V Domenica di Quaresima

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Geremia 31,31-34 Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34).
Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore» (31,31-32).
Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge.
D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo.
Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo».
Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).
Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale.
Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce.
In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).
Seconda lettura: Ebrei 5,7-9 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro.
Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei.
L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi.
Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).
Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile.
Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità.
E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto.
Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv.
8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».
L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.
Vangelo: Giovanni 12,20-33 In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci.
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono.
Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».
Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi.
Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».
Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Esegesi Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica.
Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti».
Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale.
Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro.
La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).
In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro.
Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).
Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta.
Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17).
Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».
Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia.
Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario.
Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici.
Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna.
E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.
Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo».
Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani.
Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù.
È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione.
In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.
Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.
Meditazione «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21).
La domanda rivolta a Filippo da alcuni greci simpatizzanti dell’ebraismo, venuti a Gerusalemme per la Pasqua, può realmente esprimere il desiderio profondo con cui i testi della Scrittura (e in particolare i brani del quarto evangelo) hanno ritmato il nostro percorso quaresimale.
Siamo stati guidati a una progressiva scoperta del volto di Gesù e man mano il nostro cammino di fede è stato purificato e reso autentico attraverso la comprensione profonda del segno per eccellenza: la Croce.
Il vedere esprime un’attesa che trova compimento in un incontro faccia a faccia da cui scaturisce, attraverso un dialogo, una conoscenza progressiva dell’altro.
Ma per l’evangelista Giovanni, vedere è anche il verbo che indica il cammino della fede: un andare oltre le apparenze per raggiungere il mistero che esse nascondono; vedere Gesù vuol dire conoscerlo e credere in lui.
Allora diventa significativo porre questa domanda proprio alla fine del cammino quaresimale.
Si sente in questa richiesta tutto il desiderio contenuto nell’annuncio della nuova alleanza del profeta Geremia: «tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande…
poiché io perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (Ger 31,34).
Riconoscere il Dio dell’alleanza, quel Dio che perdona e dimentica il peccato, nel volto di Gesù: questa è la meta del cammino quaresimale.
Ma ancora una volta ritorna l’interrogativo: quale volto di Gesù? Potremmo rispondere con le parole della lettera agli Ebrei: il volto di colui che «pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Alla contemplazione di questo volto ci apre proprio la risposta data da Gesù a quei greci e riportata in Gv 12,23-33.
In questo testo di Giovanni ritornano alcuni termini caratteristici utilizzati dal quarto vangelo per esprimere l’unico mistero di umiliazione e di gloria: l’ora (vv.
23.27-28), la glorificazione (vv.
23.28), l’essere innalzato (v.
31).
Essi orientano, in prospettiva chiaramente pasquale, il vedere Gesù e offrono un progressivo cammino di comprensione del mistero di Cristo.
E possiamo cogliere la rivelazione che Gesù fa di sé stesso e del suo destino in tre momenti.
Essi ci guidano alla comprensione di quella parola con cui Gesù inizia il suo discorso: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23).
E il primo momento ci lascia disorientati.
La risposta di Gesù sembra a prima vista sconcertante; sembra ignorare la domanda.
Ma in realtà va al cuore di ciò che i greci chiedono a Gesù e, rivelando anche la strada per giungere a comprendere la sua realtà più profonda, indica l’unico cammino possibile per poterlo vedere: lo vedranno quando sarà innalzato.
E Gesù esprime questa via da percorrere anzitutto con una parabola in cui chiaramente è rivelato il paradosso di questo cammino: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24).
Per vedere chi è Gesù, bisogna nascondersi come lui; scendere sotto terra e ripercorrere la parabola del chicco di grano, la parabola di una vita abbondante che passa attraverso la morte, attraverso il dono di sé (quel perdere per conservare in vista di una pienezza: cfr.
12,25).
Nella parabola del chicco la morte è la condizione perché si sprigioni tutta l’energia vitale che il seme contiene; la vita che è racchiusa nel piccolo chicco si manifesta così in una forma nuova.
E proprio l’abbondanza del frutto (produce molto frutto) diventa immagine della glorificazione, di una vita senza fine.
La seconda tappa di questa rivelazione del Volto è espressa da Giovanni attraverso la rilettura teologica di due esperienze di Gesù, narrate dai sinottici distintamente: il Getsèmani (12,27: «adesso l’anima mia è turbata…
Padre salvami da quest’ora?») e la Trasfigurazione (12,28: «venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e ancora lo glorificherò”»).
Queste due esperienze, all’apparenza paradossalmente opposte, sono la duplice rivelazione dell’unico volto di Cristo umiliato e glorioso, calato nell’esperienza delle tenebre dell’angoscia (l’umanità del Figlio dell’uomo) e inondato dalla luce divina (la gloria del Figlio di Dio).
Ma per Giovanni le due esperienze si sovrappongono: non c’è un prima e un dopo, ma l’Umiliato è il Glorioso.
Nel volto dell’uomo angosciato di fronte alla sua ora, traspare tutta la luce del Figlio prediletto perché obbediente, di colui che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio…
e per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7).
In continuità con la voce del Padre che proclama la glorificazione del Figlio e in parallelo con la caduta del seme nella terra, si inserisce il terzo momento della rivelazione: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È la vittoria di Cristo che genera la salvezza «di tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9).
L’essere innalzato è il movimento dal basso verso l’alto: è appunto la Croce (12,33) che dà inizio a un movimento ascensionale che va oltre la Croce stessa e giunge fino al Padre (è il senso già presente in Gv 3,14).
In questo movimento verso l’alto, viene trascinata tutta l’umanità, tutti coloro che fissano lo sguardo sul trafitto.
Attirerò tutti a me: indica una comunione profonda di destino, un cammino verso il Padre che Gesù vuole fare con il discepolo, con ogni uomo, una condivisione di vita che passa oltre la morte.
È la riconciliazione, la salvezza piena, quella possibilità che l’uomo riacquista, in Cristo, di guardare verso Dio, non nella paura, ma nella libertà dei figli.
Quei greci volevano vedere Gesù.
Ecco loro indicato il cammino e lo sguardo.
Ora il vedere per credere deve trasformarsi in un conoscere che è comunione di vita e condivisione del cammino di Gesù: «se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (12,26).
Dov’è Gesù? È certamente presso il Padre, e questa è anche la meta del discepolo.
Ma Gesù è anche nascosto sotto terra, come chicco che muore per portare frutto: e questo è anche il luogo e il cammino del discepolo perché «chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25).
Quei greci rappresentano tutti quegli uomini e quelle donne che «crederanno senza aver veduto» (Gv 20,29) perché il loro vedere sarà un «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto».
E così nella domanda di questi greci si apre l’orizzonte del tempo della Chiesa, dove risuona senza sosta, sulle labbra di tanti uomini e donne, lo stesso desiderio: «Vogliamo vedere Gesù».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La potatura «D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo.
E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Grande albero e piccolissimo grano «[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri.
E questo non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf.
Mc 4,31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
II seme delle domande Dio mio, sono venuto con il seme delle domande! Le seminai e non fiorirono.
Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte, ma il vento non le sfoglia! Dio mio, sono Lazzaro! Piena d’aurora, la mia tomba dà al mio carro neri puledri.
Dio mio, resterò senza domanda e con risposta vedendo i rami muoversi! (F.
Garcia Lorca).
Il seme e il frutto Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra nel grembo materno e aspetta devotamente: esso comincia a lottare, un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole cresce, diventa grande e forte abbraccia con la corona verde delle sue foglie finché tutto intero splende al sole diventa gemma e fiorisce un fiore.
E nella fioritura, seme dopo seme, c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.
E tu pianti nuovamente i mille semi, e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.
Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro guida verso casa i pensieri e pensa: tutto ciò era nel primo seme.
(Christian Morgenstern).
La croce “La croce -scriveva Simone Weil- è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va.
In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere.
Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.
Chi mi vuoi servire mi segua «Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26).
Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21).
Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuoi servire mi segua».
E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo».
Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui.
Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara.
«Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26).
Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà».
Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità? Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa.
[…] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo.
«Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6).
Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr.
Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini.
Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp.
1022-1024).
Io pure sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Piccolo seme Ho imparato che non muore chi lascia dietro di sé un seme se c’è qualcuno a custodire il piccolo seme verde e a crescerlo nel cuore sotto un dolore di neve e a lasciarlo crescere ancora nel sole senza tramonto dell’amore finché diventa un albero grande che da ombra e frutti e altri semi.
Signore, vorrei lasciargli un piccolo seme verde e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.
(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).
Preghiera Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante.
Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia.
Perdere la vita con te e per te è trovarla.
Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.
Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire.
Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio.
Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei.
Amen.

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