XIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: 1 Re 19,4-8

  In quei giorni, Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò.

     Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve.
Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.

 Elia sta fuggendo l’odio di Gezabele e si inoltra nel deserto. Lì si abbandona alla disperazione e vorrebbe morire. Il paragone è con Mosè che prostrato dal peso della missione di guidare il popolo nel deserto si lamenta con Dio e lo invoca: «Se mi devi trattare così, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, io non veda più la mia sventura» (Num 11,15; cf. Gb 7,15; Tb 3,6).

     Proprio nel momento del massimo sconforto interviene il Signore con una chiamata e l’offerta del cibo (1 Re 19,5).

     Elia trova una focaccia «cotta su pietre roventi» (19,6). Rashi il massimo commentatore medievale ebraico nota che il vocabolo ebraico rafim tradotto con «pietre roventi» è lo stesso che si trova in Isaia 66 ma al singolare rafa, indica la pietra ardente (di solito tradotta con carbone) che ha in mano il serafino (il vocabolo ebraico ha la stessa radice «ardere») con il quale purifica la bocca del profeta. Si tratta di una focaccia cotta per così  dire, sul braciere che arde davanti a Dio stesso.

La prima chiamata non basta a rinfrancare Elia. Il profeta si riaddormenta, non ha ancora la forza di riprendere a seguire la volontà del Signore.

     Questo riaddormentarsi di Elia è il segno della riluttanza del profeta a seguire la vocazione del Signore, che intuisce difficile e piena di ostacoli.

     Lo stesso Mosè cerca di opporre delle scuse che lo esonerino dal gravoso compito che Dio vuole affidargli (cf. Es 4.10.13). Geremia obietta di essere troppo giovane (Ger 1, 6) e Giona tenta addirittura la fuga.

     L’Angelo del Signore, che rappresenta Dio stesso, chiama Elia e lo invita a mangiare una seconda volta: solo dopo aver mangiato la seconda volta il profeta è pronto per il cammino fino all’Oreb, vale a dire il Sinai per ricevere e abbracciare con energia rinnovata l’insegnamento (Tôràh) del Signore e a predicarlo in Israele.

Seconda lettura: Efesini 4,30-5,2

 Fratelli, non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. 

 I versetti della lettera agli Efesini che leggiamo oggi fanno parte di una lunga esortazione a comportarsi secondo le esigenze della vita nuova ricevuta nel battesimo.

     Il v. 30 propone la motivazione teologica del dovere di comportarsi secondo i dettami descritti nella parentesi precedente e successiva: «non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio». Questa immagine fa percepire lo Spirito divino quasi fosse un educatore che partecipa alla vita dell’educando.

     Lo Spirito non è presentato come un principio astratto, ma, per così dire, persona capace di sentimenti; il verbo greco lupein indica una relazione interpersonale (cf. 2Cor 2,2-5; 7,8-9).

     È nello Spirito che i cristiani «sono stati segnati» nel «giorno della redenzione» (Ef 30b). Il riferimento è al battesimo che è il sigillo dello Spirito e inizio della redenzione, che avrà una sua manifestazione nel «giorno del Signore» espressione paolina simile a quella usata qui e che indica la parusia o manifestazione ultima del Cristo (cf. 1 Ts 5,2; 1Cor 1,8; 2Cor 1,14).

     I v. 31 e 32 indicano gli atteggiamenti e i comportamenti da evitare e quelli invece da praticare. L’autore specifica in cinque sinonimi «tutte le malignità (kakia)» da evitare, o meglio si può dire che vengono indicati quattro comportamenti frutto dell’ira, che i cristiani devono bandire nei rapporti fra loro (cf. v. 26): asprezza, sdegno, clamore, maldicenza. I battezzati, invece, devono imitare il comportamento di Dio rivelato in Cristo ed essere fra loro benevoli, misericordiosi e pronti al perdono.

     Il principio dell’imitazione di Dio è espresso esplicitamente in 5,1: «Fatevi dunque imitatori di Dio», che rammenta il comandamento biblico «Siate santi come Io [il Signore] sono santo» (Lev 19,2) ripreso da Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 48) e in Luca «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

     In 5,2 l’autore della lettera, per inculcare nei cristiani che il «culto» veramente gradito a Dio è il darsi per amore ad imitazione di Gesù Cristo, usa una combinazione di due elementi che si trovano nella Bibbia in contesti diversi. Usa i termini «oblazione e vittima» (prosfora kai thusia nel v. 5,1 tradotto «offrendosi a Dio in sacrificio») che sono citati anche in Eb 10,5 ripresi dal salmo 40,7 «Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta».

Vangelo: Giovanni 6,41-51

   In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Esegesi

     Nel brano del Vangelo di Giovanni tratto dal capitolo 6 continua il discorso sul «pane di vita» iniziato al v. 26 e che si prolunga fino alla fine del capitolo. Si tratta di un discorso il cui ambiente vitale è la liturgia.

     Gli studiosi vedono in 6,26-50 la liturgia della parola e in 6,51-58 quella eucaristica.

     I vv 41-42 servono da commento alle parole precedenti di Gesù e sono occasione per la continuazione del discorso. I protagonisti sono detti «giudei», termine che in Giovanni ricorre 77 volte, (5 in Matteo e Luca e 6 in Marco). Tale uso indiscriminato del termine è indice che quando l’evangelista compone il suo Vangelo, siamo ormai nel periodo in cui i «giudei» (ebrei) in diaspora si stanno riorganizzando e cercano di ricomporre la loro identità intensificando lo studio della Tôràh, dal quale nascerà il Talmud e la tradizione del giudaismo rabinico, che è il filone fondamentale dell’ebraismo giunto fino a noi.

     Il cristianesimo sta anch’esso mettendo a punto la propria dottrina; si stacca sempre di più dal giudaismo e afferma la sua identità spesso in polemica con il giudaismo, che ne costituisce la sua radice.

     La società ebraica, invece, in terra di Israele e nei tempi in cui Gesù predicava è scomparsa. Essa era molto composita, come intravediamo dai sinottici, che parlano di sadducei, farisei, erodiani, zeloti, seguaci del battista, oltre che di giudei e galilei per indicare gli abitanti delle rispettive regioni. Dobbiamo tener presente questa distanza e differenza per non cadere nell’errore di identificare in tutti i «giudei» (ebrei) gli avversari di Gesù, mentre in realtà la quasi totalità degli interlocutori di Gesù ai tempi della sua predicazione erano giudei, sinonimo di ebrei e non semplicemente abitanti della regione della Giudea, come Gesù stesso, i suoi Apostoli e i suoi discepoli.

     Prendere il termine «giudei», come purtroppo si è verificato, non prestando bene attenzione alla distanza e differenza fra la situazione di Gesù e quella posteriore della chiesa nascente, per indicare gli avversari di Gesù, è un errore, che ora siamo in grado di evitare grazie agli studi più approfonditi riguardanti l’ambiente del tempo di Gesù e quello della redazione dei Vangeli.

     Nei versetti letti oggi «giudei», probabilmente galilei di provenienza, sono alcuni della folla che esprimono delle perplessità su un discorso veramente difficile e che si farà addirittura paradossale, se preso alla lettera e non in senso sacramentale, quando Gesù dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue» (Gv 6,54.56). Essi non contestano che Dio possa dare «un pane di vita», ma sono stupiti che Gesù possa dire di sé di «essere il pane di vita». Essi infatti conoscono bene la sua famiglia, vale a dire lo conoscono per un uomo normale. Anche nei sinottici la conoscenza della famiglia terrena è un ostacolo alla comprensione di Gesù (cf. Mc 6,3; Mt 13,55-57; Lc 4,22).

     Al versetto 43 Gesù riprende a parlare; e invita a «non mormorare».

     Non è infatti uno sforzo personale di interpretazione delle sue parole che le farà comprendere, ma una chiamata del Padre: «nessuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira» (cf. Mt 16,17). Si tratta di una vocazione, dono gratuito di Dio. In linguaggio tradizionale si dice che è la grazia preveniente di Dio che suscita la fede.

     Frutto dell’attrazione del Padre e della conseguente fede in Gesù sarà la risurrezione: «Io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,44; cf. 6,39.40.54; 11,24).

     Come spiegazione dell’opera di Dio, l’evangelista cita un versetto di Isaia (54,11), seguendo con una certa libertà la versione della Bibbia ebraica dei LXX.: «E saranno tutti istruiti da Dio», «Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me» (Gv 6,45). L’insegnamento del Padre deve essere ascoltato ed accolto.

     Siamo qui alla presenza del mistero di Dio che chiama, e a quello della libertà della persona, che deve rispondere. Una persona non può venire alla fede senza «attrazione e insegnamento» divino, ma al tempo stesso conserva la libertà di rispondere positivamente o negativamente a questa chiamata. Si tratta di una accoglienza nell’ascolto, secondo la via normale indicata da Dio ad Israele: «Ascolta Israele» Shemà Israel (Dt 6,4), non secondo la visione: «Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (Gv 6,46).

     «Chi crede ha la vita eterna» (6,47), già fin da ora il credente, che sarà risuscitato «nell’ultimo giorno» partecipa della vita di Dio attraverso Gesù, che si fa «pane di vita». Perché chi lo mangia non muoia. Viene qui introdotto il discorso del «mangiare» che continua nel seguito del capitolo e che va inteso in senso sacramentale.

     Gesù stesso è il pane che discende dal cielo, non il pane materiale, fosse pure la manna donata come cibo ad Israele nel deserto. Si tratta della «carne» stessa di Gesù, donata per la vita del mondo. (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19).

     Il paragone con la manna, il cui nome ebraico è man hu, «che cosa è» ed e l’espressione degli ebrei quando la videro per la prima volta, sottolinea il dono gratuito di Dio che deve sorprendere coloro a cui è rivolto come ha sorpreso gli ebrei nel deserto. Si tratta di entrare nel mistero di Dio in Gesù che si dona per la vita del mondo e che si può accogliere solo nella fede, dono di Dio.         

Meditazione

     La prima lettura di questa domenica ci mostra il profeta Elia smarrito e disorientato, al punto di inoltrarsi nel deserto per cercarvi la morte. In questo momento egli ha perso il senso di Dio, che sembra essere entrato nel silenzio e aver abbandonato il suo profeta. Di fronte all’idolatria dilagante in Israele, Dio sembra tacere e disinteressarsi di quanto accade. Tutta l’identità di Elia è nella sua relazione con Dio, «alla cui presenza io sto» (cfr. 1Re 17,1). Se Dio tace, Elia smarrisce se stesso e il significato della propria esistenza. «A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,l). Più che cercare la morte, Elia cerca Dio e la sua parola. Il suo inoltrarsi nel deserto è come un grido innalzato verso Dio perché torni a parlare e a manifestarsi. E Dio ascolta il grido del suo profeta, parla, si rivela. A un Elia disorientato dona di nuovo un orientamento, apre una strada davanti ai suoi passi, offrendo anche un pane che sostenga il suo cammino. L’itinerario che Elia dovrà percorrere è lo stesso vissuto dai suoi padri, di cui sa di non essere migliore: quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb, altro nome con cui si identifica il Sinai, il monte dove Dio aveva parlato a Mosè e aveva stipulato l’alleanza con il suo popolo. E come la manna aveva nutrito Israele durante il cammino nel deserto, così ora c’è un pane che nutre il cammino di Elia. Il primo libro dei Re, nei versetti successivi, racconterà come l’esperienza di Dio che Elia vivrà sull’Oreb sarà molto diversa da quella vissuta da Mosè sullo stesso monte. A Elia Dio parlerà non in un vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco (elementi presenti nella grande teofania alla quale assiste Mosè in Esodo 19), ma nella voce di un silenzio sottile. Per ascoltare questa voce, e riconoscere in questo silenzio la presenza di Dio, Elia stesso dovrà entrare nel silenzio, mettendo a tacere le attese e i preconcetti con cui immaginava che Dio gli si rivelasse. Se fosse rimasto bloccato nei suoi pregiudizi, non avrebbe saputo ascoltare e riconoscere questo diverso modo di manifestarsi da parte di Dio. Potrà così comprendere che talora, quando Dio entra nel silenzio, è perché cambia il suo modo di parlare e vuole purificare la nostra attesa.

     Il Vangelo di Giovanni, di cui ascoltiamo un’altra sezione del capitolo sesto, mostra come i Giudei rimangano prigionieri della loro incredulità proprio perché incapaci di riconoscere la rivelazione di Dio nella carne di Gesù. Dio entra persino in questo silenzio per manifestare la sua gloria: il silenzio di una carne in tutto simile alla nostra, ma che già prelude a un abbassamento ben più profondo, quello che giunge fino al silenzio della Croce. Il Prologo del Vangelo lo aveva già annunciato: «il Verbo, la Parola, si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (1,14). Tutta la gloria di Dio si rivela nel farsi carne della Parola e nel suo dimorare in mezzo a noi. Questo occorre ascoltare, vedere, contemplare per fare esperienza di Dio. Ma è proprio questo che suscita la mormorazione e l’incredulità dei Giudei: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire “Sono disceso dal cielo?”» (6,42). È lo scandalo dell’incarnazione a impedire la fede. Due schemi o due logiche di pensiero si contrappongono. Per i Giudei la carne di Gesù, il suo essere uno di noi, smentisce la sua pretesa di venire dal cielo e di essere il rivelatore di Dio. Al contrario, per Gesù è proprio la sua carne, il suo venire dal cielo per dimorare tra di noi come uno di noi, a dire tutta la verità di Dio. Dio è infatti così: è colui che tanto ama il mondo da donare il proprio Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna», come annuncia Gesù a Nicodemo (3,16).

     «Solo colui che viene da Dio ha visto il Padre» (6,26), afferma Gesù per vincere l’incredulità dei suoi interlocutori. Occorre intendere in senso forte questa espressione. Non sta a indicare solamente che Gesù conosce il Padre perché viene da lui, appartiene alla sua sfera, è da sempre rivolto verso il seno del Padre (come ricorda ancora il Prologo nel versetto conclusivo, il 18). Più radicalmente, Gesù conosce il Padre perché si lascia da lui donare al mondo fino allo scandalo dell’incarnazione e della Croce. Conoscere il Padre significa infatti ri-conoscere la gratuità del suo dono, o meglio il suo essere il Donatore. In secondo luogo, si può riconoscere il Padre come Donatore solo lasciandosi consegnare al mondo, come Gesù, che fa di tutta la sua vita un’offerta: «il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51).

     Per giungere alla fede occorre perciò spezzare le catene dei propri preconcetti su Dio, lasciandosi attirare dal Padre e istruire da lui. «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato… Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (v. 45). La fede implica lasciarsi strappare alle proprie certezze, che ci scandalizzano e ci conducono a mormorare, per divenire docili all’attrazione con cui il Padre ci fa venire a Gesù. Lasciarci consegnare a Gesù ci fa entrare in quella dinamica del dono che qualifica tutta la sua vita. Le sue mani ci accolgono, ci custodiscono, così che nessuno vada perduto, ma venga da lui risuscitato nell’ultimo giorno. Gesù lo aveva poco sopra affermato dialogando con i suoi interlocutori, in alcuni versetti che la lectio liturgica omette e che può essere utile qui richiamare: «Tutto ciò che il Padre mi , verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.

E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno (6,37-39).

     A Elia Dio aveva offerto un pane che gli consentisse di camminare fino all’Oreb. A ciascuno di noi Dio dona il proprio Figlio unigenito come un pane che ci fa camminare verso il Padre. Ci rende figli come lui è Figlio, ci rende dono come lui è Dono. Solo così possiamo conoscere il vero volto del Padre, che non trattiene il Figlio per sé, ma lo offre affinché  nessuno vada perduto. La logica implicita nel segno operato da Gesù si chiarifica: dopo aver sfamato la folla, Gesù ordina: «raccogliete (meglio: radunate!) i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Gesù offre la propria carne per la vita del mondo, affinché  nessuno vada perduto. È pane di vita che ci comunica la vita eterna, una vita che non si perde, non deperisce, non viene meno proprio perché vive il passaggio dalla logica del possesso a quella del dono. Nei Sinottici Gesù esprime questa dinamica con le parole: «chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 6 15) In Giovanni afferma: «Ho il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Gesù, pane di vita, ci comunica la vita eterna, una vita che rimane perché riceve da lui la medesima possibilità che egli riceve dal Padre, nell’obbedienza alla sua parola e al suo comandamento: la possibilità di riprendere la vita perché la si offre per la vita del mondo.

Preghiere e racconti

Pane spezzato e offerto

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Il pane vivo

 «Io sono il pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51). Vivo precisamente perché disceso dal cielo. […] I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Fratelli miei, capite quello che vi dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, grazie alla quale sei un uomo; sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: qual è il principio vitale del tuo essere? È il tuo spirito che vive del tuo corpo o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive? E il mio corpo che vive del mio spirito. Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. E quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo» (1Cor 10,17). Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si deve amputare. […] Rimanga unito al corpo, viva di Dio per Dio; sopporti ora la fatica su questa terra per regnare poi i cielo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 26,13, NBA XXIV, pp. 608-610).

La singolarità dell’eucaristia

«Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18). Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vocabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucaristia.

L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorprendente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore. Siamo di fronte a uno di quei gesti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.

L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.

In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.

Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso. Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.

Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve. Poiché la Pasqua rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria. È quindi normale e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia assunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.

Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eucaristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con loro.

Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).

E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasformazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.

L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.

Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il mistero pasquale. D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nell’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di stare realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

Non di solo pane vive l’uomo

Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressione al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuole far comprendere che la vita vera, quella che attende l’uomo, non la puoi conseguire con i beni materiali. Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo presente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità. Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla terra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi. Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale. Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali sono divenuti una droga, di cui hanno continuamente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmente. Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per renderti conto dell’inganno mortale.

(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).

Preghiera

O mio amato Salvatore! Tu sei davvero tutto per me, perché mi doni la vita eterna nel dono di te stesso.

Il mistero dell’eucaristia è grande e sconfinato, ma oggi le tue parole chiare, provocanti, nette e decise lo illuminano in modo inequivocabile. Tu mi dai la tua vita, che è vita eterna, perché un giorno hai saputo donare la vita! Ti ringrazio, ti benedico, lodo la tua santa passione e risurrezione, adoro con gioia la tua sapienza che mi raggiunge nelle mie preoccupazioni terra a terra.

Tu sai come è difficile per me alzare lo sguardo alle tue grandi prospettive. Io mi lascio avviluppare dalle cose che passano e dentro rischio di metterci anche la tua eucaristia, dandole magari tanti significati umani, giusti di per sé, ma ben lontani dal significato decisivo che oggi mi presenti.

Tu vuoi che io viva per sempre con te, perché sei e sarai la mia realizzazione e quindi la mia felicità. Ogni giorno tu mi immergi nella tua eternità offrendoti in cibo.

Tu porti con te la vita che ti lega al Padre e vuoi trasmettere a me!

Apri i miei occhi annebbiati dalle cose di ogni giorno, perché possa legarmi indissolubilmente a te, anche per portare tutti con me, nella tua vita!

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO …

XIX DOM TEMP ORD ANNO B

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