Galantino: vincere l’analfabetismo religioso si può

Venerdì 2 maggio alle 17 presso la Sala Zuccari del Senato, a Roma (via della Dogana Vecchia, 29), sarà presentato il “Rapporto sull’analfabetismo religioso 2014” (Il Mulino). Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’intervento che terrà Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio e segretario generale della Cei; interverranno anche Giuliano Amato, Massimo Campanini, Mariella Enoc, Alberto Melloni, Marco Morselli e Paolo Naso. Il progetto, finanziato dal Miur e dalla Fondazione Cariplo e diretto dalla fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII”, ambisce a incidere sui decisori e ad alimentare il dibattito; il volume, curato da Melloni, è il primo frutto del cantiere di ricerca interdisciplinare sul tema.
 
Nel libro dell’Apocalisse è riportato lo strano e contraddittorio effetto provocato dalla lettura di un piccolo libro. «Mi avvicinai all’angelo – si legge in Ap 10,9 – e lo pregai di darmi il piccolo libro. Egli mi disse: “[…] Ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”». Come persona mediamente attenta a quello che avviene sul nostro territorio, la lettura delRapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, di primo acchito, ha provocato in me una sorta di benessere; in genere, infatti, sono sempre contento quando posso essere aiutato da studi seri e non faziosi a leggere quello che avviene dentro e fuori dalle realtà con le quali ho a che fare. Man mano però che, leggendo, dai numeri e dalle percentuali passavo alla interpretazione di quei dati, l’amarezza di cui parla l’Apocalisse ha preso anche me. Indipendentemente dal ruolo che una persona occupa, certe constatazioni non fanno piacere, o comunque non lasciano indifferenti.

L’amarezza però, lo sappiamo, può essere attutita o neutralizzata del tutto con qualche zolletta di zucchero o – se quell’amarezza sia accompagna ad attenta consapevolezza – può anche essere inizio fecondo di percorsi davvero virtuosi. I numeri che vengono fuori dal Rapporto sono, per certi versi, abbastanza spietati – o almeno così possono apparire a chi non ha un contatto serio e coinvolgente con la realtà – e le “letture” che di quei dati vengono offerte sono davvero illuminanti.

Lette con animo sereno indicano esse stesse possibili percorsi, utili per abitare consapevolmente quei numeri/percentuali, e aiutano a prendere le distanze da atteggiamenti in fine dei conti sterili. “Sterile” ritengo infatti l’atteggiamento di chi si ferma ai numeri e alle analisi – condotte semmai con grande rigore e capaci di ricondurre alle cause certe delle situazioni analizzate – incapaci però di andare un poco più in là; incapaci di affacciarsi sul piano degli impegni richiesti per avviare risposte credibili agli interrogativi legittimi provocati da quei numeri e da quelle percentuali. Ritengo però anche “sterile”, anzi oltremodo dannoso, l’atteggiamento di chi, di fronte a dati e percentuali che mostrano il limite di certe prassi di evangelizzazione e di testimonianza – visto che stiamo parlando di vita e di esperienza religiosa – si arroccano su posizioni tipiche di chi è sopraffatto dalla “sindrome da accerchiamento”; una sindrome che porta ad attivare soltanto difese ad oltranza e diversivi di ogni genere.

Di fronte alla fotografia statistica che ci viene consegnata dal Rapporto, ho cercato di evitare questi due atteggiamenti, che sono il contrario di quello che Papa Francesco chiede nellaEvangelii gaudium (n. 24). A una Chiesa consapevole del mandato affidatole da Gesù, ma consapevole anche dei propri limiti e delle difficoltà che accompagnano l’assolvimento di questo mandato, Papa Francesco – ricorrendo a un neologismo spagnolo – chiede di primerear; chiede cioè di “prendere l’iniziativa”. Primerear perché l’esperienza religiosa non si riduca a uno sfondo anonimo a cui si presta un’attenzione interessata o peggio sospetta, fatta di “narrazioni” su Gesù e accompagnate da buoni sentimenti; tutti comunque assolutamente irrilevanti per la vita che conta.

In quali direzioni va presa questa iniziativa? Il Rapporto ne individua tre: l’ambito scolastico, quello della produzione legislativa sulla libertà religiosa e l’ambito della ricerca universitaria che attiene alle “scienze religiose”. A proposito del primo elemento, quello che connette l’analfabetismo religioso in Italia ad alcuni caratteri specifici della storia post-unitaria – tra cui la particolare dinamica dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – credo che esso vada compreso come una componente di un processo più generale. Si può infatti convenire con quanto si afferma in uno dei contributi del Rapporto stesso, e cioè sul fatto che il contesto in cui la questione dell’analfabetismo religioso va inserita è «la dissociazione tra elementi culturali e [elementi] religiosi e la conseguente difficoltà ad apprendere e comprendere i secondi all’interno dell’orizzonte segnato dai primi» (p. 16). 

Una dinamica che, come altri contributi presenti nel Rapporto confermano, appartiene dunque ai processi secolarizzanti che hanno attraversato l’intero Occidente, e che, in una conferenza italiana di un paio di anni fa, Gilles Routhier definiva appunto come l’incapacità delle Chiese (delle religioni) di reagire con pertinenza all’emergere di nuove culture. Una prospettiva, questa, che, coerentemente con quella evocata dal Rapporto, indica nelle Chiese (nelle religioni) le attrici, e non solo le vittime, tanto del diffondersi dell’analfabetismo religioso, quanto del suo contrasto […].

La maggior parte dei contributi presenti nel Rapporto è sull’insegnamento della religione cattolica (Irc) nella scuola pubblica italiana, sul percorso storico attraverso il quale esso è passato lungo tutto il Novecento e sul suo attuale statuto […]. Certamente, è bene che le istituzioni che hanno voce in capitolo – lo Stato, da un lato, la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose (particolarmente quelle già titolari di un’Intesa con lo Stato), dall’altro lato – non smettano di interrogarsi sull’effettiva rispondenza delle attuali forme di alfabetizzazione religiosa presenti nella scuola italiana, e in primis dell’Irc, alle mutate circostanze storico-civili […]. Ma è altrettanto importante ricordare che non risultano per nulla superate, ma anzi appaiono particolarmente attuali le premesse a partire dalle quali la Conferenza episcopale italiana si incamminò per giungere al quadro attuale, e che il volume stesso richiama in un altro dei contributi che ospita: «La scuola fa parte propriamente delle strutture civili, in certa proporzione anche quando essa è organizzata dalle diocesi o da istituti religiosi […]. La formazione integrale dell’uomo e del cittadino, mediante l’accesso alla cultura, è la preoccupazione fondamentale. L’educazione della coscienza religiosa si inserisce in questo contesto, come dovere e diritto della persona umana che aspira alla piena libertà e come doveroso servizio che la società rende a tutti». 

Si tratta del n. 154 de Il rinnovamento della catechesi, il documento-base con il quale, nell’immediato post-concilio (siamo nel 1970), l’episcopato italiano metteva mano all’intero impianto della catechesi, e dove era già evidente la consapevolezza che l’insegnamento della religione nella scuola dovesse essere impartito, come in effetti avviene a partire dal 1985, al di fuori della catechesi, cioè «nel quadro delle finalità della scuola», pur «riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (Accordo di revisione del Concordato lateranense 9,2).

Da ultimo, vorrei fare riferimento a un altro ambito significativo sia per il consolidamento dell’analfabetismo religioso in Italia, sia per l’eventuale suo contrasto […]: il sistema della comunicazione di massa. Sia gli elementi empirici a disposizione di chiunque guardi la televisione, ascolti la radio, navighi sul web, frequenti i social network o legga, secondo l’uso antico, i quotidiani e le riviste, sia diversi dati e analisi un poco più strutturati messi in campo anche di recente (penso in particolare a un volume edito dalla LEV e a un numero monografico diDesk, la rivista dell’Ucsi), ci dicono che l’informazione religiosa risente, come e più degli altri giornalismi “specialistici”, di un processo di contaminazione con gli altri generi giornalistici che risulta, rispetto alla tradizione del genere che impropriamente chiamiamo “vaticanismo”, secolarizzante, e di conseguenza minaccia di accrescere l’analfabetismo religioso o perlomeno – in parallelo a quanto un altro autore del Rapporto afferma a proposito dei manuali scolastici – di produrre un’alfabetizzazione mediocre. 

Una questione abbastanza complessa, ma che possiamo essere aiutati a dipanare accogliendo le parole chiare rivolte da Papa Francesco, il 22 marzo scorso, all’associazione Corallo, che riunisce le radio e le televisioni “cattoliche”. «Per me – ha detto in quell’occasione – i peccati dei media, i più grossi, sono quelli che vanno sulla strada della bugia, della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Queste due ultime sono gravi!, ma non tanto pericolose come la prima». Perché, ha proseguito, «la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno». Il Papa non si rivolgeva, in quel frangente, a giornalisti specializzati nell’informazione religiosa. Ma a maggior ragione il suo monito vale, se applicato a questi ultimi, a contrastare l’analfabetismo religioso, anche perché ne traspare, come già un anno fa quando aveva ricevuto in udienza le migliaia di “vaticanisti” convenuti a Roma per il Conclave, l’idea che la professionalità, per un giornalista, venga prima di ogni appartenenza, fosse anche un’appartenenza religiosa.

Ho parlato all’inizio dell’amarezza che ha provocato dentro di me l’approfondimento di alcuni dati statistici. Accanto a quanto ho detto fin qui e che ho cercato – per quanto mi è stato possibile – di leggere in maniera critica, penso vada aggiunta un’altra considerazione trasversale ai tre ambiti dei quali ho parlato. Il preoccupante tasso di analfabetismo religioso registrato dal Rapportopenso che, almeno in parte, sia anche il frutto amaro ma evidente di un sentimento religioso che poggia su tracce cristiane infantilistiche, anche nel linguaggio e nelle immagini, che rivelano tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro marginalità rispetto a ciò che nel conta nel “mondo adulto”; un mondo adulto che domanda sempre di più al credente di saper “dare ragione della speranza” che lo anima e che innerva le sue progettualità; un mondo adulto che, proprio per questo, domanda contenuti di fede da adulti. 

Quelli che chiamo “contenuti di fede da adulti” sono il contrario, o comunque sono “altro” rispetto al pacchetto di dogmi e comandamenti, semmai anche conosciuti “a memoria”, ma senza che abbiamo un impatto vero sulla capacità di giudizio e di scelta dell’uomo. I contenuti di fede da adulti sono quelli che, radicati nel dato rivelato, permettono di formarsi e di avere una coscienza critica e una sensibilità capace di capire e di apprezzare le differenze, senza demonizzarle né volerle necessariamente omologare.
Un’ultima considerazione, che vorrei offrire come conclusione. 

Un’attenta lettura dei dati presenti nel Rapporto conferma quanto altre ricerche sociologiche affermano, e cioè che i due terzi degli italiani sono immersi in una fede light; nel senso che non si dichiarano atei e agnostici, anzi dicono di credere, ma non hanno le idee chiare sul contenuto del loro credere e non mantengono nessun contatto con la Chiesa. Forse è il caso di spendere qualche parola su questa fascia per niente marginale di sedicenti credenti. Sullo sfondo di questa, che amo chiamare fede light – e che non so se può ricondursi tout court alla figura dell’analfabetismo religioso – vi è il rimando non troppo implicito alla filosofia nietzscheana, secondo la quale la verità, la ricerca della verità e la conoscenza dei contenuti della verità è distinta dalla fede, che appare invece come qualcosa che non consente all’uomo “di coltivare l’audacia del sapere”. Il passaggio successivo al quale si approda è quello di identificare la ragione con la luce e la fede col buio e, di conseguenza, col ritenere che oggetto di fede è tutto ciò che la ragione non riesce a intercettare e a dominare.

In alcuni passaggi, la Lumen fidei – enciclica scritta a quattro mani da Papa Benedetto e da Papa Francesco – contribuisce al superamento di questa polarizzazione alimentata e portata alle estreme conseguenze dall’Illuminismo recuperando, intanto, quello che la tradizione biblica afferma della fede, e poi, ripresentando quanto ci ha consegnato la riflessione critica sul dato rivelato, a partire dal contributo di sant’Agostino. Tutto può essere sintetizzato nell’affermazione che la fede, senza negare il valore che ha ogni conoscenza razionale, non può essere ridotta a questa. 

La fede infatti è “esperienza di relazione”, attraverso la quale il credente viene inserito in un dinamismo di comprensione e di condivisione responsabile. Mi piacerebbe, a questo proposito, che una prossima ricerca potesse prendere in seria considerazione non solo la conoscenza dei contenuti della fede, ma che tentasse anche una sortita seria e intelligente, come quella condotta nel Rapporto, anche sulla fede come “esperienza di relazione”, per verificare – ma onestamente la vedo dura! – quante delle considerazioni presenti nel Rapporto conservano tutta la loro forza.

 
Nunzio Galantino

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