La terza opera cinematografica di Stephen Daldry – “un film sulla verità e la riconciliazione” come il regista afferma, che concorre agli Oscar anche come miglior film, migliore regia, migliore fotografia e migliore sceneggiatura non originale – segue gli assai applauditi Billy Elliot e The Hours, inserendosi perfettamente e coerentemente in questa sua speciale “trilogia umana”: il bambino che realizza, contro tutto e tutti, un sogno; donne allo specchio che affrontano la vita, ma all’ombra della morte; una coppia che ama e soffre sullo sfondo di una nazione traumatizzata.
All’origine di una brillante, volutamente scarna e gelidamente concentrata sceneggiatura del drammaturgo David Hare, che non segue una logica temporale, ma più curiosamente emotiva, si trova il romanzo A voce alta di Bernhard Schlink, pubblicato per la prima volta nel 1995.
Caso letterario non solo tedesco, storia di un remoto capitolo della Shoah che penetra le pagine ed ora scorre sullo schermo, nel susseguirsi di una serie di passioni, di scoperte, di disillusioni, di ferite.
Al centro, questa volta, non è la vittima, non l’innocenza.
Anche il senso di colpa del singolo e il suo cammino di redenzione sono al margine.
Al centro ribollono la frenesia del dubbio, la voglia di amare, il dovere di condividere, la sofferenza del conoscere, il rigore del giudicare, il desiderio di cancellare, di girare pagina.
“Il romanzo – sempre a detta di Daldry – affronta il problema di come continuare, dopo quello che è avvenuto”.
Hanna, geneticamente anaffettiva, trascorsa questa breve e travolgente estate si eclissa inaspettatamente dalla vita di Michael che in prima persona ricorda e racconta.
Gli riappare dopo molti anni – siamo tra il 1963 e il 1965 – col suo vero volto; lui studente di legge, lei aguzzina ad Auschwitz-Birkenau, col suo pesantissimo fardello di responsabilità, dinanzi al tribunale di Francoforte che la sta giudicando, con altre turpi e impassibili signore, per crimini contro l’umanità.
Ma ora, per estremo, più comprensibile pudore, decide di celare a tutti un secondo segreto che segnerà la sua condanna definitiva e poi diventerà l’unico tramite col mondo, tentativo per rimanere viva e recuperare una dignità irrimediabilmente perduta.
Si chiude così il secondo capitolo della loro esistenza.
Quello che innesca pietà e rabbia.
In un acceso confronto con il suo insegnante – è Bruno Ganz, di gran classe – e alcuni colleghi d’università, Michael sarà sottoposto ad una serie di riflessioni scottanti e dolorose: quanto amorale sia stato il comportamento di una intera nazione; quanto il processo successivo avrebbe dovuto investire tutti i suoi abitanti e non soltanto un’esigua parte; se e quanto la colpa sia trasmissibile, se il perdono possa avere più senso o rivestire più utilità della giustizia.
Quanti se, quanti tentativi di soluzione – “Non è importante quello che sentiamo, ma quello che facciamo” confessa il professore – quanti silenzi, quanto smarrimento.
Il terzo capitolo, quello finale, vede Michael ormai adulto e infelicemente sposato – l’attore Ralph Fiennes – ritessere suo malgrado le fila del suo rapporto con Hanna che sta scontando l’ergastolo, lui condividendone di nuovo, fino in fondo, il tragico destino in forza di un amore mai sopito.
Questa volta il potere delle parole, della narrazione, dell’ascolto, supera tutte le barriere, tutte le inferriate, quelle dell’anima e della prigione.
Ma il tempo avuto a disposizione per riflettere sul passato non sembra aver inciso sul carattere della donna ormai settantenne: “Non importa cosa penso, non importa cosa provo: i morti sono morti”.
Ci sarà anche un’appendice.
Entra in scena una vittima figlia di una vittima, il volto è quello impassibile, incorruttibile e drammatico dell’attrice Lena Olin.
Siamo a New York.
Un nuovo, affilato duello verbale con il neo-avvocato mette in chiaro: perdono no, pietà sì.
Le cose, per chi ha vissuto l’orrore fino in fondo, non possono andare altrimenti.
Michael riflette: “Il dolore che ho vissuto a causa del mio amore per Hanna era, in un certo senso, il destino della mia generazione, un destino tedesco”.
Visitando la tomba di Hanna mano nella mano con la figlia, il suo racconto può, deve ricominciare.
di Luca Pellegrini (©L’Osservatore Romano – 20 febbraio 2009) ”Musa, quell’uom di multiforme ingegno / Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra / Gittate d’Ilïon le sacre torri”: Michael Berg, disteso sul letto, le legge l’incipit dell’Odissea prima di gettarsi tra le sue braccia.
Per lui, quindicenne, è l’esperienza della prima, trasgressiva passione che si trasformerà in un amore intenso e irreversibile; per lei, la pallida e brusca trentenne Hanna Schmitz – l’interpretazione, sconvolgente, è quella di Kate Winslet giustamente candidata all’Oscar – è soltanto un’illusoria fuga dalla memoria di quell’Europa dissacrata, bruciata, insanguinata sulla quale molte “sacre torri”, grazie anche alla sua fanatica, cieca devozione, al suo senso di perverso dovere, erano state gettate qualche anno prima.
Per entrambi queste letture dei classici, queste ore insieme così nascoste, così innaturali, sono un illusorio viaggio verso un futuro irrimediabilmente incerto.
Lui è The Reader, il lettore appunto: nato nella Germania postnazista in lenta ricostruzione, anche umana; lei del nazismo è stata, invece, una pedina, un’attiva carnefice, ora vende biglietti sui tram di una città disfatta (Heidelberg).
Due generazioni s’incontrano, si fronteggiano e si separeranno.
Incarnano l’anima della Germania del dopo guerra in cui i rigurgiti dell’orrore si fanno sentire.
Tanto sono vicine cronologicamente, queste generazioni lacerate, quanto lontane spiritualmente; tanto l’unione fisica del ragazzo e della donna, e soltanto quella, inizialmente le avvicina, simulacro di felicità, quanto i loro passati, le educazioni e culture agli antipodi, inesorabilmente le dividono.
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