V Domenica del tempo ordinario anno A

Prima lettura: Giobbe 7,1-4.6-7 Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene».
Il capitolo settimo del libro di Giobbe inizia con una plastica descrizione di chi è desti-nato a morte precoce in preda a malattie dolorose (Gb 7,1-10).
Se leggiamo oltre ai pochi versetti riportati dalla liturgia anche il versetto 5 e fino al ver-setto 10, riusciamo a capire meglio il messaggio di questa pericope.
Il libro di Giobbe non è di facile lettura e i pochi versetti ritagliati dal contesto rischiano di essere completamente incomprensibili.
Con l’aggiunta degli altri versetti possiamo ritrovare alcuni temi fonda-mentali a tutto il libro: la caducità della vita umana, il non senso di una vita provata dal-l’angoscia e dal dolore; Dio l’unico vero interlocutore e responsabile della vita, per cui la domanda che nasce dal dolore non può che essere rivolta a Lui.
Il «vedere» di Giobbe e di Dio.
Le osservazioni di Giobbe ondeggiano fra l’universale e il personale in un sapiente al-ternarsi, che esprime il dramma interiore del personaggio.
«L’uomo non compie forse un duro servizio» (Gb 7,1).
Il paragone della vita è il servizio militare (cf.
Gb 14,14) duro, sen-za possibilità di respiro, di momenti di serenità, perché la fatica strema e di conseguenza il momento di riposo è agitato.
A rafforzare tale immagine l’autore prende a paragone il mercenario (cf.
Gb 14,6) e lo schiavo.
La felicità è un’illusione, mentre la realtà della vita è come l’attesa della mercede per il mercenario (cf.
Dt 14,15) e un poco d’ombra sognata dal-lo schiavo (Gb 7,2).
Dice il Siracide: «Una sorte penosa è disposta per ogni uomo, un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita dal grembo materno al giorno del loro ritorno alla madre comune» (Sir 40,l-2).
Dalle considerazioni generali Giobbe passa a parlare in prima persona applicando a sé i paragoni precedenti.
Egli insiste sull’insonnia.
La notte lacerata dal dolore della malattia è ancora più penosa della giornata spesa nella fatica.
Le ore della notte sembrano intermina-bili, non c’è nemmeno la speranza, l’illusione; «La notte si fa lunga» (Gb 7,49): la sentinella attende il mattino, ma per chi è malato e l’attesa è la morte non c’è nemmeno questo con-forto.
La notte, quando le ansie sono irrefrenabili, si prolunga, i giorni, invece, «scorrono più veloci d’una spola», ma non conducono che a una morte prematura, senza speranza (Gb 7,6; cf.
3,6, 9,25).
Giobbe descrive la sua malattia con immagini che fanno pensare alla tomba: «La mia carne si è rivestita di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinza e si squama» (Gb 7,5; cf.
19,20; Ab 3,16).
La malattia di Giobbe, oltre ad essere dolorosa, è ripugnante, così che Giobbe si ritrova abbandonato da tutti e incompreso anche dagli amici, che vorrebbero consolarlo.
Giobbe è consapevole di questo e si rivolge sempre e soltanto a Dio, come il responsabile ultimo della vita.
A lui alza il grido: «Ricordati» della caducità della vita u-mana.
Se i pochi giorni di vita devono essere tanto turbati dal dolore e dall’angoscia, per-ché vivere? La vita, l’unica vita conosciuta per esperienza, cioè quella terrena, ha termine completo con la morte: «Chi discende nello sheol non ne risale.
Non tornerà più nella sua casa e non lo rivedrà più la sua dimora» (Gb 7, 9b-10).
L’immagine del vedere è molto insi-stente sia riferita a Giobbe che a Dio; sarà proprio il «vedere» Dio, in un’esperienza di fede singolare nella Bibbia, che insiste sull’ascolto, che farà ammutolire Giobbe (Gb 42,5).
Il Salmo 146 (147), di cui è riportata la prima parte, ci presenta Dio Signore della storia e del cosmo; è un inno di lode e di ringraziamento.
È interessante l’accostamento del grido di Giobbe che si chiede che valore abbia la vita provata dal dolore e un inno che esalta la potenza, la fedeltà, la giustizia e la misericordia di Dio.
Secondo la dinamica biblica dob-biamo tenere insieme dialetticamente questi elementi apparentemente inconciliabili.
Dio è padrone del cosmo tanto che chiama le stelle per nome (Sal 147, 4); è fedele alle sue pro-messe e «ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi di Israele» (Sal 147, 2); è giusto, ma al tempo stesso è misericordioso e pieno di tenerezza verso le creature tanto che «sostiene gli umili, ma abbassa fino a terra gli empi» (Sal 147, 6).
Spesso, però, l’esperienza sembra contraddire in pieno questa presentazione dell’opera divina, i conti non tornano: gli empi prosperano e i giusti sono pieni di guai.
Allora ai momenti di lode si alternano quelli della domanda insistente a Dio, perché non taccia, ma risponda ai nostri angosciati interrogati-vi, come fa Giobbe e lo stesso Gesù che rivolge a Dio sulla croce la domanda del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34), Seconda lettura: 1 Corinzi 9,16-19.22-23 Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato.
Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero.
Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
Paolo, dopo aver apertamente rivendicato il suo assoluto distacco dalle ricompense ma-teriali, che per altro dovrebbero essergli dovute come predicatore, ribadisce che il compito di evangelizzare corrisponde a un mandato divino e non a una sua iniziativa.
Egli è spinto a predicare come risposta a un comando divino, che urge e al quale non si può sfuggire.
Vengono in mente le parole del profeta Geremia (20,9): «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo».
Paolo si domanda quale sarà il suo merito, se il predicare non dipende da lui, ma dalla necessità di rispondere alla chiamata divina, alla quale è impossibile sottrarsi.
E risponde che il merito sarà per lui la rinuncia ai diritti che il Vangelo gli conferisce.
Egli ha scelto di predicare gratuitamente e di mantenersi con i frutti del suo lavoro per non essere di peso ad alcuno e per non portare alcun detrimento alla predicazione del Vangelo (cf.
1Ts 2.9).
Paolo per predicare vuole essere completamente libero, ma per farsi volontariamente schiavo del Signore che gli ha dato il mandato e per servire coloro ai quali egli deve predi-care.
Il Vangelo, infatti, si deve predicare rispettando l’assoluta libertà dei destinatari, sen-za nessuna imposizione.
Per farsi capire è però necessario trovare un linguaggio adatto e soprattutto fare breccia nell’esperienza di ciascuno.
Paolo dunque proclama di essersi mes-so in sintonia con tutti quelli che deve raggiungere con la predicazione, tenendo conto del-le loro concezioni culturali e religiose e della loro condizione sociale (1Cor 9.19-22).
Il Van-gelo non va predicato e basta.
Esso va vissuto e partecipato insieme con coloro che lo ac-cettano liberamente quando viene loro annunciato (1Cor 9,23).
Vangelo: Marco 1,29-39 In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.
Egli si avvicinò e la fece al-zare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.
Tutta la città era riunita davanti alla porta.
Guarì molti che erano af-fetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non per-metteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, usci-to, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.
Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce.
Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E an-dò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Esegesi La pericope del Vangelo di Marco che leggiamo oggi è formata da tre episodi: la guari-gione della suocera di Simone (Mc 1,29,32; cf.
Mt 8,14s; Lc 4,38s); guarigioni compiute da Gesù di sera (Mc 1.32-34; Mt 8.16s; Lc 4.40s); partenza per un luogo solitario per pregare e nuova partenza da lì per tornare a predicare in altri villaggi (Mc 1,35-39; cf.
Lc 4,42-44; Mc 1,39 cf.
Mt 4,23).
Gesù, uscito dalla sinagoga, subito (euthùs) dice il testo greco, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni.
La casa di Simone si può interpretare come il punto di riferimento dei discepoli in quel periodo: Gesù si comporta in modo fami-liare con la suocera di Simone, entra da lei, la prende per mano ed ella, appena guarita, si mette a servirli.
Pietro ha una suocera (penthera), ne deduciamo che era sposato al tempo della sua chiamata (cf.
1Cor 9,5) dove si accenna che la moglie lo seguiva nei suoi viaggi missionari.
Gerolamo deduce dal fatto che la moglie non è nominata che essa era morta (Adversus lovinianum 1.26 (Pl 23,257), ma nulla nel testo avalla tale deduzione.
I testi antichi, infatti, non nominavano mai le donne, a meno che fosse strettamente necessario, come per la suo-cera, che del resto rimane nell’anonimato.
Il verbo puresso avere la febbre (Mc 1,30) si trova solo qui e in Mt 8,14 in tutto il Nuovo Testamento ed è un verbo poco usato anche nel greco classico.
Molto sobria la presentazione del miracolo, raccontato senza riportare nessuna parola di Gesù; è sottolineato solo il suo gesto di gentilezza e di aiuto: «la fece alzare prendendola per mano».
In Matteo Gesù tocca la mano della donna che si alza da sola e in Luca comanda al-la febbre di lasciarla.
La donna «li serviva» (Mc 1,31): la guarigione è stata subitanea e completa tanto che ella può tornare immediatamente ai suoi compiti di sempre.
Il mettersi a servirli, (Matteo usa il singolare «servirlo» autoi, invece di autols) è un gesto di gratitudine verso Gesù e, come già accennato, un segno della familiarità goduta da Gesù e dai discepoli in quella casa.
Il secondo episodio è collegato al precedente da una annotazione temporale: venuta la sera (opsias de genomenes), quando il sole era tramontato (ote edu o ellos [Mc 1,32]), precisa Marco, vale a dire a sabato terminato, vengono portati davanti alla porta della casa dove stava Gesù «tutti i malati e gli indemoniati».
Dalmonion (Mc 1,34.39; 3,15,22; 6.13; 7,26.29s; 9,38; 16,9) è un sostantivo formato dal neu-tro dell’aggettivo daimonios che nel greco classico significa «potere divino», mentre più tardi prende il significato, usato dal Nuovo Testamento, di «spirito cattivo».
«Tutta la città era riunita davanti alla porta» (Mc 1,33), si tratta di un’iperbole, ma che fa pensare a una folla molto numerosa.
Marco dice che Gesù guarì molti e scacciò molti demoni, mentre al versetto 32 aveva detto che gli avevano portato «tutti» i malati: si tratta probabilmente di un semitismo e quindi l’evangelista non fa distinzione tra i due termini; Matteo (8,16) traspone i due ter-mini: portarono «molti malati» e guarì «tutti», mentre Luca (4,40b) dice: «Egli imponendo su ciascuno le mani, li guariva».
Gesù non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano (Mc 1,34).
È ricorren-te in Marco l’ingiunzione di Gesù di non parlare della sua identità.
Vengono tacitati i de-moni (1, 25.34; 3,1 Is): viene imposto il silenzio dopo miracoli strepitosi (1, 44; 5.43; 7.36; 8.26), dopo la confessione di Pietro (8,30), dopo la trasfigurazione (9,9); Gesù da istruzioni segrete ai discepoli sul «mistero del Regno di Dio» (4,10-12), su ciò che contamina l’uomo (7,17-23); sulla preghiera (9.28s), sulle sofferenze messianiche (8,31, 9, 31; 10, 33s) e sulla parusia (13, 3-37).
Su questi dati è stata elaborata la teoria del «segreto messianico», vale a dire che Gesù ha tenuto segreta la sua messianità durante il periodo della vita terrena e non è stato capito dai discepoli anche quando l’ha a loro rivelata (9,9).
Soltanto con la ri-surrezione ha inizio la percezione di ciò che egli è veramente.
Tale teoria risale a W.
Wrede (Das Messiosgeheimnis in den Evangelien, 1901) ed ha segnato la successiva discussione sulla cristologia di Marco, anche dopo l’ampia continuazione della forma in cui era stata formu-lata da questo autore.
Il terzo episodio inizia anch’esso, come il precedente, con una annotazione di tempo.
Là si trattava della sera, subito dopo il tramonto, qui è l’inizio del giorno, al primo albeggiare.
Gesù si reca in un luogo solitario (apelthen eis eremon topon) per pregare (proseucheto) (Mc 1,35).
Questo episodio è narrato solo da Marco, mentre è Luca che sottolinea di più la pre-ghiera di Gesù.
Egli ci presenta come abituale il ritirarsi di Gesù dalla folla per pregare: «Egli si ritirava in luoghi solitari e pregava» (Lc 5,21).
Prima di scegliere i dodici: «egli se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte a pregare Dio» (Lc 6,12).
Mentre è un’al-tra volta sulla montagna a pregare avviene la trasfigurazione (cf.
Lc 9, 28-29).
A volte Gesù se ne sta in disparte a pregare anche quando è solo con i discepoli (Lc 9.18; 11,1; 22.41s).
Nulla ci è detto della preghiera uscita dalla bocca di Gesù all’alba di un giorno che se-guiva una sera passata a guarire malati e liberare posseduti dal demonio.
Possiamo pensa-re, sulla scia della tradizione biblica, che Gesù abbia fatto propri il grido, l’invocazione, il lamento degli afflitti che non aveva potuto raggiungere, insieme al ringraziamento per l’o-pera finora compiuta secondo il volere del Padre.
Tale opera è predicare.
I miracoli sono un segno che accompagna la predicazione che il Regno di Dio è vicino (cf.
Mc 1,15).
Gesù, infatti, ai discepoli che lo cercano in nome della folla, che probabilmente sperava in altre guarigioni, risponde: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38).
«E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1,39; cf.
1,34; 7,29; 16,9).
È degno di nota che Marco non dica nulla del contenuto della predica-zione, ma sottolinei le opere di Gesù, in particolare la cacciata dei demoni, che è segno del-la vicinanza del regno di Dio (cf.
Mt 12,28).
Meditazione Di fronte a ogni sofferenza che sfigura il volto dell’uomo, di fronte alla solitudine e alla impotenza generate dal dolore, non sappiamo cosa pensare.
Rifiutiamo ogni sorta di giu-stificazione e finiamo per dibatterci in un groviglio di interrogativi che, alla fine, giungono a chiamare in questione Dio stesso e a domandargli ragione del dolore, dell’ingiustizia, della assurdità del male che viviamo o vediamo attorno a noi.
Rimbalziamo così a Dio quella domanda che Lui stesso aveva fatto all’uomo, quando si era nascosto al suo sguar-do, dopo il peccato: Adamo, dove sei?…
Dio dove sei?.
È questo in fondo il dramma di Giobbe, di cui la liturgia della Parola di questa domenica ci offre un piccolo squarcio.
«Notti di af-fanno mi sono state assegnate…
i miei giorni svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,3.6): così Giobbe percepisce l’inutilità della sua vita.
Ma ha il coraggio di rivolgersi a Dio facendogli memoria della sua responsabilità di fronte all’uomo e alla sua sofferenza.
Dio stesso ha creato l’uomo così debole e allora? «Ricordati che un soffio è la mia vita…» (Gb 7,7).
Sulle labbra di Giobbe la preghiera si trasforma spesso in grido di ribellione, in accusa nei riguardi di un Dio che sembra contraddire il suo progetto, sembra disinteressarsi del-l’uomo.
Giobbe è l’uomo credente che ha il coraggio di porre a Dio le domande più bru-cianti e, in certo qual modo, scandalose; che ha il coraggio di chiedere conto a Dio della re-altà dell’uomo.
La via che Giobbe percorre è una via non solo difficile, ma pericolosa; può aprirsi alla speranza, ma può precipitare nella disperazione.
Infatti non è un cammino che matura attraverso risposte, ma una via che, da interrogativo a interrogativo, ha la possibi-lità di giungere, per pura grazia, a una luce: è cioè la scoperta che proprio una situazione di dolore, di debolezza, di male può essere occasione suprema, evento unico dell’incontro della libertà di Dio con la libertà dell’uomo.
Quel ricordati che Giobbe rivolge a Dio, lascia proprio intravedere questa possibilità di incontro: è la nostalgia di un volto che si desidera contemplare, un volto che guardi le sofferenze dell’uomo e se ne prenda cura.
Attraverso il testo del vangelo, un momento della lunga giornata di Gesù a Cafarnao, è come se Dio venisse incontro al desiderio di Giobbe.
Quel volto di Dio che l’uomo desidera incontrare nel suo dolore, è vicino nel volto umano di Gesù.
E proprio all’inizio del suo racconto Marco insiste su questo volto di Gesù: attraverso la sua potente parola, che è con-solazione e salvezza, Gesù sfida il male e la sofferenza in tutte le sue forme, fino a rag-giungere quel male che tiene schiavo l’uomo distruggendone la relazione con Dio, il pecca-to.
E l’uomo desidera e cerca questo volto e questa parola di salvezza.
Infatti Marco ci pre-senta tutta una folla di uomini e donne che si accalcano alla porta della casa di Simone, in cui Gesù si trova con i suoi discepoli.
E Gesù «guarì molti che erano affetti da varie malat-tie e scaccio molti demoni» (Mc 1,34).
Nell’accalcarsi della folla, nel premere di questa u-manità sofferente attorno a Gesù, davanti alla porta della casa di Simone, Marco ci offre così una immagine viva di questo incontro tra il volto di Dio e l’uomo che soffre.
Tutti i malati, tutta la città, tutti vogliono incontrare Gesù.
Cosi l’evangelista esprime l’entusia-smo, ma anche il bisogno universale di salvezza: tutti in qualche modo si trovano in una situazione di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza.
Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro.
Notiamo infine, che tutta questa folla di sofferenti si trova di fronte a quella ‘porta’ che immette nel luogo dove Gesù si trova as-sieme ai suoi discepoli.
L’immagine della casa di Simone può essere colta come simbolo della Chiesa: essa diventa il luogo della accoglienza, la mediazione dell’incontro con Gesù di ogni uomo che ha bisogno di essere guarito e liberato.
Ma l’immagine della porta, come spazio di passaggio e di comunicazione, richiama sempre la possibilità di una chiusura: essa può diventare un ostacolo a questa incontro con il volto di Cristo.
Marco, nei versetti 30-31, riporta anche un particolare intervento di Gesù in favore del-l’uomo sofferente: la guarigione della suocera di Simone.
Due versetti soltanto, ma capaci di comunicare la dinamica dell’incontro dell’uomo schiavo del male con il volto di Dio.
Il ge-sto che Gesù compie, scandito in tre verbi, è rivelativo di ciò che realmente si opera in una guarigione.
Gesù si avvicina a quella donna sofferente, la accoglie nella sua povertà e debolezza.
E il chinarsi stesso di Dio su tutte le miserie dell’umanità, è l’espressione plastica di quelle vi-scere di misericordia che con forza esprimono la reazione di Gesù di fronte all’umanità sofferente e sfinita.
Là dove spesso l’uomo si allontana dal fratello, Dio invece si avvicina e si china su di esso (cfr.
Lc 10,34: «gli si fece vicino»).
Gesù prende per mano quella donna.
Il toccare di Gesù esprime certamente un contatto liberatorio.
Ma sottolinea anche la necessità di un incontro personale, quasi fisico, tra l’uomo schiavo del male e la persona di Gesù.
È dunque un incontro personale, irrepetibi-le, una comunione che apre a nuova vita.
Gesù fa alzare quella donna.
È il movimento che sottolinea il passaggio da una situazio-ne di impotenza e di immobilità, di morte, alla ripresa di una nuova vita, alla possibilità di riprendere un cammino.
E Marco descrive questo gesto con un termine che evoca la resur-rezione.
Ciò che Gesù ha fatto è un segno: è anticipazione della vittoria sulla morte.
Il mi-racolo non è spettacolo, ma è rivelazione: provoca l’uomo a uscire da una lettura troppo materiale della propria vita, da una superficialità, e lo apre a una visione più profonda, a un orizzonte vasto rivelandogli il volto di Gesù.
Ciò che compie la donna guarita è profondamente significativo in quanto fa emergere l’autentico modo con cui una persona può rispondere a una liberazione donata: si mise a servirli.
Essere liberati per servire: in questo si rivela la forma concreta della sequela di Cri-sto.
Questa donna, come i discepoli, come il cieco di Gerico, è stata liberata e questa libera-zione è una chiamata a seguire Gesù.
Li serviva: è dunque uno stile che si acquista, una si-tuazione di vita che ha inizio: Gesù ci fa risorgere per incamminarci sulla strada del servi-zio.
Quando, nel dolore, abbiamo la grazia di incontrare il volto di compassione di Cristo (ed è questa la vera liberazione), allora non rimaniamo più ripiegati su noi stessi, immobi-lizzati nella nostra sofferenza.
Ci alziamo e ci mettiamo a servire l’uomo sofferente, diven-tando noi stessi icona del volto misericordioso di Dio.
Amare le domande, vivere le risposte Dio non ci chiede di soffocare la nostra curiosità o di smettere di indagare la questione della sofferenza; credo che si debba riflettere continuamente su questa domanda per avere nuove intuizioni e trovare un nuovo significato.
A questo proposito, rileggo spesso il con-siglio del poeta Rainer Maria Rilke: “..sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e …cerca di amare le domande per quelle che sono… Non cercare le risposte, che non ti possono essere date perché non saresti capace di viverle.
Il punto è vivere ogni cosa.
Vivere le domande ora.
Forse gradualmente, senza accorgertene, un lontano giorno la vita stessa ti condurrà alla risposta”.
(Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1999; cit.: J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 139).
Diventare l’amato – Spezzato La nostra prima, più spontanea risposta alla sofferenza è quella di evitarla, tenerla a di-stanza, ignorarla, aggirarla o negarla.
La sofferenza, sia fisica, mentale o emotiva è quasi sempre sperimentata come una sgradita intrusione delle nostre vite, qualcosa che non do-vrebbe esserci.
È difficile, se non impossibile, vedere qualcosa di positivo nella sofferenza; deve essere allontanata a tutti i costi.
Se questo è l’istintivo atteggiamento verso la nostra fragilità, non c’è da stupirsi se fa-vorirla può sembrare a prima vista masochismo.
Tuttavia, la mia personale esperienza di sofferenza mi ha insegnato che il primo passo verso la salute non è un passo lontano dal dolore, ma un passo verso il dolore.
Quando infatti il nostro “essere spezzati” è proprio come una intima parte del nostro essere, così come il nostro “essere scelti”, e il nostro “es-sere benedetti”, dobbiamo aver l’ardire di domare la nostra paura e di familiarizzare con essa.
Sì, dobbiamo trovare il coraggio di abbracciare il nostro “essere spezzati”, fare del nostro più temuto nemico un amico e rivendicarlo come un compagno intimo.
(Henri J.M.
NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 75-76).
Il cancro è il mio “angelo”, afferma un Cardinale cinese Dopo che gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni lo scorso anno, il Cardinale Paul Shan Kuo-hsi non si è scoraggiato, e anzi ha voluto ispirare altri ad affrontare la vita con coraggio.
Il Cardinale gesuita, Vescovo emerito di Kaohsiung ed ex presidente della Conferenza Episcopale Regionale Cinese a Taiwan, ha iniziato il suo viaggio “Addio alla mia vita” a ottobre.
La sua prima meta è stata Hsinchu, sulla costa nord-occidentale di Taiwan, e da allora ha visitato le altre sei diocesi dell’isola.
“Ho trattato il cancro come il mio ‘piccolo angelo'”, ha detto il Cardinale a ZENIT in u-n’intervista telefonica.
“Mi guida a dire alle persone che dovremmo avere il coraggio di affrontare le sfide della nostra vita”.
Il viaggio è terminato mercoledì, quando il porporato ha visitato la Fu Jen Catholic University di Taipei, che gli ha offerto un riconoscimento per il suo amore per la vita.
Il Cardinale Shan Kuo-hsi, che ha compiuto 84 anni domenica, ha affermato di essere “molto felice di essere un testimone del Vangelo” all’ultimo stadio della sua vita.
Il Cardinale ha detto di aver visitato il 22 novembre un centro per tossicodipendenti a Taitung e di aver incontrato 300 ospiti della struttura.
“Il cancro – ha detto loro – mi ha fatto capire che trovandomi nell’ultimo stadio della mia vita dovrei fare del mio meglio per con-tribuire alla società”.
Il porporato ha pregato per gli ospiti del centro e ha auspicato che la gente dimostri “amore” per risolvere i problemi della propria vita quotidiana.
La diagnosi del cancro del Cardinale Shan Kuo-hsi è arrivata nel luglio 2006.
Il porpo-rato ha detto a quanti ha incontrato di essere rimasto scioccato e che gli era stato detto che aveva ancora 4 o 5 mesi di vita.
“All’inizio ho chiesto al Signore ‘Perché io?’.
Quando mi sono calmato, ho riconosciuto che è la volontà di Dio”, ha osservato.
“Voleva che io aiutassi gli altri condividendo la mia esperienza personale con loro”.
“Ora penso ‘Perché non io?’.
Un Cardinale non ha il privilegio di essere in salute per sempre!”, ha aggiunto.
Dopo la sua morte, ha spiegato, il suo corpo fertilizzerà la terra di Taiwan, ma la sua anima tornerà a Dio.
Il Cardinale cinese ha lodato l’eroico esempio di Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto del suo meglio per vivere anche gli ultimi minuti della sua vita con dignità.
Paul Shan Kuo-hsi è nato nella provincia di Hebei, nel nord della Cina.
Ha lasciato la Cina continentale dopo essersi unito ai Gesuiti nel 1946.
E’ stato ordinato sacerdote nelle Filippine nel 1955.
E’ stato nominato Vescovo di Hualien, Taiwan, nel 1979 e Vescovo di Kaohsiung nel 1991.
Creato Cardinale nel 1998, si è ritirato nel gennaio 2006.
La prospettiva della sofferenza e della morte Guardare in faccia la sofferenza e la morte e farne l’esperienza personale, nella speran-za di una nuova vita nata da Dio: ecco il segno di Gesù e di ogni essere umano che voglia condurre una vita spirituale a sua imitazione.
È il segno della croce: segno di sofferenza e di morte, ma anche di speranza in un rinnovamento totale.
Dio ha mandato Gesù in terra per fare di noi persone libere e ha scelto la compassione come via per giungere alla libertà.
È una scelta molto più radicale di quanto tu possa a prima vista immaginare.
Significa infatti che Dio ha voluto liberarci non già sottraendoci alla sofferenza, ma condividendola con noi.
Gesù è il «Dio che soffre con noi».
Potremmo quasi dire che è il «Dio che ha simpatia per noi», se il termine ‘simpatia’, che etimologica-mente significa appunto ‘sofferenza condivisa’, non avesse ormai perduto molto del suo significato originario.
Così, quando diciamo: «Hai la mia simpatia», intendiamo non e-sporci troppo ed esprimiamo anzi una specie di condiscendenza verso gli altri.
È per que-sto che preferisco usare la parola ‘compassione’, che è più calda e più intima e indica me-glio il partecipare alle sofferenze del prossimo, il sentirsi davvero un essere umano che soffre con i fratelli.
L’amore di Dio che Gesù vuole mostrarci lo vediamo chiaramente nella sua scelta di farsi compagno e partecipe delle nostre sofferenze, permettendoci così di trasformare que-ste sofferenze in un mezzo di liberazione.
Probabilmente conosci bene le obiezioni solleva-te da quelli che trovano difficile o impossibile credere in Dio.
Come può Dio amare davve-ro il mondo, se poi permette tante spaventose sofferenze? Se Dio ci ama veramente, perché non elimina dal mondo guerre, povertà, fame, malattie, persecuzioni, torture e tutti i mali che ci affliggono? Se Dio s’interessa personalmente di me, perché sto così male? Perché mi sento sempre così solo? Perché non riesco a trovare lavoro? Perché la mia vita è così inuti-le? I poveri hanno imparato davvero a conoscere Gesù e a vedere in lui il Dio che condivi-de le loro sofferenze.
In Gesù che soffre e che muore essi trovano il segno più evidente che Dio li ama di un grande amore e che mai li abbandonerà.
E loro compagno nella sofferen-za.
Se sono poveri, sanno che era povero anche Gesù; se hanno paura, sanno che aveva paura anche Gesù; se sono percossi, sanno che fu percosso anche Gesù; se sono torturati a morte, sanno che anche Gesù soffrì il loro crudele destino.
Per essi, Gesù è l’amico fedele che percorre insieme a loro la via dolorosa della sofferenza e li conforta.
È solidale con lo-ro.
Li conosce, li comprende e, quando più acuto è il loro dolore, li stringe a sé.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 32-33).
«Subito gli parlano di lei, ed egli, avvicinatesi, la fece alzare prendendola per mano» Luca scrive nel suo Vangelo che essi «lo pregarono in favore di lei, ed egli, chinatesi sopra di lei, comandò alla febbre» (Lc 4, 38-39).
Il Salvatore alle volte cura gli ammalati quando è pregato, alle volte cura di propria iniziativa, mostrando di accogliere sempre le invocazioni dei fedeli contro l’oppressione dei vizi e anche contro quelle colpe di cui essi non si rendono conto affatto.
E lo fa dando loro modo di accorgersene, o liberando amore-volmente i richiedenti anche dalle colpe che non sanno di aver commesso, come appunto supplica il salmista: «chi conosce i delitti? Signore, liberami dalle colpe occulte» (Sal 18,13).
Immediatamente la febbre la lasciò, ed ella li serviva (Mc 1,31).
È naturale che, quando torna la salute, coloro che prima erano febbricitanti denuncino uno stato di debolezza e sentano le conseguenze della malattia; quando è il Signore col suo comando che ridona la salute, questa ritorna in un momento.
Anzi, non solo torna la salu-te, ma essa è accompagnata da tanto vigore che la donna è subito in grado di mettersi a servire coloro che l’avevano aiutata.
Per dirla con linguaggio figurato, le membra che ave-vano servito all’impurità e all’ingiustizia per dar frutti di morte, servono ora alla giustizia in vista della vita eterna (cf.
Rm 6,19).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 1,29-31, in BEDA, Commen-to al Vangelo di Marco.
Traduzione, introduzione e note di Salvatore Aliquò, Vol.
1, Città Nuova Editrice, Roma 1970, p.
61-63).
Dammi coraggio Ti prego: non togliermi i pericoli, ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene, ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita…
eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura, ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco usurpando la tua grazia nel successo; ma non mi manchi la stretta della tua mano nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada e la sete mi opprime sotto il solleone; quando mi punge la nostalgia di sera e lo spettro della notte copre la mia vita, bramo la tua voce, o Dio, sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore carico dei doni che non ti ho donati.
Mi rassicuri la tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta: i palpiti del tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.
(Rabindranath Tagore) Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’in-giustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dub-bio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritro-va, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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