XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio-Anno B

Prima lettura: Geremia 31,7-9

 

  Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».      

 Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6 

 

 Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek». 

 L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Mechisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

 Vangelo: Marco 10,46-52 

 

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada. 

 Esegesi

 L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza. 

Meditazione 

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, percapire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo. 

Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro? 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova? 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata? 

 

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grafth, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.[…]

L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

 

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce. 

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

 

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi. 

Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

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