…] Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto? Reagisce restando.
Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare situa-zione, ma di affrontare la lotta.
Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega perché, se è possibile, passi da lui quell’ora.
È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma, a partire dalla propria debolezza, «che passasse da lui quell’ora» (Mc 14,35).
La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà del Padre.
Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva è «ciò che vuoi tu».
È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che in-terpreta Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.
Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsèmani e chiedergli: Che cosa dici tu a me? Come vivo io queste realtà? Suggerisco tre riflessioni conclusive.
1.
Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e coglierne lo sbocco nel disegno divino.
2.
Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà.
Difatti Gesù supplica i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa inces-sante domanda nella preghiera domenicale: domanda di cui non sempre comprendiamo l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra.
Con essa si chiede al Padre di co-gliere il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera.
Quando ci si accorge che una certa realtà, un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà; quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società, come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai dif-ficile uscirne se non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico, che però solo in parte risolvono il problema.
Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido: «Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto viven-do un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore».
3.
La vera vittoria è – come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù – l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di quanto noi possiamo pensare e capire.
Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di creatività da acco-glierci; quindi il muro del resistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene scavalcato e su-perato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui l’uomo per- viene a essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 99-102).
“Mai più” Madame Michel è morta stamattina.
È stata investita dal camioncino di una tintoria, vi-cino a rue du Bac.
[…] E io? Io che cosa provo? Chiacchiero dei piccoli eventi del 7 di rue de Grenelle ma non sono molto coraggiosa.
Ho paura di guardare dentro me stessa e ve-dere cosa sta succedendo.
Mi vergogno anche un po’.
Credo che in fondo io volessi morire e far soffrire Colombe, la mamma e papa solo perché ancora non avevo mai soffer-to davvero.
O meglio: soffrivo senza provare dolore, e tutti i miei bei progetti erano un lusso da ragazzina senza problemi.
La lucidità di una bambina ricca che vuole rendersi in-teressante.
Ma ora, per la prima volta, sono stata male, tanto male.
Un pugno nello stomaco, senza respiro, il cuore in poltiglia, lo stomaco completamente spappolato.
Un dolore fisico in-sopportabile.
Mi sono chiesta se mai un giorno potrò rimettermi da dolore.
Volevo urlare dal dolore.
Ma non ho urlato.
Adesso la sofferenza c’è ancora, ma non mi impedisce più di camminare o di parlare, mentre provo una sensazione di impotenza e assurdità totali.
Al-lora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c’è più niente da fare, non si può più tornare indietro? Per la prima volta in vita mia ho sperimentato il senso delle parole mai più.
Beh, è una cosa terribile.
Le pronunciamo cento volte al giorno, ma non sappiamo cosa stiamo dicen-do se non ci siamo ancora confrontati con un vero “mai più”.
In fondo ci illudiamo sempre di poter controllare ciò che accade; nulla ci sembra definitivo.
Anche se in queste ultime settimane dicevo che presto mi sarei suicidata, non so se ci credessi veramente.
Ma questa decisione mi faceva davvero provare il senso della parola “mai”? Niente affatto.
Mi faceva provare il mio potere di decidere.
E penso che, qualche istante prima di mettere fine alla mia vita, “finito per sempre” sarebbe rimasta ancora un’espressione vuota.
Ma quando qual-cuno a cui vuoi bene muore…
allora posso dire che capisci cosa significa, ed è una cosa che fa molto molto male.
È come un fuoco d’artificio che si spegne di colpo e tutto diventa ne-ro.
Mi sento sola, malata, ho la nausea e ogni movimento mi costa uno sforzo immane.
[…] Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso.
È come se le note musicali creassero un specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
Sì, è proprio un sempre nel mai.
Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente.
Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai.
La bellezza, qui, in questo mondo.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 315-319).
Come vivere la settimana Santa La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.
Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare.
L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino.
Questa scena infatti, che vorrebbe es-sere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme de-gli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù.
Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.
Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”.
Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato.
In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».
Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusa-lemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.
La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore.
L’entrata in Gerusa-lemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo.
Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo sa-puto della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23).
Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

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