I Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Genesi 9,8-15 Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra.
Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sa-rà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni esse-re vivente che è con voi, per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».
L’Alleanza di Dio con Noè è una retroproiezione dell’alleanza sinaitica, fino ai primordi della storia umana, quindi con i lontani antenati del popolo ebraico.
Di fatti Noè, tramite suo figlio Sem, è il capostipite degli undici «patriarchi» postdiluviani che sfociano in A-bramo, il padre del popolo eletto e di tutti i credenti (Gn 11,10-26; Rm 4,11).
In realtà Dio aveva benedetto l’uomo fin dal primo istante della sua esistenza (Gn 1,28,31) solo che la caduta sembrava avere interrotti i loro rapporti, ma con Noè la storia ricomincia da capo.
Dio benedice Noè e la sua discendenza (cf.
Gn 9,1), depone la sua ira anche se non l’ha mai avuta e torna amico dell’uomo e di tutti gli esseri del creato.
Non fa-rà più sentire la sua collera e la sua vendetta su di loro (diluvio) anche se questi di nuovo dovessero abbandonare le vie della rettitudine e del bene.
Il Dio dell’antico Testamento scopre il suo vero volto: sembra che faccia promesse a una sola famiglia, ma le fa a tutti gli uomini poiché in quella famiglia c’è raccolta tutta la nuova umanità.
Il «segno» che ricorda il patto che Dio stabilisce con l’uomo è l’arcobaleno.
C’era anche prima della comparsa di Noè, ma d’ora in poi ricorderà agli uomini la parola di Dio, la sua bontà misericordiosa che si stenderà sul loro presente e sul loro avvenire.
Ogni volta che apparirà sarà un segno di propiziazione e di salvezza.
Seconda lettura: 1Pietro 3,18-22 Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i pec-cati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
E nello spi-rito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigionie-re, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo.
Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovra-nità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
La I Lettera di Pietro, sebbene di carattere pastorale, non è dei più facili testi del nuovo Testamento.
Soprattutto il brano della liturgia odierna.
I cristiani debbono saper sopportare pazientemente le derisioni, le ingiurie, le persecu-zioni che vengono dai loro vecchi commilitoni (3,8-18), facendosi forti della testimonianza di Gesù che ha patito sofferenze mortali per i peccati degli altri, tra i quali una volta si tro-vavano anche loro, i destinatari dello scritto petrino.
Ma in Gesù la morte non è stata la sua fine in assoluto, ma solo della sua esistenza nella carne, cioè in una condizione di fragilità e debolezza (cf.
Mt 26,41).
Morendo non ha fatto altro che passare a una vita nuova, dominata, in contrapposizione alla precedente, dallo «spirito» perciò spirituale.
È questa condizione esistenziale che gli ha consentito di entrare «salire» nel mondo di Dio, nei cieli dove ha conseguito una sovranità che lo pone al di so-pra degli stessi Principati e delle Potenze.
Addirittura Gesù è passato alla destra di Dio, siede al suo fianco, partecipa della sua potestà giudiziaria.
Il potere di Gesù giudice, secondo l’autore, è universale, si estende a tutti gli uomini, «ai vivi e ai morti» (ivi, 4.6), ma prima della giustizia essi sono chiamati a sperimentare la sua salvezza.
A tal proposito l’autore inserisce una notizia che si trova riferita solo nel suo scritto: la visita del Cristo risorto agli spiriti che si trovavano ancora incatenati nello Sheol, nel regno dei morti, in prigione, quindi in attesa di essere liberati.
I destinatari di questa azione liberatrice non sono i giusti dell’antico Testamento, ma i contemporanei di Noè, per di più quelli che non credettero alla sua iniziativa e per tale ri-fiuto furono puniti.
Chi siano questi spiriti ai quali Gesù va ad annunziare la salvezza non e facile a deter-minarsi.
Se i «demoni», di cui parla il Libro di Enoc o gli «angeli», oppure «i figli di Dio» che si invaghirono delle figlie degli uomini di cui parla Genesi 6,1-6 rimane problematico.
Ad ogni modo sono sempre esseri impenitenti e la salvezza messianica è accordata anche a loro: persino ai «peccatori più inveterati di tutti i tempi, anche della preistoria» (Bibbia e Catechismo, Paideia, 1999, p.
163).
Vangelo: Marco 1,12-15 In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.
Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vi-cino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Esegesi Gesù inizia la sua attività messianica con un rito preliminare, il battesimo, a cui fa se-guito un periodo di raccoglimento e di riflessione, un breve «noviziato», che termina con un pronunciamento programmatico.
Il battesimo è una scelta e una risposta determinante anche nella vita di Gesù, ma prima di mettersi all’opera ha bisogno di fare un po’ di chiarezza nel suo animo, di comprendere più a fondo il senso della chiamata che l’ha raggiunto in precedenza, di capire la maniera più opportuna di darle esecuzione.
Il deserto, quindi, la solitudine, la preghiera, l’ascolto della parola non potranno non contribuire a portare luce sulla sua situazione interiore.
Un profeta sembra che abbia una veste d’obbligo da indossare, un atteggiamento incon-fondibile da assumere, quello della severità, del rimprovero, quando non dell’asprezza, come Giovanni dava a vedere.
A prima vista le dimostrazioni di potenza sembravano ri-spondere all’agire divino più di quello della mitezza, dell’umiltà, del nascondimento, ma nella tradizione biblica aveva preso posto una figura insolita che raggiungeva il successo passando attraverso le umiliazioni e le sofferenze.
Un’immagine che a Gesù era stata fatta balenare nel battesimo e che ora nel deserto cerca di vagliare.
L’alternativa pertanto era tra il discendente davidico e il «servo di JHWH».
Il luogo di ritiro di Gesù è precisato solo vagamente.
Dall’esperienza sinaitica il «deser-to» era diventato il luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con Dio.
Qui Mosè aveva parlato a tu per tu con il Signore e qui i profeti avevano invitato il popolo a ritrovare o a rinnovare l’intesa con l’Altissimo (cfr.
Os 2,16-22; Gr 2,2-3; Dt 8,2; Ez 16,23).
Non per nulla Gesù «è spinto» (Matteo dice «fu condotto») nel deserto dallo Spirito.
Quindi si tratta di una prova, di un confronto, di una verifica impostagli da Dio stesso.
È un esame che egli dovrà compiere sul suo orientamento vocazionale e sull’attuazione che intende dargli.
I vangeli non fanno la cronaca di questo soggiorno di Gesù nel deserto; più sobrio di tutti è ancora Marco che ricorda appena la notizia.
In tutti i modi segnala la durata e ricor-da il combattimento spirituale che Gesù ebbe a sostenere con Satana.
Il numero «quaranta» è già convenzionale; denota soltanto un periodo di tempo appropriato per valutare una certa esperienza.
Gli israeliti sono lasciati vagare per quarant’anni nel deserto per verifica-re la loro fedeltà a JHWH (Es 16,35; Num 14,33-34); Mosè rimane con Dio sul monte per 40 giorni «senza mangiare pane e bere acqua» (Es 24,18; 34.28); Giosuè e i suoi compagni im-piegano 40 giorni per esplorare il paese di Canaan (Nm 13,25); Ezechiele giacerà sul fianco sinistro 40 giorni per scontare l’empietà d’Israele (4,6); Gesù risorto apparirà ai discepoli per lo spazio di 40 giorni (At 1,9).
Le «prove» o tentazioni che Gesù subisce nel deserto hanno la durata necessaria per ve-rificare la scelta compiuta.
Marco non lo dice chiaramente come gli altri due sinottici, ma stringe tutta la singolare esperienza di Gesù in questo soggiorno nel deserto nel verbo «peirazomenos», «per essere tentato», che la volgata traduce con un imperfetto «et tentaba-tur», si può dire iterativo, come a indicare che non fu un cimento sporadico, ma persistente per tutto il tempo trascorso nel deserto.
Se si volesse essere più precisi occorrerebbe dire che si tratta di una tentazione che durerà tutta la sua esistenza terrestre poiché la proposta divina troverà sempre reazioni contrarie, fino al Golgota.
La tentazione è una prova che gli evangelisti, in linea con la tradizione, attribuiscono al-l’Avversario del bene, a Satana.
Marco non dice di più, poiché Satana è un personaggio no-to ai suoi lettori.
Per l’uomo biblico anche il male ha un punto di partenza, un principio.
Satana è una creatura che si è ribellata a Dio e si è messa a ostacolare la realizzazione della sua opera, soprattutto la felicità dell’uomo.
Egli comparirà spesso nel nuovo Testamento, ma la sua identità o identificazione si fa sempre più problematica alla luce della nuova e-segesi.
La tentazione, ricorda Giacomo, scaturisce innanzitutto dall’intimo di ciascun uomo e raccoglie le voci del proprio egoismo in contrapposizione al piano di Dio e al bene co-mune.
Queste voci sono quelle che Gesù cerca di fare rientrare per far spazio alla proposta del padre.
Matteo dice che sono voci di facile prestigio, di spettacolarità, di potenza e di gloria, ma egli deve sapere che il percorso segnato da Dio è fatto di prestazioni scomode, onerose, umilianti.
Deve capirlo e soprattutto accettarlo.
Marco sorvola i temi della tentazione e ne segnala in anticipo la vittoria poiché menzio-na accanto a Gesù la presenza delle «fiere» e ricorda il servizio prestato dagli «angeli».
Due «dettagli» che riportano alla situazione delle origini prima del peccato quando l’uomo era in pace con le fiere e godeva dell’amicizia di Dio (cfr.
Is 11,6-9).
Il «paradiso» si poteva considerare riaperto, come Gesù segnalerà tra breve a Natanaele (cf.
Gv 1,51).
Il Cristo si scontra con il suo grande avversario ossia con le resistenze interiori che insorgono contro il cammino impostagli dallo Spirito, ma assapora già le primizie della vittoria che alla fine conseguirà.
Il secondo quadro di Mc 1,12-15 segnala l’apertura dell’attività messianica di Gesù.
Essa coincide più metodologicamente che realmente con la scomparsa di scena di Giovanni Bat-tista.
La missione di Gesù è singolare, unica; non si confonde, meno ancora si commescola con quella di alcun altro.
Egli comincia a parlare quando tutti gli altri tacciono.
Con lui si «compiono i tempi» dell’attesa ovvero della preparazione e incomincia la realizzazione della salvezza.
E solo lui è il mediatore degli uomini presso Dio.
Molti profeti l’hanno pre-ceduto ma nessuno può stargli a fianco, a fargli ombra poiché solo da lui proviene il dono di Dio.
Infatti nella scena della trasfigurazione compaiono accanto a lui Mosè ed Elia, ma dopo le parole del Padre «questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, a-scoltatelo» entrambi si eclissano e sulla scena rimane «Gesù solo» (Mc 9,7-8).
Il teatro della prima apparizione di Gesù contrariamente alle attese è la Galilea.
Un ri-chiamo non casuale poiché non era la terra più indicata per tali attuazioni.
I fatti non si po-tevano smentire, bisognava però confermarli e, se fosse stato possibile, apporvi l’avallo delle Scritture.
Marco si accontenta di riferire il fatto, Matteo fa appello, anche se arbitra-riamente, a un detto di Isaia (8,23-9.1).
I temi della predicazione di Gesù sono il vangelo, il regno di Dio, la conversione quale condizione per accogliere l’uno e l’altro.
Il «vangelo di Dio» è un’espressione propria di Marco e designa «la buona novella che Dio intende far pervenire agli uomini», cioè l’avve-nuta realizzazione delle sue promesse, la fine di qualsiasi malinteso e delle incomprensioni che si erano verificate nel tempo tra l’uomo e Dio e tra gli uomini tra di loro.
Il tutto equi-valeva all’instaurazione del regno di Dio.
Non è che il Signore avviava un suo particolare dominio sulla terra, sugli uomini; il suo progetto al contrario era realizzare tra gli esseri del creato una convivenza come quella che regnava ipoteticamente nel suo mondo.
Essi saranno più attenti alla sua parola e comprensivi gli uni verso gli altri.
Le condizioni per entrare nel regno di Dio, vederlo realizzato sulla terra è credere, rico-noscere cioè nella parola di Gesù una proposta che viene dall’alto e conformare ad essa la propria condotta.
La conversione non è un mutamento passeggero ma radicale; si tratta di cambiare modo di pensare e più ancora di agire; deporre le proprie aspirazioni egoistiche e acquistare quelle di Dio che sono solo desideri di bene.
Il termine greco metanoia è sinonimo di mutazione di pensiero ma più che nei riguardi della divinità nei confronti dei propri simili.
Il regno di Dio si realizza quando gli uomini tentano di capirsi e riescono ad amarsi tra di loro come li ama Dio.
Il regno porta la deno-minazione di Dio ma deve essere realizzato dagli uomini.
Meditazione Sull’ideale portale d’ingresso della Quaresima iscriviamo l’appello di Cristo: «Converti-tevi e credete al Vangelo».
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono co-me un colpo d’artiglio che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitu-dini consolidate dell’esistenza umana.
Noi, però, vorremmo oggi fissare la nostra attenzio-ne sulla scena della tentazione di Gesù, che Marco, anziché costruire sui celebri tre gradi di Matteo e di Luca (le pietre del deserto, il monte, il pinnacolo del tempio), semplifica in quattro frasette: lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, la tentazione dei quaranta giorni, la vita con le fiere, il servizio angelico.
Certo, nelle solitudini dei monti di Giuda si aggiravano probabilmente i lupi, si udiva il grido lacerante dello sciacallo, strisciavano serpenti velenosi.
Questi animali, però, ora so-no evocati per costruire un quadro non geografico ma simbolico.
Il dato decisivo, infatti, è che Gesù viva in mezzo ad essi in piena armonia.
Le poche parole di Marco rimandano, al-lora, ad un celebre passo messianico di Isaia.
Nei giorni del re Emmanuele «il lupo dimo-rerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, vitello e leoncello pa-scoleranno insieme e un fanciullo li guiderà; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli, il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi» (11,6-8).
L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato dal capitolo secondo della Genesi col giardino dell’Eden.
Gesù inaugura, allora, il mondo sognato da Dio e descritto proprio in quella pagina della Genesi a cui abbiamo alluso.
Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, ad essi imponeva il nome, su di essi dominava non come un ti-ranno prepotente e presuntuoso ma come guida incaricata dal Signore.
Gesù è il nuovo e perfetto Adamo che ci ripropone il mondo paradisiaco in cui Dio, uomo, animali e cosmo si intrecciano in uno stupendo arazzo di vita, di pace, di colori e di musica.
Lo stesso orizzonte riaffiora nella prima lettura, che descrive l’alleanza di Dio con Noè, l’uomo emerso dal diluvio, segno del giudizio divino sulle prepotenze e i crimini dell’u-manità.
L’arcobaleno è il simbolo dell’arco dell’ira divina, ormai deposto e non più imbrac-ciato dal Signore, giusto giudice e vindice degli oppressi.
Le acque del nulla e della morte, d’ora innanzi, saranno bloccate da Dio, nei cieli rifulgerà lo splendore di una nuova gior-nata e sulla terra si muoverà un’umanità rinnovata.
La Quaresima diventa il tempo per ri-tessere due squarci che le nostre mani hanno prodotto.
Il primo è quello aperto all’interno della trama delle relazioni con Dio.
Il Signore si affaccia dal suo mistero celeste per offrici ancora la mano in un gesto di alleanza e di riconciliazione.
Il secondo squarcio è, in questi ultimi tempi, consumato con maggior veemenza dal-l’uomo e, quindi, più drammaticamente avvertito che non in passato: tra l’uomo egoista e prepotente e la natura non c’è più fratellanza, ma tensione e ostilità.
Non siamo più in ar-monia con “sorella Terra”.
Ritroviamo, allora, anche con essa – come ha fatto il Cristo – il dialogo e l’alleanza; ritroviamo il rispetto per la creazione e la capacità di dare origine ad uno sviluppo equilibrato delle nostre relazioni con essa.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vi-ta e Pensiero, 2008-2009.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Quaresima! Mentre la natura, ancora immersa nel torpore dell’inverno, prepara nel segreto della terra la vitalità della primavera, tu ci chiedi di rinnovarci nel profondo del cuore e ci inviti a percorrere l’itinerario della Quaresima.
Ci inviti alla compassione, alla solidarietà verso i poveri, ai gesti della riconciliazione, della benevolenza, della misericordia.
Ci proponi di ritrovare attraverso la preghiera un rapporto autentico con te, intessuto di ascolto e di parole.
Ci offri la possibilità, attraverso la pratica del digiuno, di avvertire quella fame profonda che rischia di essere coperta dal nostro consumismo, dalla nostra ingordigia, da tante brame che attraversano la nostra esistenza.
Strada antica, quella della Quaresima, sentiero battuto da tanti altri cristiani prima di noi.
Tu ci spingi ad affrontarlo con risolutezza ed entusiasmo, con audacia e con gioia, perché è un percorso di liberazione, che ci conduce a sperimentare la forza e la bellezza della Pasqua.
Deserto «L’esperienza del deserto è stata per me dominante.
Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e il Nulla, la domanda diventa bruciante.
Come il roveto ardente, essa brucia e non si consu-ma.
Brucia per se stessa, nel vuoto.
L’esperienza del deserto è anche l’ascolto, l’estremo a-scolto» (Edmond Jabès).
Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì che nella Bibbia il de-serto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia così importante.
Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico ha diversi nomi: caravah, luogo ari-do e incolto, che designa la zona che si estende dal Mar Morto fino al Golfo di Aqaba; chor-bah, designazione più psicologica che geografica che indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogo selvaggio e di solitudine, senza piste, sen-z’acqua; ma soprattutto midbar, luogo disabitato, landa inospitale abitata da animali sel-vaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi.
Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è frutto dell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed è caratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte.
Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogo di morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazione attra-verso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio.
È in sostanza luogo di rinascita.
E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato non avviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata da mancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b 5) diviene il giardino apprestato per l’uomo nell’opera creazionale (Ge-nesi 2,8 15).
E la nuova creazione, l’era messianica, non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1 2).
Ma tra prima creazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvifico di Dio nella storia.
Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandi rivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire come medabber (colui che parla).
È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve la rivelazione del Nome (Esodo 3,1 14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suo popolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19 24); è nel deserto che colma di doni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fa presente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12); è nel deserto che attirerà nuovamente a sé la sua sposa Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) per rinnovare l’alle-anza nuziale…
Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, la fondamentale bipolarità semanti-ca del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandi ambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino.
Spazio ostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, con una fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, tra un’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla latte e miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità ari-da, monotona, fatta silenzio, del deserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.
Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quella in cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani la visione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parte integrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico si mostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Deuteronomio 8,2).
Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forse il viaggio intrapre-so dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio «Va’ verso te stesso!» (Ge-nesi 12,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto.
Il deserto è il luogo delle ribel-lioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo 14,11 12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5).
Anche Gesù vivrà il deserto come no-viziato essenziale al suo ministero: il faccia a faccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà in Gesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11).
Fortificato dalla lotta nel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico! Il deserto appare anche come tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si tra-versa.
Quaranta anni; quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia, per Gesù.
Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, la perseveranza, accettando il caro prezzo della speranza.
E, forse, l’immensità del tempo del deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino: nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è la regressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza della schiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà.
Una libertà che non è situata al termine del cammino, ma che si vive nel cammino.
Però per compiere questo cammino occorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione.
Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa del-l’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.
L’uomo del deserto può così ricono-scere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.
Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversio-ne, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3).
Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso dimi-nuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di di-minuzione del deserto.
Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amico dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.
Sì, è a questa ambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e, così esso diviene ci-fra dell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessa contraddittoria esperienza di Dio.
Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che «Dio non è nel deserto.
È il deserto che è il mistero stesso di Dio».
(Tratto dal libro: Enzo BIANCHI, Le parole di spiritualità.
Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 47-51).
Soli nel deserto Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre.
Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo.
Non vediamo mai al di là delle no-stre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.
Se ci accorges-simo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che sia-mo soli nel deserto, potremmo impazzire.
Quando mia madre offre degli amaretti di La-durée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgra-nocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo autosuggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.
Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 138-139) Il deserto Il deserto fu il luogo originario del popolo di Dio, il luogo in cui Gesù fu condotto dallo Spirito quando si ritirò nella solitudine.
Ed è anche il luogo a cui la chiesa è chiamata oggi dallo Spirito, come la donna dell’Apocalisse, la quale si ritira nel deserto in attesa che la violenza della persecuzione si attenui.
Non sto parlando in primo luogo del deserto dei monaci, ma di quello dei cristiani.
Il deserto monastico solitamente è un deserto fisico, ma la vita che il monaco vive in esso è come un sacramento del deserto di tutta la chiesa, uno speciale sacramento in cui egli esprime la propria vocazione, perché a questo è stato chia-mato e abilitato dalla grazia.
Ma anche la chiesa è in ogni tempo e nella sua interezza ad-dossata al deserto: essa vive in situazione di diaspora oggi più che mai .
Noi tutti siamo come sospinti all’indietro da tutte le domande che ci vengono poste e alle quali non sap-piamo trovare risposte immediate: siamo spinti in un deserto interiore.
Ma nel contempo, ciò costituisce anche un invito ad assumere maggiore consapevolezza della nostra profon-da povertà di comprensione, poiché in tal modo siamo ridotti a testimoniare con la sola forza dello Spirito: sarà lui a parlare in noi, non dobbiamo preparare in anticipo la nostra difesa.
(A.
Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp.
9-20).
«Fuggi, taci e prega» Arsenio era un romano molto colto, di dignità senatoria, che viveva alla corte dell’im-peratore Teodosio come precettore dei principi Arcadio e Onorio.
Quando era ancora a corte, l’abate Arsenio pregò Dio con queste parole: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato».
Arrivò a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Dopo aver lasciato segretamente Roma, imbarcatesi per Alessandria e ritiratesi a vita solitaria nel deserto, Arsenio tornò, con le stesse parole, a rivolgere la preghiera: «Signore, mostrami la via per la quale essere salvato», e di nuovo sentì una voce che gli diceva: «Ar-senio, fuggi, taci, vivi in solitudine: sono queste le radici dell’innocenza».
Le parole: «Fuggi, taci e prega», sintetizzano la spiritualità del deserto.
Indicano i tre modi di evitare che il mondo ci plasmi a sua immagine e sono, quindi, le tre vie alla vita nello Spirito.
(H.J.M.
NOUWEN, La via del cuore, Brescia, 1999, 14).
Preghiera Signore Gesù, domani inizia il tempo di quaresima.
È un periodo per stare con te in modo speciale, per pregare, per digiunare, se-guendoti così nel tuo cammino verso Gerusalemme, verso il Golgota e verso la vittoria finale sulla morte.
Sono ancora così diviso! Voglio veramente seguirti, ma nel contempo voglio anche seguire i miei desideri e prestare orecchio alle voci che parlano di prestigio, di successo, di rispetto umano, di piacere, di potere e d’influenza.
Aiutami a diventare sordo a queste voci e più attento alla tua voce, che mi chiama a scegliere la via stretta verso la vita.
So che la Quaresima sarà un periodo difficile per me.
La scelta della tua via dev’essere fatta in ogni momento della mia vita.
Devo scegliere pensieri che siano i tuoi pensieri, parole che siano le tue parole, a-zioni che siano le tue azioni.
Non vi sono tempi o luoghi senza scelte.
E io so quanto profondamente resisto a scegliere te.
Ti prego, Signore: sii con me in ogni momento e in ogni luogo.
Dammi la forza e il coraggio di vivere questo periodo con fedeltà, affinché, quan-do verrà la Pasqua, io possa gustare con gioia la vita nuova che tu hai preparato per me.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, In cammino verso l’alba, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vi-ta di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 237-238).

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