Per raffigurare il Figlio di Dio

È suggestivo in questo senso un frammentario rilievo del IV secolo ai Musei Vaticani: rappresenta una barca in cui i rematori sono gli evangelisti [Joh]annes, Lucas, Marcus (Matheus doveva trovarsi nel pezzo mancante, a sinistra), mentre il timoniere è Iesus, il quale incoraggia tutti con un gesto della mano destra.
I volti degli evangelisti sono leggibili, quello di Gesù molto meno, causa l’abrasione avvenuta in epoca imprecisabile per motivi sconosciuti o per caso.
Questo rilievo paleocristiano – oltre alla funzione metaforica che vorrei attribuirgli – aiuta poi a riscoprire uno stile esegetico utile al presente discorso: attento ai dettagli ma convinto che questi vanno reinseriti nel contesto globale definito dal “timoniere” Cristo e non dai singoli testi, ognuno dei quali, come un rematore isolato, risulta inadeguato al progresso della nave.
Mentre il modo moderno di leggere i Vangeli distingue i contorni dei singoli testi, voglio dire, quello antico era più preoccupato di trovare i fils rouges lessicali e concettuali che permettevano di coglierne l’unicità del senso.
Lo sviluppo di “codici iconici” dell’interiorità nella raffigurazione di Gesù attraverso i secoli appartiene a questo stile.
Un altro principio ermeneutico da tener presente è che, almeno in passato, l’artista era chiamato a rispondere alle attese del suo pubblico e specificamente del committente dell’opera in oggetto.
Nella fattispecie, chi s’accingeva a raffigurare Cristo rispondeva alla domanda della Chiesa di visualizzare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” fino a quando Dio non le abbia “rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr.
Isaia, 64, 3).
L’ambito della raffigurazione era cioè una novità di sguardo la cui chiave ermeneutica è la fede, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei, 11, 1).
Una piccola placchetta votiva del iii-iv secolo (conservata pure questa ai Musei Vaticani) aiuta a immaginare questo modo di vedere: è una sottile lamina d’oro con due occhi spalancati e – frammezzo – la croce.
Questo “sguardo nuovo” prepara i cristiani a guardare al mondo attraverso il mistero pasquale, in cui diventa palese che tutte le cose – spirituali ma anche materiali – “sussistono in lui”, Cristo, che le “riconcilia” e le “rappacifica” “con il sangue della sua croce” (cfr.
Colossesi, 1, 17-20).
I puntini che animano la forma di croce nella placchetta vaticanense alludono all’uso del periodo di tempestare la superficie di croci liturgiche con pietre preziose in segno della gloria sfociata dall’umiliazione del Golgotha: una magnifica croce gemmata delle stesse collezioni vaticanensi illustra il concetto.
Tale modo misterico di vedere le cose risale agli inizi della cultura cristiana.
Una straordinaria descrizione è fornita da Giustino Martire, che già nel ii secolo aveva riconosciuto la croce come struttura nascosta di ogni realtà terrestre: della nave che solca il mare grazie alla vela sostenuta dalla varea, la parte più alta del pennone, cruciforme; dell’aratro dell’agricoltore similmente configurato, come degli attrezzi di artigiani ed artisti.
Secondo Giustino Martire perfino “la figura dell’uomo si distingue da quelle degli animali precisamente in questo: che l’uomo sta in piedi e può allargare le braccia, e ha sul viso, scendente dalla sua fronte, il naso attraverso il quale passa il respiro della creatura vivente: e questo mostra esattamente la forma della croce”.
Se però agli occhi della fede il segno distintivo di ogni cosa creata e perfino dell’uomo è la croce, “logica” nascosta di ogni realtà umana, quanto più non sarà leggibile questa forma in Cristo, Logos divino per cui tutto l’esistente è stato fatto! Un mosaico del v secolo, nella serie di episodi della Vita Christi in Sant’Apollinare nuovo a Ravenna, esplicita questo assunto: narrando La moltiplicazione dei pani e pesci l’anonimo maestro dà a Gesù la posa che egli assumerà su Golgotha, intuendo che ogni racconto di un pasto nel Nuovo Testamento prepara a comprendere il pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Gesù offrì il proprio corpo e sangue nei segni del pane e del vino per soddisfare la fame spirituale di quanti l’avrebbero seguito, dando poi concretamente il corpo e sangue il giorno dopo sulla croce.
Innovativa in quest’opera è la “ipostatica unione” del segno con la persona reale.
Laddove un artista d’epoca classica avrebbe rispettato il limite narrativo dell’evento, il maestro paleocristiano inverte le coordinate, lasciando intendere che in Cristo ogni limite narrativo è superato.
Non solo il miracolo compiuto durante il ministero pubblico viene letto alla luce della successiva crocifissione, ma questa poi viene interpretata alla luce dell’ancor successiva ascensione: qui infatti il Cristo cruciforme veste la porpora imperiale, un modo adoperato all’epoca per evocare la sua gloria finale.
Ecco un primo “codice iconico dell’interiorità” di Cristo: il mistero pasquale che traspare in tutta la sua persona.
Una sottolineatura del codice riguarda poi il rapporto dell’uomo cruciforme con le parole che, attraverso i secoli, hanno espresso la fede e l’attesa, il dolore, la speranza e la gioia di quanti desideravano la salvezza.
Eloquente in questo senso è la prima delle “illustrazioni” di un’antologia poetica composta dal monaco Rabano Mauro nel primo ix secolo e dedicata al figlio di Carlomagno, l’imperatore Lodovico il Pio: De laudibus sanctae crucis.
L’immagine fa vedere il corpo di Gesù crocifisso sovrapporsi alle parole di un testo, o meglio, il corpo che sembra plasmarsi da esse, come se contemplassimo l’atto stesso dell’Incarnazione, il Verbo mentre diventa carne umana.
Del resto non si tratta del casuale abbinamento di un’immagine a delle parole, ma di un carmen figuratum in cui il posizionamento di ogni lettera di ogni frase nel campo visivo è calcolato di sorta che alcune delle lettere – quelle evidenziate dal disegno sovrapposto – formino parole e frasi che spieghino il disegno; intorno al volto, per esempio, leggiamo Iste est rex gloriae.
In un carmen figuratum, senza le parole che la costituiscono l’immagine non ha pieno senso, né le parole senza l’immagine che dà loro specificità – che cioè le “incarna”! La stessa mistica sintesi condizionerà l’iconografia cristiana fino al Quattrocento, ma dal xii-xiii secolo in avanti avvertiamo anche un’attenzione biografica.
Il disegno dell’inglese Matthew Paris, monaco benedettino e scrittore, autore della Chronica maiora con preziose informazioni intorno all’Inghilterra e l’Europa tra il 1235-1259, illustra questa tendenza.
Accanto al Signore risorto e glorioso lo stesso foglio fa vedere il momento storico precedente – il volto agonizzante di Cristo in croce – come per insistere che quanto contempleremo un giorno nel Risorto includerà il suo ricordo personale della passio; questi due volti sono poi introdotti da un altro momento storico, perché nella parte alta del medesimo foglio l’artista fa vedere Gesù bambino che incrocia lo sguardo di Maria.
Leggendo dall’alto verso il basso, i tre volti di Cristo obbligano a collegare la gloria alla precedente sofferenza e questa poi all’amore imparato tra le braccia della madre! Guardando ai tre volti capiamo che Colui che nacque era pronto a morire, come afferma la lettera agli Ebrei; che poi morendo con accanto sua madre si ricordò della propria infanzia; e che nell’ascensione al cielo portò con sé l’una e l’altra esperienza.
Ecco dunque un nuovo codice iconico: la compresenza nell’unica persona di Cristo, vero uomo e vero Dio, di esperienze sia storiche che eterne.
Questi due codici – la leggibilità del mistero pasquale col volto come cifra delle Scritture, e la storia umana e divina compresenti in Cristo – confluiranno alla fine del Medioevo in un unico linguaggio la cui sintassi e grammatica vengono definite nello stile caratterizzato come proto-rinascimentale.
Esempio eccelso è il bel Cristo benedicente di Raleigh, North Carolina, databile al secondo decennio del Trecento, quasi certamente un autografo di Giotto.
Il dipinto parla l’idioma corporeo sviluppato dall’artista fiorentino, con un calore negli incarnati e una morbidezza nel modellato lontani dalle tinte gemmate e le forme appiattite della coeva arte bizantina.
Il senso teologico di queste novità è suggerito poi dalla giustapposizione del libro chiuso nella sinistra del Salvatore con la sua destra aperta in benedizione, quasi un’illustrazione dell’affermazione neotestamentaria secondo cui “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Ebrei, 1, 1-3).
“Irradiazione” e “impronta” sono termini visivi evocanti illuminazione e tridimensionalità, e ben descrivono questo straordinario Cristo benedicente.
Nella mezza-figura dipinta da Giotto, la nuova corporeità umana coesiste con attributi divini codificati dalla tradizione: lo sguardo fisso, la posa regalmente ieratica e le vesti dai colori simboleggianti le due nature del Salvatore: rosso per la terra degli uomini e il blu del cielo di Dio.
L’effetto globale è di una corporeità capax Dei, capace della dignità divina.
La simmetria dei tratti poi, insieme alla carnagione pulsante di salute e le labbra tenere e ben formate fanno di questo Cristo davvero “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3), il Diletto “bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille” (Cantico dei cantici, 5, 10), lo Sposo a cui la Chiesa dice “Vieni!” (Apocalisse, 22, 17).
Si tratta cioè di una corporeità attraente, anzi fisicamente affascinante, e pure questa dimensione umana coesiste con la dignità divina.
Un ultimo particolare qualifica questa icona di divinità umanata: la ferita al centro della mano destra, segno che il Verbo fattosi carne non fu riconosciuto dal mondo e che quando “venne fra la sua gente…
i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni, 1, 10-11).
Il sangue nel palmo aperto ci rammenta che il Credo cristiano, subito dopo l’asserto et incarnatus est de Virgine Maria et homo factus est, aggiunge: crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; ricorda soprattutto che le parole di Gesù sul pane e vino, “questo è il mio corpo, questo è il calice del mio sangue”, furono pronunciate in vista dell’offerta sacrificale del suo corpo e sangue sulla croce.
La tavola di Giotto infatti è parte di una pala d’altare, e il Cristo benedicente era originalmente collocato sulla mensa eucaristica al punto dove il sacerdote consacrava il pane e vino che, transustanziati, diventavano corpo e sangue di Cristo, sebbene inalterati nell’aspetto visivo.
La plasticità del Cristo dipinto da Giotto coincideva cioè con la sua “reale presenza” sacramentale, in uno scambio di visio e fides simile a quello enunciato dal Salvatore quando l’apostolo Tommaso verificò la realtà corporea della sua risurrezione toccando con mano le piaghe.
(©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009  Con una frase tratta dall’Antico Testamento, la liturgia della Chiesa caratterizza il Figlio di Dio come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3) mentre un testo paolino invita a riconoscere in lui addirittura “l’immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1, 15); all’apostolo che gli chiede di vedere l’Altissimo Cristo stesso risponderà: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni, 14, 9).
Ma del concreto aspetto fisico del Salvatore il nuovo Testamento non dice una parola, né esistono coevi ritratti, così che ogni riflessione sul suo “volto” prende le mosse da basi testuali non specifiche: dai Vangeli che lo rivelano come persona interiore ma che non lo descrivono esteriormente.
)

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