Verso il IX Forum del Progetto culturale che si terrà a fine marzo a Roma, gli esperti s’interrogano sul tema dell’emergenza educativa.
Evandro Agazzi: «In passato la famiglia delegava ai docenti l’istruzione, ma sugli orientamenti di vita agiva da sé.
Oggi però questo schema è ormai saltato» L’intervista E’ mergenza educativa? «Parlerei soprattutto di un travaglio generalizzato delle società avanzate in molti campi, incluso quello educativo» risponde Evandro Agazzi, filosofo delle scienze, ordinario dell’Università di Genova e direttore di Nuova secondaria, il mensile dell’editrice La Scuola.
«Qui si va oltre l’emergenza, che è improvvisa e imprevista.
In questo caso non è così».
Nessuna sottovalutazione del problema, anche se «esistono diversi aspetti della questione: quello istituzionale, che coinvolge la scuola; quello della famiglia…».
Iniziamo da quest’ultimo aspetto.
Si assiste a una crescente difficoltà nella trasmissione di valori e tradizioni tra le generazioni.
Cosa è saltato rispetto a quanto avveniva nel passato? «È un problema che ha radici lontane.
Nel passato alla scuola veniva chiesto di fornire quell’istruzione che la famiglia non era in grado di fornire, mentre ai genitori spettava la trasmissione dei valori, che comunque trovavano corrispondenza in quelli della scuola, in una sorta di continuità.
Oggi si è persa questa percezione.
Alla scuola viene riconosciuta la funzione limitata all’informazione, quasi di tipo nozionistico.
Ma sui valori, sugli orientamenti di vita, è invitata a mantenere una neutralità educativa».
Dunque trasmettere i valori resta compito solo della famiglia? «In realtà ci troviamo davanti a un vuoto, perché la famiglia sembra non avere più tempo per dare questa formazione valoriale ai figli.
Spesso entrambi i genitori lavorano e stanno poco con i figli.
Così si crea dispersione e disorientamento nei giovani, che cercano quei valori prendendoli qua e là, magari dalla televisione e da Internet».
Scuola neutrale, famiglia assente.
Un quadro desolante.
«Allo scenario va aggiunto anche un problema di mancanza di fiducia tra scuola e famiglia.
Un tempo nessun genitore avrebbe mai messo in discussione un giudizio o un voto dato a scuola dall’insegnante.
Ora accade il contrario.
Un fenomeno che si spiega anche con la perdita di autorità da parte dei genitori, che a volte rinunciano al loro ruolo per diventare ‘amici’ dei loro figli.
Un errore».
Scuola delegittimata dalla famiglia.
Eppure in passato si è parlato spesso di delega educativa da parte della famiglia alla scuola.
Non le pare contraddittorio? «Più che di delega, parlerei di una generalizzata scelta di scaricare sulla scuola una serie di compiti impropri, che hanno avuto come risultato quello di togliere tempo ai compiti fondamentali della scuola.
Ci sono cose che si apprendono solo a scuola, ma il moltiplicarsi delle cosiddette ‘educazioni’, ha dato vita a materie che sono gravate sulla scuola.
Un po’ anche per scaricarsi la coscienza da parte delle altre istituzioni e dimostrare sensibilità verso un tema».
Cosa è possibile fare per invertire la rotta e tornare a educare? «Non si può che partire dalla famiglia.
Direi quasi che bisogna educare i genitori a svolgere il proprio ruolo e il proprio compito.
Un apprendimento che nel passato avveniva nella famiglia d’origine, ma anche altre istituzioni aiutavano i giovani a diventare uomini e don- ne maturi.
Penso alla Chiesa e alla sua catechesi.
Oggi la famiglia appare priva di valori da trasmettere e nella società servono valori e modelli di vita».
Ma questo come è realizzabile in una società, che, rispetto al passato è decisamente plurale? «È sicuramente più complesso rispetto al passato dove sostanzialmente avevamo una società più omogenea sui valori, perché al di là delle diverse etiche tutto sommato ci si ritrovava su una morale condivisa.
Oggi non è più così.
Occorre cercare un minimo comune denominatore da condividere.
Penso che possa essere, ad esempio, il senso del dovere, cioè il riconoscere che esistono doveri e che le nostre azioni devono essere in conformità.
Così si potrà parlare di coscienza morale condivisa».
Ma davanti a una pluralità di valori come può la scuola aiutare i giovani a formarsi un proprio bagaglio di principi? «La scuola aiuta i giovani se riesce a insegnare loro il senso critico.
Lo ritengo il dovere di ogni insegnante, che non deve nascondere il proprio bagaglio di valori, ma nell’esporlo deve essere onesto, convinto e, appunto, critico.
Non si tratta di indottrinare nessuno, ma di dare ragione delle proprie idee e dei propri valori».
Insomma docenti con onestà intellettuale, ma anche rispettosi degli altri punti di vista? «I ragazzi lo percepiscono subito se un adulto crede davvero in ciò che dice.
Accade anche a scuola con i docenti, che devono rendere ragione delle proprie af- fermazioni, aiutare i ragazzi a riflettere, a ragionare anche sulle cose considerate assodate, come capita spesso nelle materie scientifiche, dove spesso regna il vero dogmatismo, cioè la presentazione di “verità” indiscutibili.
Viceversa anche a proposito di tali contenuti è essenziale far capire ‘perché’ sono validi e attraverso quali prove, spesso complesse, si è stabilita la loro validità, per altro sempre aperta a riconsiderazione.
È la strada per insegnare ai ragazzi quel senso critico, che appare attualmente uno strumento necessario per potersi muovere in questa società sempre più plurale».
Enrico Lenzi
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