BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI Sfidato dalla storia di Ernesto Galli Della Loggia Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell’Osservatore romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell’ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica.
Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l’avvento della televisione e il Concilio.
L’avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l’opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana.
Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni.
Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell’indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l’opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco.
Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l’altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l’altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale.
Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell’obbligo del carisma, dell’obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall’altro dell’obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso.
Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l’ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II.
In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all’interno della Chiesa.
Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell’organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell’universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali.
I quali da quarant’anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia.
I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E’ a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato.
Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l’ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l’arma dell’appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times.
Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l’indipendenza spirituale.
Quell’indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo.
Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l’opinione pubblica mediatico-mondiale dall’altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.
Corrriere della Sera 14 marzo 2009 Cari confratelli nel ministero episcopale! La remissione della scomunica ai quattro vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi.
Anche se molti vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.
Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio [Vaticano II]: si scatenava cosi una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.
Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica.
Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.
Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò cosi nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.
Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo, e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.
Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.
Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.
Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione.
La scomunica colpisce persone, non istituzioni.
Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perchè mette in questione l’unità del collegio episcopale con il papa.
Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.
A vent’anni dalle ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto.
La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno.
Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del papa e della sua potestà di pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio.
Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.
La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave.
Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.
Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali.
Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.
Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione.
Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la pontificia commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col papa – con la congregazione per la dottrina della fede.
Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei papi.
Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei cardinali al mercoledì e la plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei prefetti di varie congregazioni romane e dei rappresentanti dell’episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.
Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità.
Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.
Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.
Ora però rimane la questione: era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti.
Penso di aver evidenziato le priorità del mio pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio.
Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.
La prima priorità per il successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu…
conferma i tuoi fratelli” (Luca 22, 32).
Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3, 15).
Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr.
Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso c risorto.
Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti.
La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.
Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema.
A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce.
È questo il dialogo interreligioso.
Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia: è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’enciclica “Deus caritas est”.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.
Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio cosi nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto.
Ma ora domando: era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr.
Matteo 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, cosi da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, cosi che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.
Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti.
Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni.
Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente.
Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate: superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc.
Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori.
Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo, almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio.
E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel seminario romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Galati 5, 13-15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”.
Sono stato sempre incline a considerare questa [ultima] frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo.
Sotto certi aspetti può essere anche cosi.
Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.
È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia.
Di fatto: Maria ci insegna la fiducia.
Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci.
Egli ci guiderà, anche in tempi turbolenti.
Vorrei cosi ringraziare di cuore tutti quei numerosi vescovi che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera.
Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il successore di san Pietro.
Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace.
È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale benedizione apostolica mi confermo Vostro nel Signore BENEDICTUS PP.
XVI Dal Vaticano, 10 Marzo 2009 DOPO LA LETTERA SUI LEFEBVRIANI «La Chiesa risponde al suo Papa» “Il Papa non è solo, tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui”.
È quanto ha affermato il segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone.
Riferendosi a quanto scritto oggi sui principali giornali italiani circa la solitudine del Papa, il porporato ha parlato di “comunione” e “amore” della Chiesa nei suoi confronti, e ha aggiunto: “Benedetto XVI in questi momenti ha sentito anche la comunione di molti vescovi, nonostante qualche voce stonata”.
“Tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui – ha detto Bertone prima di cominciare il suo discorso a conclusione di un seminario di tre giorni sulle comunicazioni sociali per i vescovi responsabili – a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato, anche per la familiarità dei rapporti”.
Il segretario di Stato ha poi affermato che il Papa ha sentito “anche la comunione di tanti vescovi del mondo, nonostante qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie, profondamente consapevole della sua missione che compie davanti a Dio, di essere pastore della Chiesa universale, pastore di tutti”.
Solidarietà da vescovi Germania, Svizzera e Francia.
Piena solidarietà a Benedetto XVI è arrivata oggi dagli episcopati tedesco, francese e svizzero; “il Papa non è solo”, affermano – in interviste alla Radio Vaticana – i rappresentanti dei presuli dei tre paesi, da cui si sono levate nelle scorse settimane forti riserve sulla revoca della scomunica ai lefebvriani.
””Non mi è mai capitato di leggere uno scritto di un Papa così personale e così aperto.
E questo mi piace molto”, ha detto il presidente dei vescovi tedeschi, Mons, Robert Zollitsch, che stamani ha incontrato Benedetto XVI.
È “un segno – ha sottolineato – della comunicazione, un segno del fatto che il Papa stesso desidera entrare in colloquio con i vescovi e spiegare a tutto il collegio episcopale quali sono state le ragioni che lo hanno spinto e come lui ha percepito tutta la situazione”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il cardinale di Parigi, Andrè Vingt-Trois, e il vescovo di Lugano, mons.
Pier Giacomo Grampa.
Il “grazie” da Austria, Belgio e Inghilterra.
È arrivato anche il “grazie” dei vescovi belgi e inglesi al Papa per la lettera scritta riguardo alla remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani.
Lettera riproposta oggi sui siti ufficiali delle Conferenze episcopali europee nelle diverse lingue.
In una breve nota scritta, i vescovi del Belgio parlano di unalettera “al tempo stesso umile e forte”.
Ed aggiungono: “Il suo contenuto mostra chiaramente che la remissione delle scomuniche dei 4 vescovi tradizionalisti vuole essere un gesto di riconciliazione e non una rimessa in discussione del Concilio Vaticano II”.
In una dichiarazione, la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles parla di “un atto collegiale” e di una lettera “profondamente umile”.
I vescovi inglesi sottolineano il “forte” impegno del Papa “per il dialogo interreligioso, soprattutto con gli ebrei, e per il dialogo ecumenico con gli altri cristiani.
Egli rivela la sua passione per la riconciliazione e invitando tutti nella Chiesa a dare una migliore testimonianza, il Papa sottolinea che la priorità fondamentale della Chiesa è quello di condurre gli uomini e le donne a Dio”.
“Essenziale a questo compito – aggiungono i vescovi – è la necessità di unità e l’ufficio petrino è il centro e il promotore dell’unità della Chiesa e, come tale, una voce profetica”.
Gratitudine viene espressa al Papa anche dall’episcopato austriaco, riunito in questi giorni nell’assemblea di primavera.
In una nota, i vescovi dell’Austria sottolineano l’attenzione pastorale di Benedetto XVI, che ha voluto spiegare con ampiezza le ragioni che lo hanno portato a revocare la scomunica ai presuli lefebvriani.
Le altre reazioni.
Il card.
Antonio Canizares, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha espresso “amarezza” per la “sofferenza” arrecata a papa Benedetto XVI dalle polemiche sul caso della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
“Abbiamo ricevuto, letto e approfondito la lettera che ha inviato a tutto l’episcopato cattolico circa la remissione della scomunica”, ha detto Canizares, salutando il papa in occasione dell’udienza che questi ha concesso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Culto.
“Condividiamo l’amarezza della sofferenza recata a vostra Santità – ha proseguito – e mi faccio portavoce dell’unanime adesione di tutti i membri della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, a quanto espresso con chiarezza e fermezza dalla Santità vostra.
Il cardinale ha concluso esprimendo “la più sincera e profonda vicinanza e amorevole solidarietà soprattutto in questo particolare momento”.
La Lettera di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo sulla revoca delle scomuniche ai lefebvriani, “non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento”.
Lo afferma il card.
Camillo Ruini che firma l’editoriale dell’Osservatore Romano.
La Lettera, scrive il cardinale, rappresenta “un’autentica novità” che “si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell’ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell’animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all’atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero”.
La lettera ai vescovi cattolici resa nota ieri.
«Una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa».
Con queste parole Benedetto XVI spiega il senso della «lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre».
I quattro vescovi – Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso del Gallareta – erano stati consacrati il 30 giugno 1988 senza mandato pontificio ed erano quindi incorsi nella scomunica latae sententiae, cioè automatica, dichiarata formalmente dalla Congregazione per i vescovi il 1° luglio 1988.
La remissione della scomunica è giunta con un Decreto della medesima Congregazione, firmato il 21 gennaio 2009 dal cardinale prefetto Giovanni Battista Re.
Questo atto, scrive il Papa nella lettera resa nota oggi, «per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata».
«Una disavventura per me imprevedibile – scrive Benedetto XVI – è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica».
All’improvviso, spiega, «il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi è apparso come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei».
A tal riguardo il Pontefice precisa che “la condivisione” e la promozione fin dall’inizio dei «passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio» erano state «un obiettivo del mio personale lavoro teologico».
Il fatto che si siano sovrapposti «due processi contrapposti», prosegue il Papa, «è cosa che posso soltanto deplorare profondamente».
Ed aggiunge: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie».
Benedetto XVI si dice «rattristato» dal fatto che «anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco».
Proprio per questo ringrazia «tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia», che «continua ad esistere» come «nel tempo» di Giovanni Paolo II.
La risposta dei lefebvriani.
“Ringraziamo profondamente il Santo Padre di aver riportato il dibattito al livello al quale deve svolgersi, quello della fede”: lo scrive, in un comunicato, il Superiore generale della lefebvriana Fraternità Sacerdotale San Pio X, mons.
Bernard Fellay, in seguito alla diffusione della lettera di papa Benedetto XVI ai vescovi cattolici per spiegare il senso della revoca della scomunica dei quattro vescovi lefebvriani.
“Condividiamo pienamente – scrive Fellay – la sua preoccupazione prioritaria della predicazione ‘nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimentò”.
“La Chiesa – osserva ancora Fellay – attraversa una grande crisi, che non potrà essere risolta se non con il ritorno integrale alla purezza della fede”.
Il superiore dei lefebvriani spiega che la sua comunità è “ben lontana dal voler arrestare la Tradizione al 1962” – come detto dal pontefice nella sua lettera – ma vuole “considerare il Concilio Vaticano II e l’insegnamento post-conciliare alla luce di questa Tradizione, senza rottura e all’interno di uno sviluppo perfettamente omogeneo.
La Fraternità – conclude Fellay – assicura al pontefice la sua “volontà di affrontare i colloqui dottrinali riconosciuti come ‘necessarì” dal decreto di revoca della scomunica, “con il desiderio di servire la Verità rivelata, il che è la prima carità da manifestare verso tutti gli uomini, cristiani e non”.
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