L’Italia sta scoprendo in grave ritardo che i dati sulla situazione delle famiglie sono allarmanti. A emergere non è soltanto la difficile situazione economica che molti nuclei familiari stanno affrontando in questi ultimi anni; ancora più compromessa è la dinamica relazionale che vede sempre più confusi i più giovani e sempre più disillusi gli adulti.
Che cosa sta succedendo? Succede che quasi metà dei giovani italiani, tra i 25 e i 34 anni, vive ancora con i genitori. Succede che solo 1 coppia su 3 in Italia ha figli (vent’anni fa era 1 coppia su 2). Succede che diminuiscono i matrimoni, aumentano i divorzi e si diffondono forme “nuove” di convivenza: single con single, single con figli, nuclei allargati.
La questione economica è certamente importante. Molti commentatori la usano diffusamente per spiegare questi dati. Ma c’è molto di più: a causare queste condizioni è una distorsione del senso stesso di famiglia, che è tutta antropologica. L’emancipazione della donna è diventata lotta contro il maschio ed emancipazione della maternità.
Quale miglior modo per emanciparsi dalla maternità che equiparare rapporti aperti alla vita e fecondi a rapporti infecondi? L’indifferenza sessuale (teoria del gender) è il nuovo nome dell’infecondità. In tempi difficili le famiglie numerose erano per i padri e le madri una chiara risposta comunitaria alla crisi, una risposta di fiducia nella propria forza di generare ed educare una prole in grado di lavorare, migliorare la qualità della vita, “risollevare” la famiglia nell’ascensore sociale. Un figlio era come messaggio di salvezza e di riconciliazione del mondo.
Oggi i dati dell’Istat ci dicono che l’ascensore sociale è bloccato, anzi, volge inevitabilmente verso il basso. Le coppie sono scoraggiate a fare figli perché non credono di poter garantire loro una vita “dignitosa”. La poca fiducia in se stessi, un certo egoismo che si sviluppa nei momenti di difficoltà e tensione, l’incapacità di reagire e pensare ad un futuro diverso: ecco i veri fattori che scoraggiano a “fare famiglia”. I figli, quelli da fare o quelli già fatti, sono le prime vittime di tutto questo.
Un Paese a crescita zero che non sa più dialogare con i giovani e sacrifica sull’altare del relativismo le nuove forze che rinnovano una società e la fanno crescere. Si diffonde la cultura “gender” che nega la differenza sessuale e promuove nei dibattiti televisivi, nelle telenovelas, nelle sit-com, nelle fiction e nelle pubblicità l’indifferenza sessuale.
Allo stesso tempo sempre più spesso i media ci fanno assistere a vere e proprie parodie delle famiglie “tradizionali”, mostrando contesti familiari plastificati e senza tensioni, da sogno, che sono in contrasto con le fisiologiche difficoltà che tutte le famiglie normali vivono nel loro contesto quotidiano. È una sorta di “anti-genesi”, una vera “ferita antropologica”.
In questo contesto diventa necessario anteporre l’ecologia delle relazioni umane a tutte le nostre priorità. Per salvare l’uomo stesso e il senso del suo stare nel mondo. È un lavoro lungo che trova un valido supporto nella Dottrina Sociale della Chiesa. Basta ricordare il beato Giuseppe Toniolo, a cui la sezione di Agorà di questo numero è interamente dedicata. Infatti, vi si riportano le relazioni svolte nel Laboratorio DSC dedicato alla beatificazione di questo straordinario protagonista del cattolicesimo sociale.
Toniolo esprime bene la sintesi tra famiglia, lavoro e festa nel essere insieme padre, docente universitario, autentico campione di solidarietà sociale. Aspetti tutti riassunti in una tenera lettera mandata ad un suo allievo, nel 1879, in cui Toniolo così scriveva: “Ci sono degli amori che deprimono e che dissipano; altri che sospingono all’operosità buona e proficua. Le auguro quei conforti veri e inestimabili, che accompagnano sempre il connubio cristiano, e di cui io (contro i miei meriti) feci e faccio esperimento”.
Unire dunque: famiglia, lavoro e impegno sociale. Ancora oggi ci sono moltissime strozzature alla capacità lavorativa delle famiglie, soprattutto delle donne. Basti pensare al grave ritardo in cui ci troviamo, rispetto alle economie più avanzate, nella presenza capillare e diffusa di asili nido che possano permettere alle madri di armonizzare la vita lavorativa e quella familiare (ad oggi quasi una madre su tre abbandona il lavoro dopo la nascita del primo figlio).
Come avvertiva, nel 2004, l’allora Presidente Ciampi: “una società evoluta non può rinunciare né all’impegno pubblico della donna, né al suo ruolo di madre. Le culle vuote sono il vero problema della società italiana”.
Proposte concrete possono trovarsi, così come è stato fatto nel recente rapporto “La famiglia in Italia” dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia. Il rapporto individua diversi strumenti per mettere insieme famiglia e lavoro: locali e spazi dei luoghi di lavoro dedicati ai figli, l’uso dei congedi genitoriali, gli aiuti alle famiglie che si prendono cura degli anziani non autosufficienti, i sostegni alle famiglie fragili (con minori in tutela o a rischio di allontanamento, in cui i genitori sono separati/divorziati, famiglie migranti).
A questi vanno aggiunti il rilancio del modello economico-sociale che è l’impresa familiare e di quello cooperativo tra più famiglie che lo stesso Toniolo amava richiamare nei suoi studi. Sono punti essenziali, se si vuole parlare di “politiche familiari” così come intese nella letteratura scientifica utilizzata nelle rilevazioni OCSE: politiche destinate a creare e ricollocare risorse per i nuclei famigliari e per i figli a carico.
Bisogna rendere amici della famiglia il lavoro, la scuola, l’ospedale, il negozio, i centri per gli anziani. Bisogna tornare al family mainstreaming contro le pressioni della cultura gender. Bisogna ritornare ad un pensiero globale sulla famiglia e abbandonare definitivamente l’attuale pensiero frammentato sulle “famiglie” che, incapace di fare sintesi, crea divisioni e trincee.
Se i tentativi di eliminare l’aut-aut lavoro o famiglia sono primi passi utili a risolvere alcune criticità nel breve periodo, non si deve trascurare l’aspetto spirituale e relazionale delle famiglie, aspetto ben più complesso, almeno in apparenza. Ad essere trascurata è l’importanza di strumenti molto semplici che sanno mettere insieme famiglie e comunità e che necessitano di un urgente ritorno nel panorama sociale.
Il primo e più immediato modo per stare insieme è la festa. Festa è stata il VII Incontro delle Famiglie, tenutosi a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, che ha visto partecipare famiglie da tutto il pianeta in un contesto di gioia, dialogo e spiritualità che non si vedeva da molto tempo.
Famiglie, lavoro e festa. Tutto insieme, senza nessuna scelta di priorità che esclude il resto. Lo stesso Benedetto XVI, nella lettera di introduzione a questo grande evento, così si è espresso: “Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr Gen 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana.”
L’aver visto molte famiglie insieme ha ridato un forte rinnovamento di speranza. Si fanno così avanti nuove forme di collaborazioni: famiglie giovani che si danno una mano e fanno comunità, comunità parrocchiali che organizzano corsi post-matrimoniali per supportare e aiutare le coppie nei loro momenti più critici, la riscoperta del racconto, della testimonianza di vita nell’educazione dei figli. La rinascita della fratellanza e del rispetto, il ritorno alla dimensione sociale del nucleo familiare che scopre, piano piano, di non essere più un’isola.
La festa è un fattore di reciproca riconciliazione che non va più messo in secondo piano. Attualissima è la lezione del Vangelo nella parabola del figliol prodigo, in cui la festa diventa il momento che sancisce il ritorno del figlio “perduto” nella casa del padre che, nel rispetto di quella che è la sussidiarietà, lo aveva lasciato partire. Ammazzare il vitello grasso, vestirsi dell’abito più bello, l’anello più prezioso. Onorare, santificare le feste e stare insieme.
Stare in famiglia, in fondo, non è altro che riscoprire e ritrovare la capacità di amare: se stessi, i propri familiari, gli altri. La famiglia quale segno d’amore per la società. La Dottrina Sociale ce lo ricorda a chiare lettere: “La famiglia, comunità naturale in cui si esperimenta la socialità umana, contribuisce in modo unico e insostituibile al bene della società.
La comunità familiare, infatti, nasce dalla comunione delle persone: La “comunione” riguarda la relazione personale tra l’“io” e il “tu”. La “comunità” invece supera questo schema nella direzione di una “società”, di un “noi”. La famiglia, comunità di persone, è pertanto la prima “società” umana.”(Compendio DSC, 213).
A Milano, davanti a oltre un milione di persone, il Papa ha incoraggiato e sostenuto non il paradigma della famiglia da cartolina, ma quella che vive concretamente la realtà sociale e subisce tutti i drammi della crisi, delle incomprensioni, delle separazioni. Va letta così l’attenzione particolare dedicata ai divorziati, di cui Benedetto XVI coglie tutta la sofferenza.
Nella sua Omelia di Domenica 3 giugno, davanti ad una folla oceanica, il Papa ha ricordato alle famiglie: “Nella misura in cui vivrete l’amore reciproco e verso tutti, diventerete un Vangelo vivo, una vera Chiesa domestica”. Immancabile anche un richiamo alla necessità di “armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la maternità, il lavoro e la festa.”
La festa milanese ha mostrato che il cuore della società sono le relazioni tra persone e non l’individualismo né lo statalismo. Lo ha mostrato concretamente in variegate forme e senza stare sulla difensiva. Il Vangelo e la DSC ci salvano dagli “svuotamenti sociali”, dal consumismo che diventa illusoria ragione escatologica e da un assistenzialismo che annulla la partecipazione democratica.
Oltre un secolo fa Giuseppe Toniolo ricordava ai cattolici il loro ruolo di protagonisti per costruire una società migliore. Nel 1886 Toniolo così diceva: “I cattolici dovranno combattere da una parte l’economia individualista e liberista e dall’altra l’economia panteista o il socialismo di Stato. Solo per virtù di tali principi essi riusciranno a salvare ad un tempo le ragioni della libertà individuale privata e quelle del progresso del corpo sociale: ragioni oggidì alternamente compromesse da un liberalismo che dissolve e da una statolatria che soffoca e uccide.”
Durante la festa delle Famiglie, Benedetto XVI si è rivolto ai politici per riscoprire, insieme, il senso di uno Stato per i cittadini. Egli ha ricordato, nel suo incontro con le autorità, che per lo Stato “appare preziosa una costruttiva collaborazione con la Chiesa, senza dubbio non per una confusione delle finalità e dei ruoli diversi e distinti del potere civile e della stessa Chiesa, ma per l’apporto che questa ha offerto e tuttora può offrire alla società con la sua esperienza, la sua dottrina, la sua tradizione, le sue istituzioni e le sue opere con cui si è posta al servizio del popolo.”
Ancora una volta si ribadisce che la tradizione della Chiesa e la DSC possono guidarci nella riscoperta di quello che è il senso del nostro stare insieme con gli altri. Non ci dà ricette, né semplici liste di priorità. Ci fornisce una bussola, dei principi su cui fondare l’agire del cristiano e degli uomini di buona volontà.
Una bussola i cui punti cardinali sono principio-persona, sussidiarietà, solidarietà, bene comune. La famiglia è la sintesi più potente di questi cardini, l’orizzonte verso cui politica, impegno sociale, lavoro culturale, devono tornare a guardare se il futuro lo si vuole costruire e non soltanto declamare.
di Claudio Gentili, Direttore de “La Società”
ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org) –