Olivier Clément si è spento la sera del 15 gennaio.
Erano anni che non usciva più dalla sua casa in un vivace quartiere popolare di Parigi.
La malattia l’aveva provato, ma aveva ancora un grande interesse per la vita, i fatti del mondo, le vicende della Chiesa.
Quando l’ho salutato, poco prima che si spegnesse, ho guardato la grande finestra della sua camera, da cui si vede la città fino alla Tour Eiffel, pensando ai suoi ultimi anni di ‘eremita’ alla finestra del mondo.
Il suo cenno di saluto esprimeva la simpatia e l’amicizia che hanno caratterizzato la sua vita.
Qualche anno fa aveva scritto: «La vecchiaia favorisce un’altra conoscenza, quella che l’Oriente considera come l’unione dell’intelligenza e del cuore».
Scompare con Clément (nato nel 1921) una figura europea di spicco, unica e originale.
Il suo pensiero è figlio di un innesto complesso e ben riuscito.
Le sue radici sono in ambiente laico e non credente.
Ha vissuto a Parigi, in una città al plurale, ricca ma con tanti aspetti di deserto umano.
Ha sentito l’angoscia degli orizzonti stretti dell’uomo contemporaneo; si è incamminato nei sentieri della ricerca spirituale.
Ha incontrato la fede cristiana nella Chiesa ortodossa.
La sua ricerca inquieta si è sviluppata nel clima della seconda guerra mondiale.
La guerra è, per tanti grandi spiriti, un tempo fecondo di intuizioni.
La generazione della guerra conta tanti ‘maestri spirituali’ che hanno detto molto all’Europa, tentata dal ripiegamento.
Clément é divenuto cristiano, accogliendo il Vangelo dall’Oriente.
Dopo la rivoluzione bolscevica, tanti russi si erano spostati in Francia.
La cultura russa, la fede della Santa Russia, si è innestata in Francia.
Si pensi a Mat’ Maria, monaca, amica dei poveri, morta nel lager nazista per aver aiutato gli ebrei.
Clément ha raccolto la testimonianza di grandi credenti, tra cui Lossky, Berdjaev, Evdokimov.
Il suo passaggio alla fede è stato accompagnato da padre Sofrony, monaco del Monte Athos, di cui Clément dice: «Mi ha fatto comprendere che il cristianesimo non è una ideologia, ma la resurrezione».
Clément si è abbeverato a una fonte cristiana lontana dal suo mondo, che lo ha condotto all’amore della Bibbia e dei Padri.
La sua storia è particolare, ma ogni conversione vera porta lontano.
Eppure Clément è un occidentale che non si traveste.
Non troviamo in lui niente di esotico.
La sua opera è vissuta respirando a due polmoni, con l’Oriente e con l’Occidente.
Ma, da questa sintesi straordinaria, scaturisce un umanesimo cristiano, la cui eredità resta preziosa.
Olivier Clèment ha speso una vita facendo sue le domande di tanti e cercando luce nella liturgia e nei Padri della Chiesa.
La sua libertà interiore lo porta a prendere sul serio tanti.
Le sue domande sono le nostre: quelle delle generazioni degli anni Sessanta, di chi si confronta con la modernità, di chi sente il peso del totalitarismo scientifico, di chi avverte il limite della psicologia e della psicanalisi, di chi percepisce la debolezza delle ideologie, ma anche di chi sente la vita infragilita… Significativa è la sua storia nella crisi del ’68, attento ai giovani chiassosi per le vie di Parigi, accanto al liceo dove insegnava.
Per lui il ’68 fu una grande messa in scena ‘liturgica’ della rivoluzione, con il rifiuto generalizzato del padre, cioè della tradizione.
Clément scarnifica l’utopia del ’68, ma non rinuncia a credere che si possa cambiare il mondo.
Anzi si convince che è la via del cuore a cambiare l’uomo.
Per questo bisogna accogliere la fede dei Padri.
Così, nel ’68, fece un’esperienza tanto diversa: a Istanbul, per un libro-intervista, interrogò il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras.
All’epoca della rivolta contro il padre, il teologo quarantacinquenne si mise in ascolto del patriarca più che ottantenne: ne scoprì l’indomita forza spirituale, non rassegnata alla disunione dei cristiani, all’odio tra le nazioni, al vuoto della vita di tanti.
Nella stagione della contestazione o dell’uccisione dei padri, durante il ’68, Clément dialogò con il vecchio padre.
Ne nacque un libro, che rappresenta un capolavoro di spiritualità e di storia.
Da un albero antico, egli traeva linfa per sperare.
Sono care a Clément le parole di Berdjaev, poste all’inizio del suo libro La Révolte de l’Esprit (un titolo che appare una sfida in un tempo in cui si dissolvono le ideologie e i giovani cercano ‘paradisi’ artificiali): «Non ci si può rivoltare che in nome della realtà ultima, dello Spirito, cioè in nome di Dio».
Clément non è uno spirituale fuori dalla storia e senza sogni sul mondo.
Ha il senso della storia e il gusto di indagarla: vuol dire provarne a coglierne anche le profondità.
Qui si scopre una forza di cambiamento, non percepibile alla superficie.
La resurrezione di Cristo fa che la storia non divenga un inferno: «Se la storia non è nutrita di eternità, diventa una zoologia», conclude.
Dio non ha abbandonato la povera e dolorosa storia degli uomini.
Così lo sguardo del cristiano non è cieco davanti al dolore né chiuso nella gabbia del pessimismo o illuso da utopici paradisi in terra.
Ne sono testimonianza i testi della Via Crucis al Colosseo che scrisse nel ’98 per Giovanni Paolo II.
Clément ha cantato in tutta la sua opera la bellezza e l’attualità del cristianesimo.
Ha sentito che è la speranza per il nostro tempo.
Ma soprattutto è stato un credente vero che, con sapienza, ha realizzato in sé un’umanità, amica di Dio e amica degli uomini.
Andrea Riccardi
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