Nell’anno incerto dell’Orissa dopo l’anno della violenza, della caccia al cristiano, degli stupri e del fuoco, i profughi hanno una sola volontà: tornare.
E una sola sicurezza: la Chiesa.
«Una foresta prese fuoco e tutti gli esseri viventi di quella foresta iniziarono a fuggire per salvarsi, ma un uccellino invece di allontanarsi, si tuffò in un ruscello e volò indietro.
Scuotendo le ali gettò gocce d’acqua sul fuoco per spegnerlo.
’Sforzo inutile, di uno sciocco uccello’, lo schernì Indra, dio della pioggia.
“Oh Grande – rispose l’uccellino – se tu volessi potresti spegnere il fuoco in un momento, ma non lo fai.
Io faccio solo quello che posso”, e così dicendo volò ancora verso il ruscello».
Come suggerisce questo racconto molto popolare in Orissa, a volte grandi cose succedono per piccoli atti di gente umile.
Allo stesso modo l’azione della Chiesa nella società, in particolare verso i diseredati, assomiglia all’azione del modesto volatile, ma porta con sé un valore esemplare che è difficile disconoscere.
Anche nella tragedia del Kandhamal, tra i profughi, parte dei 50mila iniziali, ancora raccolti attorno crocifisso all’interno dei campi istituiti dalle diocesi, pochi disposti ad accogliere l’offerta irrisoria in denaro e riso affinché abbandonino i centri di raccolta governativi.
Quello di Janla è stato aperto di corsa, sotto la pressione di un flusso di disperati in fuga senza un rifugio certo, nei dintorni polverosi di Bhubaneshwar, capitale dell’Orissa.
Il terreno è quello di una vecchia fabbrica di laterizi, adiacente al lebbrosario gestito dalle Missionarie della Carità che da mesi dividono impegno e tempo tra chi è oggi, nell’India dei record e della democrazia sbandierata ma spesso elusa, pesantemente discriminato.
Dei 500 ospiti iniziali di Janla, ne restano circa 350: 40 famiglie riunite per quanto possibile, secondo un piano voluto dall’arcidiocesi, ma esteso come prassi all’intero Stato.
Gruppi familiari ritrovatisi anche dopo settimane di inenarrabili traversie nella fuga.
Oggi volti sereni, ma nel cuore una paura difficile da cancellare e negli occhi la domanda che non trova aperta espressione tra questa gente: perché? Padre Manoj Nayak è una specie particolare di profugo, ma di questa non facile condi-zione condivide estraneazione, sofferenza, volontà di capire e di ricominciare.
Lui è un tribale Kandh, gruppo etnico che dà il nome al’intero distretto di Kandhamal, sfuggito per un soffio alle violenze, ma da mesi impegnato per i confratelli di fede ed etnia nella diocesi nel tentativo di abbreviare i tempi di un rientro in condizioni di sicurezza.
Nel villaggio, da dove la famiglia è riuscita a scappare, il pastore Samuer Nayak è stato massacrato in casa , bruciato assieme alla madre per essersi rifiutato di interrompere la lettura della Bibbia davanti agli assalitori.
Un confratello verbita, studente al Teologato di Sambalpur, è ufficialmente disperso e come lui decine di persone.
Parikhit Nayak era un catechista, viveva una vita al servizio d’impegno e di non pochi timori tra a sua gente nel villaggio di Taengai, Kandhamal.
Negli oc¬hi ha le violenze ma an¬che la sofferenza dei com¬pagni nel campo.
Gli uo¬mini si impegnano nella fabbricazione di mattoni con metodi moderni e in quella di prodotti artigia¬nali, le donne cercano di migliorare le condizioni dei loro rifugi.
Nel cuore di tutti, il timore che la provvisorietà diventi de¬finitiva, che il futuro sia una casa lontano dal¬le terre tribali.
«Chi non rinuncia alla fede cristiana va in¬contro a morte certa in Kandhamal – racconta padre Nayak –.
Ma l’abiura significa ben al¬tro che la già dura negazione della propria fe¬de.
Non è sufficiente che chi dichiara la pro¬pria rinuncia si rada il capo, beva acqua me¬scolata a sterco bo¬vino e firmi docu¬menti che attestino l’avvenuta riconver¬sione.
Deve dimo¬strare la propria sin¬cerità bruciando al¬meno una casa di cristiani, possibil¬mente con qualcu¬no all’interno».
Questa è una tragedia dentro la tragedia.
Tut¬ta la gente che vive nei campi non coltiva che una prospettiva: il rientro nella propria terra.
Tuttavia la minaccia della riconversione e an¬che ora la sfiducia verso i vicini di fede in¬duista – che in molti casi hanno tradito i cristiani e in altri coraggiosamente si sono op¬posti agli assalitori – rende il rientro pratica¬mente impossibile.
La vedova di Iswar Digal del villaggio di Mal¬lipoda è inconsolabile.
Al marito catturato il 20 settembre era stata offerta la salvezza in cambio della conversione.
Digal ha rifiutato e di lui si sono perse le tracce.
Sul luogo del¬l’aggressione indicato dalla moglie, la polizia ha potuto trovare solo macchie di sangue ma non il corpo.
Una tattica anche questa, par¬te di un disegno più vasto, che porta la polizia ad allun¬gare l’elenco dei dispersi ma non a indagare per reati in mancanza di prove.
Probabilmente Digal è stato ucciso e il suo corpo bruciato e occultato.
«Come ci hanno detto alcuni che sono ancora rifugiati nelle foreste, ci sono zone dove si sente il fetore dei corpi in decomposizione », racconta un altro profugo.
C’è voglia di raccontare la propria esperienza per quanto dolorosa, tra i profughi di Janla.
C’è la coscienza che sollevare il velo sugli orrori del Kandhamal e delle altre aree colpite dall’odio religioso innescato da ragioni politiche e interessi economici sulle terre tribali può contribuire almeno a garantire lo status quo, a conservare la presenza militare sul territorio gestita prioritariamente per ordine della Corte Suprema dal gover¬no centrale indiano.
Lo Stato.
L’Orissa è uno Stato complessivamente povero e arretrato, ma all’ombra delle sue foreste lussureggianti, abitate in prevalenza da gruppi tribali e aborigeni, si trovano ricche riserve minerarie.
La regione fornisce il 70 per cento della bauxite estratta in India, il 90 per cento del cromo e il 24 per cento del carbone.
Le compagnie minerarie locali e straniere si contendono territori protetti ma soprattutto abitati da popolazioni ricche di tradizioni e fiere di un rapporto stretto con le loro terre, considerate dimora delle divinità locali della fede animista.
Nonostante povertà e relativa insicurezza, l’Orissa è tra i primi dieci stati dell’India quanto ad investimenti stranieri.
Ma il progresso ha finora illuso le antiche genti delle foreste, private in molti casi delle loro risorse abituali, costrette a vivere in cubicoli di cemento, fuori dal loro habitat naturale e sempre più impoverite.
Ai tentativi di educazione della Chiesa, si oppongono vasti interessi economici che mobilitano a loro sostegno forze politiche, radicalismo induista e violenza mercenaria.
La testimonianza.
Edward Sequeira era nel suo ufficio presso la Casa per i Figli della lebbra e gli orfani di Padampur, distretto di Bargarh, Orissa, quando il 25 agosto una cinquantina di indù armati di spranghe, bastoni e torce assalì il centro.
Lui fece resistenza barricandosi all’interno del centro per più di un’ora prima dell’arrivo della polizia che lo liberò, con gravi ustioni e numerose fratture, dall’edificio in cui era stato chiuso dagli assalitori prima di darlo alle fiamme.
Rajni Mahji, 20 anni, studentessa di fede indù che svolgeva un lavoro volontario di assistenza alla ventina di piccoli ospiti, venne invece stuprata e bruciata viva.
«Ho lavorato a Padampur per gli ultimi 11 anni, in particolare tra le comunità indù – racconta padre Sequeira –.
I piccoli da noi ospitati provengono dalle colonie di lebbrosi, mondi chiusi di dolore e vergogna, ai margini delle comunità.
Ce n’erano 22 in questa casa», dice indicando le rovine bruciate delle costruzioni che un tempo rappresentavano rifugio e speranza di piccoli diseredati e un supplemento di missione per il sacerdote verbita.
«Quel giorno sono stato picchiato per 45 minuti con sbarre, vanghe e mazze raccolte tra il materiale da costruzione che avevamo presso di noi prima che mi chiudessero nel mio ufficio.
In quei momenti disperati ho avuto una visione, qualcuno che tra il fumo e le fiamme mi rassicurava: ’Soffro con te, non sei solo’.
Solo a quel punto ho ritrovato l’energia che mi ha spinto a chiudere porte e finestre dall’interno e ad usare un secchio d’acqua riempito nel gabinetto per estinguere il fuoco che mi circondava.
Dopo di che ricordo solo il tempo interminabile passato a cercare di ostacolare quanti volevano entrare dalle finestre e dal tetto devastato per catturarmi e finirmi».
Solo dopo essere uscito si rese conto della tragedia che l’aveva colpito e che più ancora aveva colpito la sua collaboratrice Rajani, orfana, studente al secondo anno di informatica.
«Ricordo di essere svenuto sentendo che chiedeva il mio aiuto mentre cercavano di bruciarla viva».
di Stefano Vecchia Avvenire, 16 gennaio ’09
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