In Italia lo si riassume col “vaffa”.
In Gran Bretagna lo sintetizzano con “F word” (la parola che comincia per F).
In ogni paese ha un suo slang e diverse caratteristiche.
Ma il fenomeno è universale: la nostra era ha sdoganato le parolacce, le volgarità, gli insulti.
Basta sintonizzarsi su una stazione radio, su un canale televisivo o navigare su internet, dove blog, commenti ai blog e chat-line ne sono infarciti, per rendersi conto delle dimensioni del problema.
Al punto che ormai, per la stragrande maggioranza, non è più un problema.
Un sondaggio condotto nel Regno Unito, probabilmente sintomatico di una situazione generalizzata anche altrove, rivela che nove adulti su dieci dicono parolacce tutti i giorni, che il britannico medio ne fa uso mediamente 14 volte al giorno e che il 90 per cento della popolazione non ci trova niente di male, di strano o di offensivo, insomma ci ha fatto l’abitudine: la “F word” (in questo caso non specifichiamo quale sia, tanto non è difficile arrivarci) è ormai considerata una parola come le altre, non una parolaccia.
Adesso qualcuno prova a dire, educatamente, basta e pensa di avere individuato il principale colpevole.
I promotori di una Campaign for Courtesy (Campagna per la Cortesia), qui in Gran Bretagna, chiedono ai media cartacei e digitali, all’industria cinematografica, ma soprattutto alla radio e alla televisione di moderare il proprio linguaggio.
“In tivù si sentono parolacce in continuazione e questo deve cambiare”, dice Edsther Rantzen, personalità televisiva e uno degli ideatori della protesta, al quotidiano Daily Express, che dedica oggi la prima pagina al tema.
“Sarà vero che la maggioranza della gente le dice, ma in questo paese esiste ancora un appetito per le buone maniere”, gli fa eco Peter Foot, che dirige la campagna di pressione.
Quando il linguaggio volgare e sboccato risuona dal video con particolare virulenza, in effetti, una parte dell’opinione pubblica protesta.
Succede talvolta in Italia, dove le risse verbali a base di insulti e contumelie sono la regola in tivù: non solo c’è da noi l’abitudine a dire parolacce, ma perdono le staffe e sembrano pronti a venire alle mani anche i conduttori televisivi e perfino i ministri, come accaduto di recente con quello della Difesa, Ignazio La Russa, che sembrava sul punto di esplodere davanti alle pacate dichiarazioni del direttore dell’Unità Concita De Gregorio.
In Inghilterra, dove l’uso di scrivere lettere di protesta è più diffuso, forse perché ogni tanto se ne tiene conto, ne sono partite a migliaia quando la cantante Madonna ha usato espressioni sconce durante un’intervista radiofonica e ancora di più quando un presentatore, Jonathan Ross, e un comico, Russell Brand, hanno fatto pesanti allusioni sessuali alla radio su una giovane attrice.
Brand si è dimesso dallo show, Ross è stato sospeso per due mesi e la Bbc si è impegnata a non dire più parolacce, tanto più che è un network pubblico e che la gente, pagando il canone, si sente in diritto di esprimere il proprio parere.
Ma i canali privati non vanno tanto per il sottile.
Gordon Ramsey, cuoco-celebrità, fa degli insulti e delle “F word” il suo cavallo di battaglia, nel programma che tiene da anni in tivù.
Un altro celebrity-chef, Jamie Oliver, ha dovuto chiedere scusa dopo avere detto la stessa parolaccia non meno di 23 volte in un programma di 50 minuti.
Non è una questione di etichetta, sostiene John Beyer della società di consulenze MediaWatch: “Questo tipo di linguaggio danneggia la nostra cultura, a 5 anni i bambini ripetono quello che ascoltano in tivù e il modo di parlare di questo passo diventerà sempre più trito, volgare, banale”.
Anche dalle scuole, in questo paese come in Italia, giungono simili segnali d’allarme: influenzati da tivù e media, i giovani parlano sempre peggio, infarcendo sempre di più il discorso di brutte parole.
Siamo sicuri, domandano educatori e psicologi, che un linguaggio simile sia davvero liberatorio, moderno, accettabile? Il sondaggio pubblicato dal Daily Express, tuttavia, sembra indicare che è troppo tardi, almeno per gli inglesi.
Soltanto l’8 per cento degli interpellati si dice offeso dalle parolacce.
E il 78 per cento ammette di dirle non perché sia arrabbiato per qualche motivo, ma così, senza alcuna precisa ragione.
Repubblica 19 gennaio 2009
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