Il digiuno – come il nutrimento – ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio.
Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all’uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l’assunzione del cibo – come l’astinenza da esso – non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.
Una veglia in attesa della risurrezione di Nicola Gori Una veglia prolungata nell’attesa della risurrezione: è l’immagine che le comunità cristiane d’Oriente usano per spiegare il significato del digiuno.
Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne.
Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.
Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse? La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse.
La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell’inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno.
La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne: alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima.
La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini.
Durante i primi sette giorni della quaresima – detti del grande digiuno – si dovrebbe osservare un’astinenza molto severa.
Bisogna però distinguere un po’ l’usanza monastica da quella dei laici.
Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l’astinenza da tutti i cibi proibiti.
Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.
Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita? Non c’è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia.
Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi.
Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri.
È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell’antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno.
Digiunare voleva dire non mangiare nulla.
Era un’astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.
Come praticavano il digiuno i Padri del deserto? Nelle diverse tradizioni locali dell’ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti.
Lo stesso vale per i Padri del deserto.
In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua.
Era un digiuno quasi permanente.
Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza.
Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in “fate penitenza”: non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi.
Allora questa conversione è sempre in senso escatologico.
Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell’attesa della venuta del Signore, proprio come nell’antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un’espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti.
Questo vuol dire veglia: una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.
Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita? Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana – quella che in occidente si chiama la settimana santa – il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell’ortodossia.
Nel cattolicesimo c’è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II.
Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell’intenzione delle riforma post-conciliare, l’idea della moderazione era legata all’invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l’elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.
(©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home] ”Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell’esperienza d’Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l’alleanza di salvezza per il popolo ebraico” ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell’ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, di cui oggi è consultore).
“Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio – aggiunge – digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo.
Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta”.
Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell’Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).
Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell’ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo – ammette Fumagalli – “dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale”.
“Gesù stesso – ricorda in proposito – prima dell’inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l’esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima”.
La principale differenza – al di là delle varianti normative specifiche – consiste “nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi”.
In questo rapporto unico che in Cristo lega l’innesto cristiano sulla “santa radice” di Israele “sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all’eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all’epoca contemporanea”.
Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno.
“Innanzitutto – secondo Fumagalli – la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr”.
Per il cristiano, perciò, “che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell’attesa messianica e dell’impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l’ebreo può offrire in questo campo è l’esempio di un’ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna”.
(mario ponzi) (©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home]
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