Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi.
È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di “indegnità”.
Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su “Avvenire” del 20 febbraio.
Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della “laicità” a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica.
E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.
Sulla rivista sono pubblicati (nella rubrica: sapere religioso) , integrali, entrambi gli interventi: l’editoriale del cardinale Scola su “Avvenire” del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio.
Sulla questione della “laicità” – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger.
In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici.
A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito.
Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così.
Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul “Corriere della Sera” del 15 febbraio.
E De Marco gli ha replicato sul giornale on line “l’Occidentale”.
Mercoledì 18 febbraio, al termine dell’udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi.
Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l’azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.
Ma al termine dell’incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt’altro tenore: “Il papa ha colto l’occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento”.
Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto.
E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di “invadenza” del campo politico che tanti difensori della “laicità” lanciano contro la Chiesa.
Il secondo fatto è di dimensioni più ampie.
Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio.
Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c’è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
Per alcuni, il parlare e l’agire in difesa della vita di Eluana erano “indegni dello stile cristiano”, uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno.
La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano “La Stampa” di domenica 15 febbraio: > Vivere e morire secondo il Vangelo Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità di Pietro De Marco Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della “stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”.
L’ha fatto sul “Corriere della Sera” di domenica 15 febbraio.
Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare.
Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico.
Eventi e soglie storiche che “aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi…
riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far “immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici.
Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra “la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo.
Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di “nuove ostilità” tra le parti.
Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di “una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.
Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica).
Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i “giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo.
Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica.
Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo “incontro”, del cardinale Camillo Ruini.
La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto “l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica “alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre.
Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione.
Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un “ulteriore fattore negativo”: “l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”.
L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i “laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo.
Tale “autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del “retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa “di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”.
Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del “Corriere” pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando.
La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso.
Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti.
Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come “societas” e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.
1.
IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata.
Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri.
Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti.
Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di “Liberal”.
Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura.
E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di “Liberal” erano singoli cattolici “conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non “i cattolici” in senso lato.
Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici “berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di “Liberal”, come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, “revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico.
Il compianto Rumi collaborava a “Liberal” per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.
In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni.
Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce).
Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il “fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica.
Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica? Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in www.chiesa dell’11 settembre 2008).
Se per “laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la “difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera! In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico “qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto.
Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei “valori moderni” e dell’immersione in essi.
Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa.
Per questo laicato la proposta di “Liberal”, l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo “rischio di destra”.
Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato “qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori.
E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti.
Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei “christifideles”, sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti.
La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici “sui generis”, composti o meno di “virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici.
Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra.
Sono, naturalmente, gli “strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome “minoritaria”, parla diversamente.
Per gli “strani cristiani”, un orizzonte di “nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica.
Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia “catto-comunista”, questi cattolici non “clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non “progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti.
A ben vedere, no.
Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico “sui generis” molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con “Magna Carta”, che scrivono su “il Foglio”, sull’attuale “Liberal” e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse.
Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia.
Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici “qualificati”.
Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore.
Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati “virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla “vague” postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini.
Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.
Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei “cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale “silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza.
La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica.
I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta.
Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista.
Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada.
Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.
2.
LA CHIESA COME “SOCIETAS” E NELLA SOCIETÀ Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un’altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco.
Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica.
Direi di no.
Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso “da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto.
Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua “perfectio” e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello “ius ecclesiasticum publicum”, ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, “erga omnes”.
Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine “autoreferenziale” non va.
Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata “ad extra”.
La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé.
Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi.
La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica.
La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé.
L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la “complexio oppositorum” cattolica, che è tutt’altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa.
Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale.
È una tale recuperata “complexio” cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a “christifideles” così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.
Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti.
Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky).
Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l’obbligo di darsi un’unica “visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel “fare scelte nette e conseguenti”, nello “scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia.
Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere “i propri amici culturali”.
Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente.
Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad “amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle “sociétés de pensée” laiciste e di sinistra.
Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione.
Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione.
Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante.
Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico.
Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d’avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello “critico” della milizia postconciliare.
Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l’opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta “irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva “damnatio” di quanto ho descritto fino qui.
3.
I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL’INTERLOCUTORE CATTOLICO Un ultimo punto, appena un poco “ad hominem”.
Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima.
Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul “Corriere della Sera” del 23 marzo del 2000, dal titolo “Il mea culpa dimenticato”.
L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: “L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una ‘povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia’] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.
Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una “riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici).
Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: “riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, “Coscienza laica”, a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili).
Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la “riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe.
Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni.
Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una “fides qua” senza “fides quae”) da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana.
A conclusione del percorso si dovrebbe dire: “reformata reformanda”.
Quando nei titoli di un giornale laico come “la Repubblica” si vede comparire la formula polemica: “la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere.
Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali? Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù.
Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della “Chiesa del dogma”.
Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della “fides quae”, che i seguaci odierni della battaglia modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore.
Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il “confirma fratres tuos”.
Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici “della riforma”, ennesimi “sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della “riforma mancata”.
Non perché dei “sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni.
Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali.
Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.
Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti.
Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e “confessio fidei” pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non “liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica.
Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al “Logos” e non bei simboli e buoni sentimenti.
È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno.
Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro.
Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili.
La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti.
Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella “Lettera sulla tolleranza” di Locke.
Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale (“a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua “innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice.
La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della “historia salutis” non dipende davvero dalla nostra “libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso “autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.
Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali.
Altri cattolici, i più “laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto.
Non si tratta del “fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un “bonum” sociale definito da altri (che è il significato autentico della “religione civile” di Locke e Rousseau).
Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma “laico” alla maniera delle grandi firme di “la Repubblica” e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica.
La “ratio” di un dialogo con esso è già risolta, dissolta.
È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.
__________ Il giornale on line su cui Pietro De Marco ha pubblicato, con alcune varianti, la sua replica a Ernesto Galli della Loggia: > L’Occidentale __________ 23.2.2009 Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla “laicità”, ossia sull’azione dei cristiani nella società civile.
Due fatti accomunati da un’identica questione, riguardante la vita umana “dal concepimento alla morte naturale”.
Il primo di questi fatti, apparentemente minore, è l’incontro al termine dell’udienza generale, tra Benedetto XVI e Nancy Pelosi speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, e il secondo è la grande mobilitazione contro la morte di Eluana Englaro per sentenza di un tribunale.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
L’INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI Una stagione al tramonto di Ernesto Galli della Loggia Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici.
Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell’Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall’attentato newyorkese dell’11 settembre.
Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un’intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l’Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell’ orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l’avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l’ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente.
Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico».
Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali.
Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all’opposto si sommano nuove ostilità.
E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.
Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un’opinione pubblica colta non orientata a sinistra.
Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione).
Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell’altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.
E’ accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un’occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un’immagine pubblica di maggior rilievo.
Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme.
Che l’incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l’apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!).
Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato.
E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d’interdizione rivelatosi alla fine efficace.
Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo.
Ha infatti reso ancora più chiara l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell’organizzazione ecclesiastica raggiunge l’apice.
Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto.
E’ così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.
Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica.
Sono convinto del contrario.
A ben vedere, infatti, l’autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa.
Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare).
E’ su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando.
Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.
EDITORIALE DEL “CORRIERE DELLA SERA” DEL 15 FEBBRAIO 2009
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