IV Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro in-fedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e die-dero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, es-sa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pro-nunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Per-sia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra.
Egli mi ha incari-cato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda.
Chiunque di voi appar-tiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista.
È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio.
Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C.
al tempo del re Sedecia (vv.
14-16).
È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio.
Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato.
Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi.
La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.
Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popo-lazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria.
Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv.
19-21).
Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C.
la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio.
La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi.
Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf.
v.
18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv.
22-23).
Seconda lettura: Efesini 2,4-10 Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mo-strare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarse-ne.
Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericor-dia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v.
4).
Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa.
La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita.
Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv.
5-6).
Noi siamo solidali con Cristo.
Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà an-che ai nostri corpi (v.
6).
Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio.
Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v.
7).
Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v.
8).
L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mo-bili del peccato.
Solo la mano di Dio può risollevarlo.
L’agire di Dio è del tutto gratuito (v.
9).
Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v.
10).
Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «pre-parate» da Dio per facilitarne l’adempimento.
Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.
Vangelo: Giovanni 3,14-21 In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel de-serto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già sta-to condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giu-dizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la lu-ce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la ve-rità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Esegesi Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv.
14-15).
Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato».
Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso.
Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità.
L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.
Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco.
Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amo-re sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v.
16).
È un amore che si con-cretizza nel dare e nel mandare (v.
17).
Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.
Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di crede-re in Gesù.
Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che cre-dono e si salvano, o non credono e si condannano.
Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.
Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo.
È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v.
19).
Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo.
Gli uomini scelgono.
Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza.
Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, speri-menta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio.
La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le pro-prie opere cattive.
Ma c’è anche «chi fa la verità» (v.
21).
Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui.
Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v.
21).
Meditazione Nel cammino di purificazione e di conversione che caratterizza il tempo quaresimale, la Chiesa, attraverso la liturgia, ci guida con sapiente pedagogia, non solo orientandoci verso la Pasqua di Cristo, ma anche facendoci prendere coscienza di come la logica della morte e della vita in Cristo debba entrare concretamente nella nostra esistenza quotidiana.
Tuttavia, pur non togliendo nulla alle esigenze e alla serietà della sequela, siamo sempre richiamati dalla parola di Dio a guardare oltre le fatiche e le sofferenze di un cammino che è comunque segnato da una morte, da un esodo dal luogo della schiavitù, del peccato.
Il nostro sguardo è sempre proiettato oltre, verso il luogo della vita, il luogo della luce pa-squale, il luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù.
E così le tre letture di questa quarta domenica concentrano la nostra attenzione su due realtà che formano il tessuto profondo e la dinamica non solo della storia della salvezza di un popolo, Israele, ma della storia sacra di ogni credente: l’esperienza del peccato e la fedeltà di Dio alla sua alleanza.
In 2Cr 36,14-23 scopriamo come la distruzione del tempio di Ge-rusalemme e la deportazione del popolo a Babilonia non sono l’ultima parola di Dio sulla infedeltà e sulla idolatria di Israele.
Attraverso la rilettura di questi eventi drammatici, il Cronista orienta lo sguardo verso un avvenire ricco di promesse; un re pagano sarà uno strumento nelle mani di Dio per ricostruire il tempio e il popolo potrà ritornare nella terra data ai loro padri.
È la fine dell’esilio babilonese: «chiunque di voi appartiene al suo popo-lo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23).
Attraverso questo sguardo di spe-ranza, che ha come fondamento la fedeltà di Dio e la sua misericordia, siamo orientati a contemplare il compimento: il dono di Dio a ogni uomo nel Figlio «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’uomo non può dimenticare che questo amore senza misura (Dio ha tanto amato il mondo…) è puro dono.
Paolo, a più ri-prese, insiste in Ef 2,4-10: «per grazia siete stati salvati».
Ma l’essere salvati per grazia da un Dio ricco di misericordia è molto di più di un semplice condono di peccati: la salvezza rag-giunge la sua pienezza nel nostro inserimento in Cristo mediante il battesimo, nella nostra partecipazione al mistero pasquale, che va dalla passione alla ascensione di Cristo.
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che maggiormente focalizza questa dinamica tra peccato dell’uomo e fedeltà di Dio è la pericope giovannea.
Sono alcu-ni versetti del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo.
È il primo dei vari incontri narrati da Giovanni, colloqui sapientemente condotti attraverso i quali viene tracciato un itinerario di progressiva scoperta del volto di Gesù e di una fede matura nella sua parola.
Per quanto riguarda la nostra pericope, si possono sottolineare tre momenti di rivelazione del volto di Cristo a cui corrisponde sempre una richiesta, una scelta da parte dell’uomo, un salto di fede.
Anzitutto è richiesto un movimento dello sguardo verso l’alto e la qualità di questo sguardo è la contemplazione: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14-15).
L’esperienza di Israele nel deserto diventa paradigma interpretativo del mistero pa-squale di Gesù.
Come nel segno innalzato da Mosè nel deserto si manifestava il Dio salva-tore che interviene per guarire il suo popolo dalla ferita dell’incredulità, così nel Figlio del-l’uomo innalzato, il trafitto verso il quale si volgeranno tutte le nazioni (Gv 19,37), si rivela il dono di Dio per la salvezza del mondo.
Gesù ricorderà: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
Per Giovanni, l’Innalzato e il Trafitto che dona sangue e acqua, che guarisce con le sue ferite, esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza.
È uno spettacolo drammatico, sconvolgente, davanti al quale l’uomo preferirebbe abbassare gli occhi, distoglierli, perché in questa visione si scopre tutto il male di cui l’uomo è capace, tutta la violenza e l’odio che possono abitare nel cuore dell’uomo.
Eppure sembra quasi necessario (bisogna) guardare senza paura questo spettacolo, lo spettacolo della Croce.
Per-ché? Perché in esso è racchiuso il segreto nella vita, della nostra vita, il segreto della sal-vezza.
E in questo spettacolo che si rivela tutta l’umanità del Figlio di Dio (chiamato qui Figlio dell’uomo), la sua totale obbedienza al Padre (bisogna), il suo amore giunto al limite estremo (cfr.
3,16 ss.).
Questa visione apre alla seconda rivelazione, espressa in Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
La prova radicale di questo amore di Dio che guarisce le ferite morta-li dell’uomo è il dono (che passa attraverso la morte, l’essere innalzato) del Figlio (colui che è espressione trasparente dell’amore di Dio, espressione esclusiva, l’Unigenito); e il dono non è per il giudizio, ma per la salvezza.
Così l’evento della Croce (3,14) ci fa penetrare più a fondo nel mistero di Dio stesso in quanto amore (ha tanto amato).
Dunque il segreto dello spettacolo della Croce, del trafitto innalzato, che altrimenti sarebbe incomprensibile e assur-do, sta in questa parola di Gesù, in questa seconda rivelazione.
In fondo a tutto, e non solo all’evento dell’Innalzato e Trafitto, ma anche al cuore della storia, c’è questa verità che il-lumina e che apre un orizzonte senza fine: la misericordia illimitata (tanto) di Dio per il mondo, per l’uomo, per ogni creatura che aspetta la redenzione e la liberazione dal pecca-to.
E infine, ed è la terza tappa in questa progressiva scoperta del volto di Gesù, Giovanni esprime questo dono del Figlio per il mondo con una realtà simbolica che caratterizza il suo linguaggio a partire dal prologo (cfr.
Gv 1,4-5) e che, d’altra parte, rivela anche il dramma della incredulità e del rifiuto da parte dell’uomo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagio» (3,19).
Gesù è la luce che illumina e che evidenzia le tenebre; provoca una radicale chiarez-za sulla situazione dell’uomo, spesso falsa e mascherata dietro ad ambiguità e schemi (te-nebre).
Ma Gesù è la luce nel mondo (cfr.
anche Gv 8,12; 9, 5; 12,46) perché rivela in modo esclusivo e definitivo la realtà dell’uomo e di Dio; non c’è altro modo di vedere il volto di Dio e, alla sua luce, il volto dell’uomo.
Cosa è chiesto all’uomo? Credere (3,15.16), venire alla luce (3,20), fare la verità (3,21).
Solo attraverso questo credere noi possiamo raggiungere il segreto custodito nello spettacolo dell’Innalzato e Trafitto e comprendere il tanto amore di Dio per il mondo.
Veramente, pos-siamo allora dire, credere non è questione di adeguare l’agire di Dio alla nostra ragione ma guardare come Dio agisce nella nostra vita, nella storia, verso l’umanità.
Credere è conse-gnarsi, attraverso questo sguardo pieno di fiducia e di speranza, all’agire di Dio, a ciò che lui può fare per noi.
E proprio in Gesù ci è rivelato pienamente, senza ombra alcuna, ciò che Dio sente e vuole per noi.
Il miracolo sempre rinnovato Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma sare-mo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del mi-racolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.
(D.
Hammarskjold) Un ragazzo miope Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui.
Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, que-sti ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quin-di, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui.
Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia.
Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leg-gere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le le-zioni.
E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampio-ni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista.
Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive.
Trovate quelle più adatte, invitò il giova-ne a guardare fuori dalla finestra.
«Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; ve-deva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali.
Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita».
Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui i-niziai a credere in Gesù.
Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stes-so come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre.
Questa fu una gran-de svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita.
Fu come l’inizio di una vita nuova.
So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).
Ciò che fa la differenza Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta.
E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ri-tengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine.
Questo chi non crede, ma conosce il cristianesi-mo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza.
Sul resto bene o male ci si accorda.
(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Mi chiamate Redentore Mi chiamate Redentore e non vi fate redimere.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Via e non mi seguite.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Maestro e non mi credete.
Mi chiamate Sapienza e non m’interrogate.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Onnipotente e non vi fidate di me.
Se un giorno non vi riconosco non vi meravigliate.
(Iscrizione nel duomo di Lubecca).
II dubbio, la verità e Cristo Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo.
Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni con-trarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace.
In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci.
Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F.
Dostoevskij).
Il lungo cammino verso casa «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio.
C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completa-mente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie te-nebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone.
Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere total-mente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profonda-mente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emerge-re una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone.
Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribel-larmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.
Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).

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