VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25 Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele.
Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità.
Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».
Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc.
40-44).
— I vv.
18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speran-za, volgendo lo sguardo verso il futuro.
La dimenticanza del passato qui intesa non è cer-tamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve in-vece nutrire la fede nel futuro.
Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che al-letta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguarda-no il presente.
Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova.
Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla prima-vera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare.
Con altre im-magini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.
— Il v.
21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.
— I vv.
22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati.
Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Di-o.
Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avu-to pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 2Corinzi 1,18-22 Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no».
Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì».
Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì».
Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria.
È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.
La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S.
Paolo ai Corinzi, che ec-celle tra le opere dell’antica letteratura greca.
Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.
Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo.
Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico.
Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no».
Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf.
Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere de-finito un unico continuo «sì» (vv.
18-20).
In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un tra-scurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Ge-sù Cristo nei confronti del Padre.
E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiede-re.
Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo ab-biamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv.
21-22).
Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che par-la della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.
Vangelo: Marco 2,1-12 Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni.
Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone.
Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico.
Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?».
E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».
Esegesi Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6.
La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo e-braico.
Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la ri-velazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.
— I vv.
1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è proba-bilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea.
Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.
— I vv.
3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico.
Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato.
Né i padroni di casa né Gesù accenna-no a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso.
Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l’annunzio della parola e la guarigione dei malati.
La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).
— Il v.
5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi po-teri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remis-sione dei peccati.
La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare.
Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono ri-messi i peccati.
Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati per-sonali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tut-ti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato.
Contemporanea-mente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.
A questo punto, i vv.
6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la pre-senza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia.
Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.
Nei vv.
8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla ma-lattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.
Nei vv.
10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa.
Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i pecca-ti.
Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimen-ti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.
Nel v.
12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Ge-sù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica.
Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.
Meditazione Solo Dio, con la potenza della sua misericordia che si manifesta mediante il perdono, può ricreare la vita dell’uomo; le ferite del peccato vengono rimarginate e la bellezza di co-lui che è stato creato per essere immagine di Dio viene ridonata.
L’uomo è chiamato a guardare in avanti, verso una novità di vita che è solo dono di Dio.
Questa nuova creazio-ne si realizza in modo definitivo nella parola potente di Gesù, parola che può salvare l’uomo dalla paralisi del peccato, parola pronunciata mediante quella autorità che il Figlio ha ricevuto dal Padre: «…perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra» (Mc 1,10).
Può essere questo il tema centrale della liturgia della Parola in questa domenica del tempo ordinario: una vita rinnovata dal perdono.
E il racconto della guarigione del paralitico, riportato dall’evangelista Marco, è una icona stupenda di ciò che Dio può fare per l’uomo.
Marco apre la narrazione del miracolo con tre elementi descrittivi che hanno come pun-to focale Gesù e i suoi discepoli, simbolo della comunità dei credenti, la Chiesa, in cui l’uomo trova, nell’annuncio dell’evangelo e nella remissione dei peccati, lo spazio per in-contrare Gesù e la potenza stessa di Dio.
Infatti c’è un luogo, una casa in cui Gesù è presen-te con i suoi discepoli e nella quale egli «annuncia la Parola» (v.
2) e guarisce.
Davanti alla porta di questa casa ci sono tante persone che si accalcano in cerca di una parola di conso-lazione, di un segno di salvezza, di una guarigione, di una liberazione.
È in quella casa che tutti desiderano entrare per incontrare Gesù, a costo di trovare altre vie di accesso se sono impediti (ciò che avverrà per il paralitico).
E infine ciò che risuona in questa casa è anzitut-to una parola, piena di autorevolezza, potente, capace di cambiare la situazione dell’uomo, forte come l’atto creatore di Dio.
È la parola dell’ euangelion, una parola di gioia, di libertà e di pace.
In questa cornice, così carica di forza rinnovatrice, di salvezza, viene simbolicamente ‘calato’ l’uomo che soffre, ferito nella sua dignità, incapace di camminare verso la vita, sfi-gurato dal male.
È questa la realtà che possiamo cogliere nella figura del paralitico.
Ab-biamo detto: viene calato.
Nel gesto compiuto dai quattro uomini che scoperchiano il tetto nel punto in cui si trova Gesù e di lì calano «la barella su cui era adagiato il paralitico» (v.
4), non solo si rivela il mistero di una fede che si fa solidale, ma soprattutto l’impossibilità dell’uomo di salvarsi da solo.
L’uomo immobilizzato, incapace di muoversi, di reagire, di camminare verso la vita, non solo ha bisogno di essere salvato, ma di lasciare che altri lo conducano alla salvezza.
È la fede di una comunità che sa farsi carico delle sofferenze del fratello, con la preghiera e con gesti concreti (capace addirittura di aprire varchi impensati quando si incontrano ostacoli), a condurre l’uomo immobilizzato di fronte a Gesù.
E Gesù ammira proprio questa fede a cui il paralitico si è affidato.
In che cosa consiste la salvezza, la novità di vita che viene donata all’uomo? Al paraliti-co Gesù dice dapprima: «Figlio, ti sono perdonati i peccati» (v.
5).
E poi, di fronte agli scribi scandalizzati, dirà: «alzati, prendi la tua barella e va a casa tua» (v.
11).
Lo sguardo di Gesù, pieno di compassione, sa penetrare nel profondo della esistenza di quell’uomo immobiliz-zato.
Va oltre il male fisico che impedisce a quell’uomo di muoversi e rivela come il pecca-to sia il vero fallimento dell’uomo, di ogni uomo, anche di colui che crede di esser sano (come quegli scribi).
Dalla parola potente di Gesù (di fatto non compie nessun gesto), l’uomo viene toccato nel suo essere profondo e invisibile, lì dove si manifesta la reale rot-tura con Dio, lì dove l’uomo si nasconde a colui del quale è immagine, lì dove sperimenta paura, disorientamento e alienazione.
Vicino a Gesù, attraverso la sua parola che è perdo-no, l’uomo riscopre il suo volto interiore come comunione con Dio; e questo si riflette su tutta l’esistenza , ridando all’uomo la possibilità di agire e di camminare.
Veramente la vita dell’uomo è ri-creata.
Ma resta un dubbio: guarigione dalla sofferenza fisica e guarigione dal peccato sono la stessa cosa? Perché Gesù sembra percorrere due vie di salvezza, unendole così tra di loro? Allora peccato e malattia sono legati? C’è la tentazione di vedere strettamente unite questa due realtà di male che sfigurano mortalmente il volto umano.
Una certa visione di Dio, presente anche nella Scrittura, può condurre quasi a una identificazione tra peccato e sof-ferenza: è questo il tormento di Giobbe.
Ma questo è un volto di Dio che non può essere accettato; Gesù stesso, rivelando il suo amore per tutti coloro che sono afflitti da varie ma-lattie, non solo rifiuta questa visione della sofferenza, ma manifesta un Dio pieno di com-passione.
E allora perché questa relazione peccato-malattia? Spesso, capita anche a noi, quando viviamo o incontriamo la sofferenza, di dire frasi come questa: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Perché il Signore mi ha castigato?».
Dobbiamo riconoscere che proprio il peccato, come lontananza da Dio, ci fa sentire la sofferenza come silenzio, ostilità, assenza di Dio.
Guarire l’uomo alla radice di questa profonda rottura vuol dire li-berarlo dalla paura di Dio, quella paura che paralizza, e annunciargli la prossimità di Dio, un Dio che si china, si avvicina proprio a chi è ferito e sofferente.
Davvero Gesù salva e li-bera l’uomo integralmente.
Il profeta Isaia aveva preannunciato: «Non ricordate più le cose passate…
Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
Al paralitico Gesù dice: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (v.
11 ).
Colui che è stato guarito e perdonato dalla misericordia di Dio può ri-prendere un cammino autentico, prima impossibile, ‘verso casa’: è un ritorno alla vita, ma rinnovato, nel quale anche i segni della sofferenza sono accolti e portati su di sé in modo diverso.
Infatti sulle spalle l’uomo guarito porta proprio quel lettuccio che lo teneva para-lizzato; ma da questo momento quel luogo di sofferenza sarà memoria della salvezza e della misericordia di Dio.
Il perdono ci da occhi nuovi con i quali possiamo guardare con coraggio le nostre sofferenze e il nostro peccato.
Le cicatrici possono rimanere, e a volte possono fare ancora male; ma da segno della nostra debolezza e del nostro peccato, si tra-sformano in memoria della compassione di Dio.
Solo Dio può trasfigurare così la nostra vi-ta: le tenebre possono diventare luce.
«Ecco, io faccio una cosa nuova».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
L’ascolto del deserto “L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchie sulla sabbia.
– Che fai? – Ascolto il deserto.
– Sì, ascolto il deserto che piange.
E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.
E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3) La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei.
A buon diritto viene riferito che il paraliti-co era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le vir-tù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza.
Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7).
Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).
Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li pre-me da ogni parte.
Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carna-le, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia cele-ste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini.
Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signo-re, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo.
Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo in-segna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.
«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 2,3-4.
In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol.
1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p.
71-72).
Confermarsi l’un l’altro nella fede «Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale.
Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto.
Volevo morire per affogamento.
Imma-ginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.
Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire.
Camminai tutta sola lungo la spiag-gia deserta.
Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna.
Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa.
Dentro di me sapevo di do-ver morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché get-tarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.
Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me.
Era molto distinta e chiara.
La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso.
C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto.
Vedevo solo le onde del-l’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia.
La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amo-re e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati.
Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.
Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vi-ta.
Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte.
Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione.
Ora vivo e amo.
Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia.
Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza.
Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno.
Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.
Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidan-dola a mani che potrebbero essere dure e insensibili.
Non tollererei di permettere che qual-cuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.
Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condi-videre tutto questo con te.
Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi.
Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).
Le mie mani Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti, davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire e perché tu ne cancelli la sporcizia.
Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate, davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…
Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.
Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te, o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.
Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore, io le apro: attendo il tuo perdono.
(Charles Singer).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia mor-te.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzio-ne.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
II ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albero».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista) Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità: «Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto.
Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).
(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).
Il Perdono O Signore, per vivere Te in mezzo agli uomini, uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare, di dimenticare il passato dell’altro.
Perdonare e ancora perdonare, ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.
Amare è presto detto.
Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.
Non si perdona per interesse, non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.
Si perdona unicamente per seguire Te.
In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù, con la tua ultima preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
E questa preghiera ne farà nascere un’altra: Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.
Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore: per essere testimone di un avvenire.
(Regola di Taizé)

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